È il 13 Luglio del 2014, e l’Argentina si sta giocando la finale dei Mondiali brasiliani con la Germania. Al “Tita Mattiussi”, il centro di allenamento delle giovanili del Racing Avellaneda, i ragazzi «corrono per i corridoi imitando i gol di Messi, la cumbia è sempre ad alto volume e le partite si aspettano con grande ansia». Tita Mattiussi è una figura mitica per il club che viene anche chiamato La Academia per l’attenzione che ripone, da sempre, verso le sue giovanili: è stata l’addetta alla lavanderia – incarico che ha ereditato da sua madre –, nonché la cuoca dei ragazzi che alloggiavano nella pensione del club, l’unica che è stata costruita e viene attualmente gestita direttamente dai suoi tifosi. Una sorta di madre sostitutiva.
La sera del 13 luglio, però, è la Selección la madre sostitutiva dei pibes: tra loro c’è un giovane attaccante, sedici anni, giunto proprio quell’anno da Bahía Blanca, che si è dipinto sulle guance i colori della bandiera argentina: si chiama Lautaro, Lautaro Martínez. Sta guardando la partita con Brian Mansilla: entrambi giocano in attacco, Brian sa che Lautaro, da un momento all’altro, potrebbe rubargli il posto, e il sogno di ascendere alla prima squadra prima di lui. Lautaro non riesce ad adattarsi: gli manca la famiglia, sta pensando di smettere, di tornare a Bahía Blanca. «Ma come te ne vuoi andare, boludo», gli dice Brian. «Smettila di rompere, fermati qua che un giorno arriveremo in Primera e spaccheremo tutto». Insieme avrebbero esordito, entrambi, con la prima squadra del Racing. E sarebbero arrivati a vestire la camiseta albiceleste della Sub20. Se Lautaro è diventato, effettivamente, il nuovo centravanti del Racing (l’esordio l’avrebbe visto sostituire Diego Milito, la leggenda del club), la carriera di Brian Mansilla, invece, si sarebbe dissolta in un fade out un po’ triste.
___STEADY_PAYWALL___
Ma quella sera non c’è tempo, né spazio, per la speranza: il mondo sembra crollargli addosso. Non hanno neppure la forza di immaginare che un giorno, in finale in un Mondiale, potrebbero esserci loro. Che il fracaso potrebbe essere il loro. In un racconto scritto per un libro che si chiama “Pelota de papel”, e che raccoglie scritti di Gago, Saviola, Aimar e Sampaoli, tra gli altri, è lo stesso Lautaro a raccontare, ne “Il sogno della pensione”, le emozioni provate quella nefasta sera: i virgolettati sopra sono i suoi.
Figlio di un difensore delle serie minori, è il padre che lo ha spinto verso il mondo del calcio, ma a patto che diventasse attaccante – perché si tratta sempre di un parricidio, in una maniera o nell’altra. La crescita di Lautaro non è stata simile a quella di altri grandi calciatori, che ce l’hanno fatta facendo leva soltanto sulle proprie motivazioni. Quella è una storia che appartiene a pochi eletti, a Lautaro per definire il suo valore, il suo peso specifico, il suo posto al mondo c’è sempre stato bisogno di qualcun altro, di una spinta uguale e contraria.
Quando, giovanissimo, era depresso e ne sentiva la mancanza, la famiglia non ha fatto leva sul processo psicologico della nostalgia come propellente motivazionale: si è trasferita in blocco ad Avellaneda. Quando, disilluso, ha manifestato la volontà di smetterla con il calcio, di tornare a casa e passare le giornate a giocare a basket – Bahía Blanca è anche la culla di Manu Ginobili – il suo compagno di reparto Brian lo ha placcato, poi convinto; poi, in qualche modo, si è immolato lasciandogli il passo, concedendogli il protagonismo.
L’affermazione di Lautaro è sempre passata attraverso la necessità di un contrappunto, di un partner in crime non arrendevole ma accondiscendente, e poi di un punto di riferimento: come in quella leggenda cinese secondo la quale ognuno di noi porta legato al mignolo della mano sinistra un sottile filo rosso che conduce al suo destino, e alla sua anima gemella, comprendere l’ascesa di Lautaro Martínez significa riavvolgere quella matassa, trovarne il bandolo opposto.
Il dono delle decisioni, il peso dell’esperienza
Cecilia Contarino è una giovane psicologa che lavora per il Racing. Periodicamente mette alla prova la capacità di concentrazione, e quella di prendere decisioni, ai più di duecento ragazzini che militano nella semillera dell’Academia. Lautaro è sempre stato tra quelli con i risultati più alti. E in campo lo ha sempre dimostrato: non solo nella velocità mentale con cui si assume la responsabilità delle proprie decisioni, compie movimenti, prende le misure, sguscia via, si propone e partecipa al gioco, ma anche – e soprattutto – con la sua capacità predittiva. Dopo aver segnato, nella sua prima stagione da titolare, un gol clamoroso, un missile terra-aria alla Bombonera, contro il Boca, in un’intervista dirà «la giocata del gol? Me la sono immaginata un secondoprima».
Sente l’avversario sopraggiungere, lo subodora: argina la carica del difensore piantando le gambe a terra, allargando le braccia. Cade, accartocciandosi su se stesso, si rialza: non ha mai perso il pallone di vista, non lo ha mai perso davvero. Il suo modo di giocare è testardo. La sua fiamma sacra è la caparbietà, quella che da qualche parte viene chiamata tigna, o cazzimma. Ciò che si propone, in un modo o nell’altro, lo persegue. A San Siro contro il Barcellona: riceve palla nella sua metà campo, lo triplicano. Davanti a sé Busquets, Raphina, Dembelé. Quello che balla non è un tango, elegante, armonico: gira su sé stesso come in un passo di cuarteto, con la sinuosità sfrenata della cumbia. Resiste all’attacco di un avversario, ruota, dribbla sullo stretto, crolla, eppure da terra riesce a servire il pallone per non compromettere la fluidità del gioco.
«Ho sempre lavorato, fin da piccolo, sulle mie armi principali: la concentrazione, e la voglia di non arrendermi mai. Lasciare la pelle sul campo per aiutare i miei compagni».
L’Effetto Mandela, o “falso ricordo”, è quella specie di allucinazione collettiva in virtù della quale ci convinciamo con tutte le nostre forze che un ricordo che conserviamo sia vero: non riusciamo a mettere in dubbio, su due piedi, che ciò di cui siamo convinti sia certamente successo. E invece, poi, non è successo. Lautaro Martínez con la Selección ai Mondiali di Russia, come è potuto non accadere?
Era la next big thing del calcio albiceleste, l’enfant prodige di un contesto alla ricerca di stimoli nuovi, di idee entusiasmanti, di talento e perseveranza. Il giorno in cui il commissario tecnico Sampaoli è andato a osservarlo dal vivo, nel febbraio del 2018, ha segnato una tripletta distruggendo le velleità del Cruzeiro, in una partita di Libertadores. Personalità, potenza, entusiasmo: a Lautaro non mancava nulla.
Finirà nella lista dei preconvocati, ovviamente: ma non in Russia. Sampaoli lo taglierà nell’ultima tranche decisionale, perché – nella sua visione – gli attaccanti a cui voleva affidarsi erano quelli, letteralmente, «capaci di prendere decisioni con rapidità». Nelle convinzioni incrollabili di Sampaoli, quel prototipo di attaccante nella Primera Argentina non c’era, non poteva esserci. Solo l’esperienza, e l’esperienza in Europa, avrebbero saputo forgiare un attaccante del genere.
«Sono quel tipo di persona che si butta giù», dice Lautaro in un’intervista a El Gráfico, «a volte mi sottolineano che dovrei farlo di meno». L’intervista è di qualche tempo prima dei Mondiali: l’esito sarebbe potuto essere quello della parentesi di tempo immediatamente successiva.
Lautaro, invece, non crolla: si trasferisce in Italia. Ma ancor prima di esordire con l’Inter, è già al centro del progetto di Lionel Scaloni.
Quando Jorge Sampaoli ha assunto la guida tecnica dell’Albiceleste, nel giugno 2017, Lionel Scaloni si è aggregato in extremis. Lo staff tecnico era già al completo, composto dagli uomini più fedeli al zurdo, gli stessi che lo avevano accompagnato – capintesta Beccacece – nell’avventura sulla panchina del Cile. Guidare una Nazionale non è lo stesso che guidare un club. Per convincere Sampaoli ad aprirgli le porte, però, Scaloni – che era stato il suo vice al Siviglia – centra la sua candidatura su un discorso così naïf, coerente e cristallino da non tradire neppure una punta di astuzia: il suo sguardo esterno, dice Scaloni, avrebbe fornito il contrappunto sul quale testare gli assunti teorici di Sampaoli. Il suo compito, sostanzialmente, sarebbe stato quello di curare i rapporti con i giocatori – categoria che aveva abbandonato, dopotutto, da soli due anni.
Dopo la disastrosa performance dell’Argentina in Russia – più in termini di equilibri interni, forse, che di risultati veri e propri, dacché a sancire l’eliminazione in fondo è quella Francia che si sarebbe laureata campione – Sampaoli viene sollevato dal suo incarico. E dopo aver ricevuto il no di Beccacece – che con una scelta per niente controintuitiva, intelligente seppur mascherata con gli stracci lisi della fedeltà a Sampaoli, declina – la Nazionale viene affidata nelle mani inesperte di Lionel Scaloni, l’unico che il gruppo – durante l’ammutinamento russo – non aveva defenestrato.
«L’esperienza», disse una volta Oscar “Ringo” Bonavena, mitologico pugile argentino, «è il pettine che ti affida la vita proprio nel momento in cui sei rimasto pelato». Non ci sono particolari visioni, alla base dell’impianto teorico della gestione Scaloni. Come avrebbe fatto, la sua squadra, allora, a diventare “la Scaloneta”? Semplicemente facendo leva sulla coesione, sulla motivazione, sull’entusiasmo. Di quel gruppo, con la fame che lo muoveva, non avrebbe potuto non avere un’occasione Lautaro Martínez.
Il maestro apre la porta, ma tu devi entrare da solo
Fortuna o semplice tempismo? Sopravvalutazione da parte degli altri, o vero e proprio inganno?
Nel Mondiale U20 2017 giocato in Corea, l’Argentina si presenta con una squadra di grande talento. Ci sono Foyth, Lisandro Martínez, Exequiel Palacios e Matías Zaracho: in attacco, Ezequiel Ponce e la coppia di enfant prodiges del Racing, Lautaro e Brian Mansilla. Nell’ultima partita del girone, dopo una vittoria e una sconfitta, contro l’Inghilterra, serve una vittoria: arriverà una sconfitta sonora. Al 75’, con l’Inghilterra già in vantaggio di due reti, Lautaro lotta sulla fascia con Fikayo Tomori. Difende con il corpo la palla, Tomori crolla a terra e Lisandro converge verso l’area, pericolosamente. Quando l’azione sfuma, il VAR interviene per decretare l’espulsione di Lautaro, reo di aver colpito con una brutta gomitata Tomori.
Nell’esordio nell’Albiceleste dei grandi, il marzo successivo, aveva assistito impotente al tracollo dei suoi contro la Spagna, vittoriosa per 6-1. Cosa aveva fatto, di preciso, Lautaro per guadagnarsi spazio nella Nazionale di Scaloni? Era sufficiente la tigna?
Senza essere ancora riuscito a rendersene conto, a ottobre parte nell’undici titolare, in amichevole, con l’Iraq. Segna il suo primo gol con l’Albiceleste di testa, con un’incornata violenta, perentoria. È il simbolo della potenza giovanile, dell’esuberanza incontenibile. Lo hanno soprannominato el Toro, e per lui ogni partita è davvero un encierro, ma al contrario, in cui gli avversari non scappano, ma cercano di afferrarlo per le corna, annientarlo. Quando carica le difese avversarie ha la potenza di uno stampede di bisonti: ma a differenza dei nove classici della storia argentina recente, da Palermo a Batistuta a Crespo, non ha l’allure sufficiente per essere mortaio, ariete, arma da assedio che guida la rivolta, capopopolo.
Lautaro non è Mauro Icardi: non minimizza al più alto livello zen la propria presenza nelle trame di gioco. Per esprimersi ha bisogno di associarsi, di cedere la palla, di dettare il passaggio. Di fare da testa di ponte al gioco della sua squadra, di agevolare. È un facilitatore. Di Mauro Icardi non ha il carisma accentratore, l’autorevolezza. Nel Natale della stagione del suo debutto italiano l’Inter, con una campagna su YouTube chiamata Interpresent, cerca di farlo conoscere meglio ai suoi tifosi facendo perno su una retorica per certi versi un po’ scontata, ma anche motivante, forse soprattutto per Lautaro: lo rappresenta come una salsa per l’asado, una salsa i cui ingredienti sono potenza, autorevolezza e virilità (sic).
Arriverà Santa Claus, e avrà il taglio degli occhi di Lautaro: il 26 dicembre, contro il Napoli, Lautaro segna la sua prima rete con l’Inter, in pieno recupero, con un bel sinistro al volo, tecnicamente inappuntabile.
Un gol macho, che inizia a riempire, in qualche modo, un vuoto che si sta già spalancando all’interno della squadra nerazzurra. Di lì a poco il feuilleton Icardi – che in quel gol galleggia al centro dell’area, spaesato – esploderà in tutto il suo dramma mélo, il punto di riferimento, la chioccia e il più diretto competitor di Lautaro uscirà di scena, con una malinconia fragorosa, perdendo fascia di capitano, posto in squadra, autorevolezza. Si direbbe che per osmosi questa responsabilità scivolerà verso Lautaro, al quale è stata subito assegnata la maglia numero dieci, e sul quale si ripongono speranze altisonanti.
Ma buona parte di quell’autorevolezza, in realtà, deriverà dal fatto che dall’altro capo di uno dei fili rossi che regge il destino di Lautaro, sorprendentemente ma forse neppure troppo, el Toro scoprirà esserci nientemeno che Lionel Messi.
Nella Copa América del 2019 la coppia titolare della Selección è composta da Messi e dal Kun Agüero. L’esordio con la Colombia è disastroso, e già dalla successiva sfida con il Paraguay Scaloni si affida a Lautaro per supportare Messi. Al quarto d’ora della ripresa l’Albiceleste è sotto di un gol: De Paul imbecca il Kun, in area, leggermente defilato. Lautaro si smarca al centro dell’area, eludendo i movimenti di tre difensori: gli scompare da sotto gli occhi, e si fa trovare pronto per deviare in acrobazia, di sinistro, il cross. La palla finisce sulla traversa, ma dopo esser stata deviata dalla mano di un difensore. Messi realizzerà il rigore seguente.
Se c’è un momento in cui Lautaro comincia a ricoprirsi di quella patina dorata che hanno gli attaccanti generazionali, quelli che marcano un’epoca perché perfetta espressione delle alchimie, dei meccanismi e dell’espressione di una determinata squadra, quel momento è la Copa América 2019, la competizione che Scaloni avrebbe dovuto vivere da traghettatore e che finirà invece per essere prodromo dell’instaurazione di un regno. Lautaro viene impiegato da punta centrale, o al fianco del Kun con Messi da enganche. In lui, Lionel rivede Luis Suárez per la maniera in cui riesce a gestire i tempi di gioco, difendere il pallone, ma poi anche ribaltare la schiena tenuta verso la porta, e segnare.
Più compadre che gaucho
In una delle sue conferenze sul tango, Jorge Luis Borges disse che l’Argentina è associata principalmente a un uomo e a una musica: il gaucho e il tango. L’eleganza eterea, sensuale, e la solitudine – il bastarsi di per sé – sono stati anche tratti dell’espressione dell’argentinità nel calcio. Lautaro Martínez rientra piuttosto in quella categoria che ha accompagnato l’evoluzione passando per Batistuta, Crespo, lo stesso Kun, dal gaucho al compadre, con i coltelli nello sguardo, e dal tango alla cumbia.
Quando gli chiedono quali siano i suoi gol preferiti, ai tempi del Racing, cita tiri da metà campo, rovesciate, sombrero al difensore avversario. Ma l’essenza più profonda del suo stile si nota nei gol segnati finora con la Nazionale: l’incornata di testa con l’Iraq nella sua partita d’esordio, la capacità di muoversi in una mattonella e porre rimedio, nel giro di pochi secondi, a movimenti che sembravano preludio all’errore, come contro il Nicaragua; la caparbietà che mette nell’interruzione della costruzione con il Qatar, in Copa América, e con la Bolivia, nelle recenti qualificazioni al Mondiale, quando insiste nella sua azione, sulla linea di fondo, senza perdere mai la speranza, anche nel tentativo estremo di contrastare il rinvio del difensore, mettendo la palla alle spalle del portiere avversario.
Nell’estate successiva alla sua affermazione in Albiceleste Lautaro è chiamato a un compito gravoso, vale a dire sostituire Icardi al centro dell’attacco dell’Inter. Il fatto che i nerazzurri acquistino Romelu Lukaku non è per niente una mancanza di fiducia: con il senno di poi si sarebbe rivelata la mossa più azzeccata. Perché quella tra Lukaku e Lautaro non sarebbe mai diventata una rivalità, un problema da risolvere: Lu-La sarebbe stato l’epitome, al contrario, della soluzione.
Questo proprio in virtù dell’associatività necessaria per sublimare il gioco di Lautaro, per massimizzare gli effetti delle sue caratteristiche principali, il suo gioco senza il pallone che crea spazi, l’uso del corpo, l’aiuto nella generazione di movimenti, spazi in cui incunearsi dopo aver scambiato con i compagni. E chi, di contro, pensava che a Lautaro sarebbe toccato tutto il lavoro sporco, chi lo vedeva come seconda punta alle spalle del totem belga, si sarebbe dovuto ricredere.
«Dobbiamo dividerci gli spazi», ha detto di lui poche settimane dopo il suo arrivo Lukaku. Il sottotesto che voleva intendere è che avrebbero dovuto dividersi il protagonismo. «Se riesce ad accettare che una volta il protagonista sono io, l’altra lui, allora andremo d’accordo».
L’affinità elettiva avrebbe impiegato poco a farsi complicità che la partita con il Sassuolo della loro prima stagione insieme, terminata con due reti a testa, avrebbe iniziato a cristallizzare.
Insieme avrebbero pressato la prima linea avversaria, accorciato gli spazi per agevolare il recupero palla dei centrocampisti, architettato e organizzato il contrattacco. Insieme avrebbero portato l’Inter al secondo posto, alla finale di Europa League persa con il Siviglia, e nella stagione successiva al successo massimo, segnando insieme 41 reti.
Certezza
«Lautaro fa parte della mia base di partenza, e lo sarà fin quando sarò io il direttore tecnico», ha detto di lui Scaloni durante la Copa América 2021. Che non era iniziata nel migliore dei modi, per il Toro. Nella prima uscita, con il Cile, aveva sbagliato da pochi passi un gol apparentemente semplicissimo da segnare; nella seconda partita, con l’Uruguay, ancora un errore inaspettato, stavolta con l’aggravante di essere un errore arrogante, un tentativo di arpionare come uno scorpione un pallone che avrebbe potuto appoggiare in porta con il piede debole. «È un calciatore che apprezzo e a cui voglio bene», ha continuato Scaloni. Che non ha mai perso la fiducia in Lautaro, una fiducia che el Toro, nella Copa che sarebbe poi terminata in trionfo, comincia a prendere tra le mani nella partita con la Bolivia per non abbandonarla più: segnerà con l’Ecuador, ai quarti, dopo una pisadita con cui ha controllato il pallone nella maniera in cui solo chi si sente pienamente padrone dei propri mezzi, sa fare, e con la Colombia, in semifinale, servito da un sinistro no-look di Messi.
Non è un caso, allora, che quasi quattro anni dopo il suo insediamento Scaloni non abbia smesso un attimo, né perso un briciolo di stima e certezza nell’apporto che può dare Lautaro. È diventato uno dei pochi intoccabili: in cambio, è diventato il massimo goleador della parentesi della Scaloneta, con ventuno reti, più di Messi. Oggi sa prendere le decisioni. Oggi ha l’autorevolezza, e l’appoggio della leadership, per farlo. Ha accumulato esperienza? Indubbiamente, ma ha soprattutto imparato, per quanto a suo discapito, per quanto malvolentieri, a doversi bastare di per sé. Nella stagione 2021/22, dopo aver trionfato in Copa, si è trovato a doversi sobbarcare sulle spalle una buona parte del peso dell’attacco interista. L’affinità con Dzeko non è mai fiorita, ed è dovuto maturare, crescere, farsi indipendente. Ha segnato più di venti reti, ma è soprattutto uscito da quel luogo comune che lo voleva Robin senza Batman.
Ora che Lukaku è tornato al suo fianco, sono tornati a trovarsi indispensabili l’uno per l’altro. Qualche tempo fa, nel pieno dell’esplosione della loro bromance calcistica, Emanuele Atturo aveva scritto che «ogni storia di una coppia d’attacco è una storia d’amore, ma poche storie d’amore sono belle e riuscite come quella tra Lautaro Martínez e Romelu Lukaku. [...] Provate a bendarli e a metterli a due estremi di un labirinto buio e tortuoso: si ritroverebbero cercando l’odore l’uno dell’altro».
L’affinità tra Lautaro e Leo Messi si è acuita fino a fare del Toro una figura perfettamente amalgamata nel nucleo dell’Albiceleste. Nella Finalissima giocata a Wembley il primo giugno scorso ha aperto le marcature appoggiando in rete, con un tocco elegante di sinistro, un suggerimento di Messi: poi ha propiziato il secondo gol di Di Maria lanciandolo a rete dopo aver attirato su di sé le attenzioni della difesa, dopo aver rallentato il gioco con una pausa deliziosa, un controllo in pisadita che era un convenevole d’amore.
«La prima volta che ho ascoltato l’inno argentino indossando questa maglietta avevo voglia di mettermi a piangere, ma non per la paura. Perché mi sono ricordato di quando guardavo le partite, alla pensione, e inquadravano i giocatori con cui ora scendo in campo», ha scritto in quel racconto che si trova in “Pelota de papel”.
Può sembrare retorico, e probabilmente lo è: la perseveranza, la fiducia nei propri mezzi, è sempre il punto di partenza per realizzare i propri sogni, raggiungere i propri obiettivi. Ma credo anche che ciò che Lautaro ignorava, in quei momenti, è che il filo rosso del destino legava il suo mignolo sinistro al mignolo sinistro di quegli idoli che sarebbero diventati suoi compagni. Il percorso di crescita verso il successo, verso il trionfo, a volte, non è che un riunire – districandone i nodi, non arrendendosi quando il groviglio sembra inestricabile – un bandolo all’altro. Ognuno di noi è una rete in connessione. E chissà che l’intreccio, come in un’ideale continuazione del succedersi degli eventi, non riesca a portarlo a condividere i destini segnati di chi lo affianca, lo incoraggia, lo potenzia.
Nessuno, nel calcio come nella vita, basta a se stesso: Lautaro Martinez si è fatto bocca di fuoco di una collettività che è un intero sistema solare, capace di ruotare attorno all’astro nella maniera in cui, anche dopo le notti più lunghe, che per un calciatore possono essere le astinenze dal gol, o dai successi, possa sorgere una giornata brillante. Questo è il destino di Lautaro.