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La class action che sta rivelando le condizioni dei fighter di MMA
24 ott 2024
L'UFC si è accordata per pagare 375 milioni di dollari, dopo essere stata accusata di aver pagato i fighter meno di quanto doveva.
(articolo)
13 min
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IMAGO / Norbert Schmidt
(copertina) IMAGO / Norbert Schmidt
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Oggi lo conoscono tutti con il soprannome di The Guitar Hotel per via della torre da 140 metri che riproduce la sagoma di una coppia di chitarre appoggiate una contro l’altra, con un gioco di luci che ne fa risaltare le corde. Anni fa, invece, quell’hotel e casinò di Hollywood era una struttura meno caratteristica, ma già era conosciuta per ospitare eventi di diverso tipo, tra cui le serate di MMA firmate UFC, l’organizzazione di arti marziali miste più importante del mondo.

È proprio durante uno di questi eventi, UFC Fight Night 8, che il fighter Spencer Fisher, seduto sugli spalti a guardare il main event della serata, improvvisamente sgrana gli occhi, si porta le mani alla fronte in un gesto di stupore, scatta in piedi ed esclama, rivolto a sua moglie: «Cosa stiamo facendo qui?! Tra poco devo combattere!». Lei lo guarda con un’espressione sospesa tra incredulità e apprensione, sospira per darsi coraggio, risponde: «Amore, stai tranquillo. Hai già combattuto, non ricordi?».

Fisher non se lo ricordava. Era entrato nell’ottagono qualche ora prima per affrontare Hermes Franca, e aveva perso per KO tecnico al secondo round. Era andato knockout in piedi, cioè continuava a reggersi sulle gambe, a muoversi come se avesse il pilota automatico, ma senza coscienza di quello che stava facendo. Come se fosse un pupazzo di pezza nelle mani del suo avversario. L’arbitro aveva decretato lo stop e ora, nella mente di Fisher, era come se quel match non fosse mai avvenuto.

La notte successiva a un incontro è sempre problematica. «Ho letto di colleghi morti nel sonno, senza neanche accorgersene», mi ha detto una volta un pugile «Da quel momento, io, la notte dopo un match, resto sveglio fino a mattina». Altri sfogano i mesi di dieta in cene abbondanti e litri di alcool, nonostante sia sconsigliatissimo dai medici. Fisher, sdraiato a letto in un’anonima stanza d’hotel, ascolta la sua testa pulsare. Il dolore parte dalle orecchie e si irradia fino all’attaccatura dei capelli, a ondate. È abituato, nulla di nuovo. Dopo il mal di testa, arriva la nausea e forse, alle prime luci del mattino, il sonno. Ma il giorno dopo, quando in aeroporto cerca per gioco di camminare su una linea segnaletica dipinta per terra senza riuscire a trovare l’equilibrio, si rende conto che forse questa volta è diverso. Sorride a sua moglie, divertita dalla scena - pensa lo faccia apposta. Pensa: sono fotutto.

Attacco al potere

Molto tempo dopo quell’evento, nel 2014, al The Guitar Hotel l’ex fighter UFC Cung Le, insieme a un gruppo di colleghi che hanno militato nella promotion, accusa l’allora proprietà di UFC, Zuffa LLC, di aver violato le leggi antitrust, pagando i fighter meno di quanto avessero diritto e ostacolando i loro tentativi di avere altre entrate oltre alla borsa, come gli sponsor o il merchandising. Di fatto, quindi, abusando della propria posizione dominante e danneggiando la concorrenza con pratiche scorrette, con l’obiettivo di mantenere un potere di monopsonio nel mercato delle MMA - dove cioè esiste un solo datore di lavoro a fronte di tanti lavoratori. Secondo gli ex combattenti, i contratti in esclusiva a lungo termine che avevano firmato, che includevano ad esempio l’automatica estensione dell’accordo in caso di vittoria del titolo mondiale, erano studiati per livellare verso il basso gli stipendi, impedendo ai fighter di andarsene firmando con altre promotion. UFC ha risposto sostenendo di aver investito fortemente nello sport, borse degli atleti incluse, sottolineando l’ascesa di diverse organizzazioni concorrenti negli anni, a dimostrazione di un mercato plurale, vario e popolato.

A questa causa, che include i fighter attivi in UFC dal 2010 al 2017, se ne aggiunge in seguito un’altra, Kajan Johnson vs. Zuffa LLC, per gli stessi motivi, ma che riguarda gli atleti che hanno combattuto, o combattono, in UFC dal 2017 in poi. La richiesta di risarcimento, sommando entrambi i procedimenti, oscilla tra i 894 milioni e gli 1,6 miliardi di dollari. Dopo anni di controversie, ad agosto dello scorso anno il giudice distrettuale incaricato conferisce lo status di class action ai querelanti di entrambe le cause. Grazie a questa decisione, UFC, se condannata, potrebbe essere chiamata a dover pagare fino al triplo della cifra richiesta, per un esborso finale di miliardi di dollari.

Qualche mese fa TKO, la società madre di UFC, rivela di aver trovato un accordo extragiudiziario con i querelanti delle cause per un risarcimento totale di 355 milioni di dollari (quasi tre volte di meno della somma base della richiesta di risarcimento iniziale di una singola causa). Accordo però rigettato dal giudice Richard Franklin Boulware, suscitando l’ira di Dana White, il presidente di UFC. «Non mi sono mai espresso su questa vicenda, perché penso sia materia per gli avvocati», ha commentato. «Ma lasciatemi dire una cosa: io e Lorenzo Fertitta andavamo al liceo con il giudice che ha rigettato la nostra proposta. Non credo di averlo bullizzato, non so cosa diavolo gli abbiamo fatto, ma mi sembra che la faccenda stia diventando personale». In realtà Boulware ha semplicemente ritenuto la cifra pattuita insufficiente, dato che alcuni fighter avrebbero ricevuto appena tremila dollari (questo perché i fighter e gli ex fighter coinvolti sono molti: solo in Le vs. Zuffa LLC sono più di un migliaio).

Poco dopo TKO rilancia, rivelando un altro accordo, questa volta proposto proprio ai querelanti della causa intentata da Cung. Totale: 375 milioni di dollari. Accordo approvato in forma preliminare da Boulware e che nei prossimi mesi approderà in aula per il via libera definitivo. Uno sviluppo che apparentemente rende felici gli ex fighter coinvolti, che nei mesi scorsi hanno inondato la cassetta della posta di Boulware con decine di lettere a sostegno dell’approvazione dell’accordo.

Dana White, presidente di UFC (a sinistra), insieme a Cung Le, quando il fighter era ancora sotto contratto con la promotion (Foto MMA Mania).

Perché gli ex fighter querelanti continuano ad accettare somme di denaro nettamente inferiori a quanto potrebbero ottenere se vincessero in tribunale, e spingono perché il giudice accetti queste condizioni - definite «un risultato eccellente» dai loro avvocati? Prima di tutto, se si va a processo, i querelanti avrebbero bisogno di un verdetto unanime della giuria per vincere, e se così fosse, potrebbero volerci anni di appelli prima di poter ottenere un risarcimento. Come insegna la teoria dei giochi, gli esseri umani sono più propensi ad ottenere qualcosa di meno subito piuttosto che qualcosa di più in futuro. E poi c'è un altro problema, che emerge proprio dalle lettere inviate al giudice: gli ex fighter hanno bisogno di soldi subito.

Pagare un conto salato

Spencer Fisher, peso leggero soprannominato “The King”, ha combattuto 17 incontri nei 12 anni trascorsi in UFC, con un bilancio di 9 vittorie e 8 sconfitte. Fisher è stato un fighter che, nel momento migliore della sua carriera - dal 2007 in poi -, era sui poster e sui DVD della UFC grazie al suo stile di combattimento spettacolare e spregiudicato, si è avvicinato un paio di volte alla chance titolata e arrivava a guadagnare fino a 200mila dollari all’anno solamente dalle sponsorizzazioni. In quel periodo, Dana White lo lodava con parole al miele: «Fisher è uno dei miei preferiti, è l’incarnazione del fighter per definizione. Alcuni suoi combattimenti sono iconici e resteranno nella storia della promotion». A gennaio del 2007, Fisher affronta Franca e perde brutalmente. A distanza di anni, “The King” racconta, ospite di un podcast: «Il giorno successivo, mentre ero in aeroporto per tornare a casa, mi sono reso conto di avere una commozione cerebrale in corso, ma non sono andato in ospedale. Quel match mi ha cambiato la vita, ne sono sicuro. Da quel momento ho cominciato ad avere i primi sintomi di demenza». Dal 2009 in poi Fisher disputa 6 incontri, perdendone cinque.

Ecco quindi che “The King” annuncia il ritiro, e White dichiara: «Nell’ultimo incontro era in formissima, spero ci ripensi». L’ex fighter spiega quanto fosse importante per lui, e per tanti colleghi, l’approvazione di White, e probabilmente anche per questo, dopo qualche mese Fisher annuncia il ritorno, e UFC gli fissa un incontro - siamo nel 2013. Fisher, però, non passa le visite mediche: i medici scoprono pesanti lesioni cerebrali, dovute probabilmente a una galoppante encefalopatia traumatica cronica, o CTE. In effetti, Fisher mostra diversi sintomi preoccupanti, tra cui la mancanza di equilibrio, che aveva scelto di ignorare sperando di poter combattere. Secondo la moglie di Fisher, quando lei e il marito comunicano l’esito degli esami a UFC, Dana White reagisce stizzito: «Non potevate dirmelo prima?!». Fisher, incredulo, risponde: «Cosa dovevo fare? C’è di mezzo la mia vita».

“The King” appende i guantini al chiodo dopo 10 anni da professionista, con 33 match all’attivo, tra cui 9 sconfitte, 3 di queste arrivate per KO/TKO. Un record di tutto rispetto. A questo punto, UFC lo sostiene ingaggiandolo come testimonial, per attività di relazioni pubbliche, e nonostante Fisher diventi sempre meno in grado di lavorare per l’aggravarsi dei sintomi di demenza pugilistica, UFC lo stipendia regolarmente, versandogli 5 mila dollari al mese fino all’aprile del 2017. Poi il cambio di proprietà spinge Dana White a rivedere i costi del personale, e il contratto non viene rinnovato, nonostante le richieste di aiuto dell’ex fighter.

Interpellato proprio su questo, anni dopo, White risponde: «Fisher non è né il primo né l’ultimo fighter con problemi neurologici. Le MMA sono uno sport da contatto e chiunque lo pratichi sin da giovane, me compreso, sa che avrà a che fare con problemi cerebrali. Fa parte del gioco». Un cambio di registro netto rispetto ai tempi in cui Fisher regalava spettacolo nell’ottagono più noto al mondo. Da quel momento in poi, l’ex fighter UFC si arrangia insegnando in palestra, mentre sua moglie si divide tra il lavoro e l’accudimento del marito e delle figlie.

Oggi, nella lettera al giudice, Fisher scrive: “Mentre combattevo per UFC, ho subìto molti infortuni gravi. Mi sono rotto le mani, lacerato la spalla, mi si è distaccata la retina, ho le vertebre del collo saldate tra loro a causa delle ernie e una placca di plastica nell’occhio destro. Mi sono operato all’anca destra e sto per farlo a quella sinistra. Senza contare le commozioni cerebrali. Nelle mie analisi è presente la proteina Tau, indicatore dell’encefalopatia traumatica cronica [la cosiddetta demenza pugilistica, di cui abbiamo parlato diffusamente, nda]. Faccio fatica a risolvere problemi semplici, a ragionare lucidamente e mi confondo con facilità. Ho vertigini, perdite di memoria, mal di testa frequenti, depressione, sbalzi di umore e irritabilità. Mia moglie mi assiste nella vita quotidiana. Sono stato giudicato completamente invalido e impossibilitato a lavorare. Ho 48 anni”.

Un caso tutt’altro che isolato

Ma Fisher non è certo l’unico caso. Wanderlei Silva fa parte della Hall of Fame di UFC e ha combattuto 9 incontri nella promotion, guadagnando parecchio. Anche lui racconta di infortuni, operazioni, traumi cranici che gli danno gli stessi, terribili sintomi di demenza descritti da Fisher. «Soffro di apnea notturna, ho difficoltà a dormire e a respirare», aggiunge. Specifica che i soldi gli servono ad «avere un tetto sopra alla testa e del cibo in tavola». Shane Carwin è stato campione ad interim dei pesi massimi UFC nel 2010. Nonostante la laurea in ingegneria, oggi non può esercitare la professione perché non riesce a mantenere una concentrazione adeguata, probabilmente a causa dei trascorsi nelle MMA, e ciò lo ha costretto a vivere nell’indigenza. Cung Le, quattro match all’attivo in UFC, non può lavorare per motivi di salute ed è assistito da un amico che lo ospita.

Gli appartenenti alle prime generazioni di fighter di MMA erano meno informati e consapevoli delle conseguenze a lungo termine di uno sport simile. Gli atleti attuali lo sono di più, ma avendo sposato fino in fondo una disciplina da combattimento, sono disposti a correre il rischio. Non è raro sentir dire che preferirebbero morire piuttosto che rinunciare, ma il problema è che morire non è l’unica opzione. Se perdere la vita sul ring o nell’ottagono è statisticamente improbabile, lo è molto di più riportare danni non immediatamente mortali, ma che abbassano drasticamente la qualità della vita, trasformandola in sopravvivenza. Non si tratta quindi di morire, ma di trascinarsi per anni o decenni in condizioni precarie, che forse è peggio.

«La boxe può comportare delle conseguenze scientificamente provate», mi ha detto il pugile Dario Morello in un’intervista recente «Non ci penso, come non ci può pensare il calciatore a cui fanno male le ginocchia o il motociclista che prende una curva a 300 chilometri orari. Ma serve attenzione: devi limitare il più possibile concussioni e traumi cerebrali in allenamento, prenderti i giusti periodi di riposo, non essere superficiale, usare le protezioni necessarie durante gli sparring e farli con atleti più o meno del tuo peso o comunque gestibili. Non serve fare gli eroi. Bisogna andare oltre quella retorica machista del tipo “mai un passo indietro”, “non si molla niente” perché poi ti ritrovi a balbettare a 40 anni. Devi avere rispetto di te stesso». Un ruolo importante nel provare a minimizzare i rischi di questo tipo di sport lo gioca la prevenzione e la prudenza di chi gestisce gli atleti, come mi aveva detto il professor Mario Ireneo Sturla, medico presente a bordoring da decenni.

Qualcosa può cambiare?

Anche se l'accordo economico con UFC è probabilmente insufficiente, insomma, le lettere scritte dagli ex fighter aperto uno squarcio rivelatore sulle loro condizioni ad anni o decenni dal ritiro, quando sono spariti dai riflettori e fanno i conti con le conseguenze della propria carriera. Bisogna ricordare che parliamo di atleti che hanno combattuto in UFC, quindi i migliori e i più ricchi al mondo, mentre sappiamo ancora meno di quelli che non sono mai arrivati al top, combattendo in organizzazioni locali o regionali. Possiamo solo immaginare cosa accade a loro una volta che, scesi dal ring, vanno in ospedale, tornano dai loro cari, affrontano i postumi di un incontro. E come stanno due settimane, un mese o anni dopo? Anche se magari i diretti interessati accettano il rischio di buon grado, è probabile che siano distrutti a livello fisico, mentale ed economico, senza che nessuno, neanche chi ha guadagnato grazie a loro, li aiuti.

Non aiuta, in questo discorso, un problema endemico degli sport di combattimento, e cioè l’assenza di uno o più sindacati a tutela dei fighter. Un’assicurazione che copra anche solo parte delle spese sanitarie dei fighter sul lungo termine sarebbe fondamentale per gli atleti e le loro famiglie, soprattutto negli Stati Uniti, dove la sanità è privata. Ma le regole le fanno le promotion, che hanno il coltello dalla parte del manico, salvo per un pugno di superstar. UFC, tra l'altro, è una delle leghe che destina la percentuale minore delle proprie entrate agli stipendi degli atleti, se si compara con gli altri sport. Parliamo di una cifra che oscilla tra il 16 e il 22%, contro quasi la metà di leghe come l’NBA del basket, l’NHL del football e l’MLB del baseball. Chissà magari uno scossone sarebbe potuto arrivare proprio con una sentenza che condanni UFC a sborsare miliardi di dollari, ma come abbiamo detto sono gli stessi fighter - vittime della loro condizione drammatica - a osteggiarla.

MMA Fighting ha intervistato Fisher nel 2021, chiedendogli della sua situazione. Il video è online su YouTube, ed è straziante. L'ex fighter ha uno sguardo spento e rassegnato, a tratti assente. Si interrompe mentre parla, a volte perché balbetta o perde il filo del discorso, a volte, credo, per l’emozione. Quando racconta gli aspetti più duri della sua condizione, o del suo futuro, la voce per un attimo tradisce paura e dolore, prima di tornare su un tono di pace apparente, di una persona che ha accettato un destino amaro: «So che peggiorerò sempre di più, ma parlarne potrebbe aiutare altre persone ad evitare di finire come me. Quando la carriera finisce, i fan ti scordano e cala il sipario, resti da solo con le conseguenze delle tue scelte».

Oggi Fisher assume ogni giorno una medicina per le vertigini, una per conservare la sua capacità di ragionamento, una per preservare l’abilità di concentrarsi, una per contrastare pensieri ossessivi e depressione, una contro l’insonnia. Ha meno di cinquant’anni. La sua lettera al giudice si conclude così: “La verità è che i soldi del risarcimento mi cambierebbero la vita. Mi permetterebbero di ottenere l’assistenza sanitaria di cui ho bisogno adesso. Tra qualche anno, purtroppo potrebbero non servirmi più a niente”.

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