Da quando mi è stato regalato il primo walkman, che poi è diventato un discman, un iPod e infine il mio cellulare, non ho più sperimentato il potere del silenzio. Cammino, corro e scrivo con le cuffie, guido il motorino con gli auricolari, in macchina ho sempre la radio accesa, come mia madre appena sveglia, in quelle mattine in cui provavo a dormire per recuperare dalle fatiche della sera prima. Mia nonna cucinava con il vociare di una tv che non guardava a farle “compagnia”, come nei bar del mio quartiere in cui le tv sono accese sui programmi del mattino o su video musicali. Mio padre copriva i silenzi parlando in continuazione, facendo battute, leggendo il giornale o facendo le parole crociate ad alta voce. Il silenzio è solitudine, nei negozi senza clienti i commessi la scacciano con musica allegra preconfezionata. Quando ho lavorato in un centro commerciale e arrivavo al mattino le melodie pop con ritmi vagamente tecno o reggaeton echeggiavano spettrali tra i rumori metallici delle serrande che si alzavano e i saluti degli altri commercianti. Quando ho fatto il cameriere alle due di notte passavo lo straccio ipnotizzato dal mio collega che fischiettava mentre girava le sedie sui tavoli.
In spiaggia la musica esce dalle casse bluetooth e dai finestrini delle auto, persino alcune moto grosse hanno la radio incorporata. I muri di casa mia sono così sottili che quando i vicini litigano è come se fossimo parte della stessa famiglia; la vicina di sotto si lamenta del rumore delle unghie del mio cane sul pavimento. Se dormo con la finestra aperta sento il cantiere di una stazione in costruzione non lontana e alle cinque e mezza gli uccelli si svegliano, piccoli gruppi di parrocchetti si posano sugli alberi di fronte e sembrano voler venire sul mio cuscino, delle rondini che hanno fatto il nido sotto il tetto girano intorno al palazzo in senso orario, il loro garrito va e viene come il rombo delle auto in un circuito di Formula Uno. In montagna si dice “ascolta il silenzio”, ma il nostro orecchio cerca il ronzio degli insetti, il rumore di un fiume lontano che leviga le rocce, delle foglie mosse dal vento, del mio battito cardiaco. Il silenzio in natura non esiste, è solo questione di quanto è profondo il tuo udito. Adam, uno dei personaggi dell’ultimo romanzo di Ben Lerner, «Topeka School», entra in una camera anecoica, priva di riflessi cioè, costruita per riprodurre il più possibile fedelmente il silenzio di uno spazio infinitamente aperto. Gli sembra di sentire l’acqua nelle tubature del palazzo e lo sfrigolio dei cavi elettrici, ma era «il sangue che gli scorreva nella testa, il fruscio dei nervi uditivi a riposo».
Vivo in un mondo rumoroso, in una città rumorosa, e sono un tipo rumoroso. Se vedo un amico sul marciapiede opposto al mio grido il suo nome e ci parlo senza attraversare. Al cinema, se il film non mi piace o mi fa paura, commento gli attori, la storia. Se la sera faccio tardi, quando mi infilo sotto il lenzuolo chiedo a mia moglie se sta già dormendo, svegliandola, e poi, già che l’ho svegliata, le parlo del più e del meno, non voglio addormentarmi senza aver scambiato qualche parola. Mia figlia è rumorosa, ha una lingua tutta sua ma la parla da quando è sveglia a quando si addormenta. Anzi, la parla anche durante le prime fasi del sonno, e se non parla imita il suono dei cavalli, dei serpenti, dei gatti. Quando mia figlia non parla è perché lo sguardo di un estraneo l’ha intimidita. Il silenzio esiste per me solo come concetto, come forma di rispetto per gli altri, in posti come il treno o l'aereo, perché il silenzio serve solo a riposare, a dormire.
Oppure il silenzio è la forma vuota che prende la mia angoscia, quando gli eventi mi sorpassano, o faccio pensieri che ho paura a verbalizzare. Il silenzio accompagna quei momenti contemplativi, riflessivi che non sappiamo come affrontare. Quando c’è troppo silenzio in un posto pubblico, un ascensore, un autobus, nessun pistolero è più veloce di noi a tirare fuori il cellulare. Se la vita è rumorosa, il silenzio è morte. Mio padre si è ammalato e ha perso la voce, mia nonna anche. Quando sono in ansia mi si seccano le corde vocali e i polmoni faticano a soffiare l’aria necessaria. In latino, tra i significati di silens c’è “tranquillo”, “quieto”, “calmo”. La nostra società non ama le cose o le persone tranquille, quiete, calme. In poesia spesso la luna è “silente”. Le “umbrae silentes” di Virgilio, nell’Eneide, sono le anime dei trapassati. Il silenzio è imbarazzante e spaventoso. In un mondo produttivo e spettacolare forse ancora di più che in passato.
Eppure in questi mesi stiamo facendo i conti con il silenzio persino mentre guardiamo eventi sportivi di alto livello, in un ambito della nostra esperienza, cioè, in cui non pensavamo sarebbe stato possibile. La presenza e il rumore del pubblico, dal vivo o come sottofondo, è forse la principale differenza tra lo sport professionistico e quello che pratichiamo noi con i nostri amici. È la cosa, anzi, che ci segnala anche tutte le sfumature tra questi due estremi: se passo davanti a un campo da tennis in una cittadina della provincia italiana, mettiamo, e vedo delle persone sugli spalti, capisco che sta succedendo qualcosa, che magari c’è un giovane talento che si sta allenando o che si tratta di un torneo. Quando io mi faccio prendere a pallate da mia moglie sulla Casilina, invece, non si ferma nessuno a guardare. Va da sé che più c’è gente più c’è rumore (nel tennis, tra un punto e l’altro). Il rumore è segno di interesse, di vitalità, di una comunità attiva. Oggi invece, quando segna il Sassuolo al Mapei Stadium, uno speaker annuncia il nome del marcatore e poi parte "Tubthumping” dei Chumbawambda, non si capisce bene per chi. Quando c’è un rigore dubbio le grida dei giocatori che circondano l’arbitro e quelle della panchina riempiono l’intero stadio con un’aggressività che pare sproporzionata: se siete solo tra voi, non potete parlare all’arbitro con un tono di voce normale? Gli allenatori più ossessivi guidano i calciatori come fossero cani ammaestrati, danno indicazioni come “accorcia”, oppure “sali”, Guardiola ricorda ai suoi di passare per l’esterno del campo. Quando Politano (in finale di Coppa Italia) e Luis Alberto (in campionato) si sono portati il dito alle labbra sembravano rivolgersi ai fantasmi come Amleto. Chiedevano silenzio, nel silenzio.
Certo, dipende anche dalla natura dello sport di cui stiamo parlando. Prendiamo le arti marziali miste. Il fascino delle MMA consiste almeno in parte nel fatto che, oltre al livello di preparazione atletica e tecnica, non c’è enorme differenza tra i combattimenti organizzati dalla UFC, la promozione più importante al mondo, e un litigio che potremmo vedere per strada. Quelle due persone, quegli stessi fighter che magari si stanno contendendo una cintura (e qualche decina di migliaia di dollari) sotto ai riflettori, al centro di un’area piena di gente, potrebbero tranquillamente combattere in un garage lontani da sguardi indiscreti e non cambierebbe niente all’essenza di quello che stanno facendo. Gli sport da combattimento, ridotti all’osso, riguardano solo due persone che si picchiano condividendo un codice, un regolamento, cioè. E al massimo una terza persona che ha la responsabilità di farlo rispettare (nelle MMA non è neanche necessario condividere lo stesso “stile” di combattimento).
L’assenza di pubblico, lì, dovrebbe pesare meno. Anzi, la componente spettacolare è percepita sempre come un po’ estranea dal pubblico più puro. L’idea che si debba anche intrattenere, oltre che picchiare, è in contrasto con lo spirito marziale che per alcuni è fondamentale. Eppure quella dimensione intima e privata del combattimento è un’esperienza che fino a poco fa era relegata alla palestra, allo sparring, o al massimo ai combattimenti locali visti dal vivo, dove il «ciaf» di due tibie che si scontrano raggiunge le nostre orecchie con maggiore immediatezza. I grandi combattimenti che hanno fatto la storia di questo sport tutto sommato ancora giovane sono immersi nel rumore del pubblico, che ne sottolinea con entusiasmo gli scambi selvaggi e i KO improvvisi.
Ma cosa resta di quel dolore quando lo isoliamo? Quando togliamo (quasi) ogni interferenza?
Quando ho visto Francis Ngannou mandare KO Jairzinho Rozenstruik non sono rimasto scioccato come due anni e mezzo fa, quando ha quasi staccato la testa a Alistair Overeem. Non sul momento, almeno, ma ho sentito che c’era qualcosa di strano. Alex Dandi, commentatore italiano per Dazn, ha commentato in diretta: «Francis Ngannou, in un silenzio glaciale... qui l’arena sarebbe davvero esplosa». Le grida di stupore si sono spente subito dopo che Rozenstruik si è accasciato come un vestito che cade dalla stampella, uno dei pochi rumori chiaramente udibili veniva da Ngannou che batteva il proprio petto con le mani. Una persona, una sola, continuava ad applaudire, mentre l’arbitro chiedeva qualcosa ai medici a bordo gabbia. Se questo genere di KO lascia una vibrazione nell’aria che fa oscillare i tifosi, e la calma ci mette un po’ a tornare, in questo caso dopo appena dieci secondi tutto è tornato come prima. Dopo aver ricevuto i complimenti del suo allenatore, Ngannou sembra abbassare la propria temperatura corporea di qualche grado. Dopo un KO del genere, se si è in buoni rapporti con l’avversario, ci si assicura che stia bene, ma dopo qualche secondo il vincitore torna a festeggiare. Gli atleti vedono la propria grandezza riflessa nelle facce in estasi degli spettatori, ma stavolta non c’è niente di meglio da fare che restare lì. Ngannou torreggia sopra Rozenstruik con le mani sui fianchi, in contemplazione dei danni che la sua forza è in grado di arrecare a un’altra persona.
Giusto un paio di mesi fa mi sembrava normale che dopo un incontro una lottatrice parlasse al microfono del comico/podcaster/color commentator di UFC Joe Rogan con la testa gonfia come se l’avessero punta mille api tutte insieme. I tratti deformi di Joanna Jedrzejczyk sembravano degli effetti speciali, il trucco di un film particolarmente crudo sulle MMA. E invece adesso, di fronte a un KO come tanti che avevo già visto, mi sentivo come se non fosse del tutto normale quello che stavo guardando. La violenza di quanto era appena successo non era coperta da niente e mi spingeva a pormi delle domande. Quanto traggo piacere dal talento di chi resta in piedi, dalla sua coordinazione, dal suo tempismo, dalla meccanica e dalla potenza dei suoi colpi, e quanto dal dolore di quello che è a terra?
Se si riguarda il momento in cui i pugni di Ngannou entrano in contatto con la testa di Rozenstruik, si possono sentire una serie di «click» metallici. Un rumore simile lo ha fatto il KO di Cody Garbrandt inflitto a Raphael Assuncao, forse più sordo, e accompagnato dallo «shhhh» dell’aria emessa da Garbrandt. Sono suoni disarmonici, che da soli rendono l’idea del trauma che li accompagna.
Ma è strana anche l’introduzione che, prima di ogni incontri, fa l’annunciatore Bruce Buffer, come al solito in grande stile, come se niente fosse, con le sue giacche sgargianti e i capelli argentati, con le mossette e il suo modo di allungare tutte le parole: «Aaaaand nnnnnnow»; «Las Vegassssssssssss»; e poi il classico momento di climax quando grida: «IIIIIIIIIt’s TTTTTTTTime!!!!». La sua voce rimbomba nel vuoto e sembra un predicatore senza fedeli, una via di mezzo tra Papa Francesco che prega in una piazza San Pietro del tutto vuota e un imbonitore che prova a vendere farmaci miracolosi in mezzo al deserto. Quando Bruce Buffer presenta i due contendenti, circondati da persone con la mascherina e da uno sfondo scuro, non c’è la tensione solita, né la complicità con i fighter che a volte gli rispondono, annuiscono e lasciano che le sue parole, la sua voce, li carichi: sabato notte mentre presentava Dustin “The Diamond” Poirier, quello si è girato a bere da una borraccia.
Lo scorso week-end, Dustin Poirier e Dan Hooker hanno combattuto uno degli incontri più duri e spettacolari del 2020 e per la prima volta ho provato a chiudere gli occhi durante gli scambi. Quando li ho riaperti alla fine, solo per vedere i loro volti e il tappeto insanguinato, è stato come fare un viaggio in auto bendato, rapito dalla mafia, cercando di riconoscere la direzione e le svolte prese dall’autista interpretando il rumore delle buche, lo stridio delle gomme, le pause dei semafori e del traffico, per poi però svegliarsi e trovarsi in un posto totalmente diverso. Il paesaggio che si è creato nella mia testa, partendo dai rumori di Poirier e Hooker, era ampio e spazioso, dopo le cinque riprese - dopo venticinque minuti – erano stati i loro respiri affannati e sempre più profondi a prendere il sopravvento sul resto. Come un maratoneta che dopo le prime decine di chilometri non sente altro che il ritmo dell’aria che entra ed esce dai propri polmoni. La fatica tremenda che hanno fatto Poirier e Hooker era l’unica cosa che mi arriva di loro. Non il loro dolore, né le voci degli allenatori o del commentatore, c’erano solo i loro «ughhh» e gli «uhmmm».
Il ritmo dei loro colpi era disarticolato, sincopato, un attimo lo schiaffo del collo del piede sulla carne della coscia è squillante, subito dopo dei pugni in rapida sequenza somigliano a grossi chicchi di grandine che colpiscono il tetto dell’auto in cui mi sto riparando. I pugni singoli e più pesanti ricordano una sacca con dentro dei libri che viene lasciata cadere a terra, quelli più leggeri delle porte sbattute in lontananza. Il rumore dei loro piedi è fastidioso, scivolano sulla tela dell’ottagono come oggetti metallici, la lama di un coltello su una pietra ad acqua. La gabbia, quando ci premono contro, fa il rumore dell’albero delle barche quando la vela è ammainata e le onde le fanno oscillare quasi sul posto. Alcuni colpi fanno il rumore di una schicchera sul braccio di un amico che dorme, altri sembrano dei sassi gettati in acqua. Nel corso delle riprese ho l’impressione che i suoni siano meno secchi, possibile che sia dovuto al sudore e al sangue su cui scivolano maggiormente i guantini? Se riuscissi davvero a isolare il rumore dei colpi si sentirebbe la pelle aprirsi?
Quando Poirier e Hooker si colpiscono da terra, con pugni ravvicinati al volto, ho l’impressione di riuscire a sentire lo stridere dei denti, il rumore della mandibola che si separa dalla mascella. Alla fine dell’incontro, quando le loro facce sono gonfie, tumefatte, e i pugni colpiscono ferite aperte, vasi sanguigni superficiali già danneggiati, pelle intrisa di sangue, il rumore è quello fa la carne sbattuta sul tavolo dal macellaio, dopo che ha tagliato una fettina e con un gesto teatrale l’ha alzata prima di posarla sul foglio di carta dell’imballaggio.
Non ricordo in quale dei molti Rocky girati, forse il primo in assoluto, Silvester Stallone si allena colpendo una carcassa di bovino appesa a un gancio. Il rumore che fanno i pugni nel silenzio, l’essenza stessa del combattimento, ci riporta alla realtà della nostra carne. Ai cambiamenti che può subire, alla sua elasticità e resistenza come ai suoi rapidi processi di deterioramento e deformazione. È impossibile raccontare il dolore dall’esterno, io ci ho provato ma sento di aver fallito. E forse anche Poirier e Hooker non saprebbero parlare al posto delle loro ferite, del loro sangue. La storia del dolore è la storia della nostra carne.