Pubblichiamo un estratto di “Artisti, pazzi e criminali”, raccolta di articoli di Osvaldo Soriano del 1983 tradotta da Vittoria Martinetto e Angelo Morino, e pubblicata in una nuova edizione curata da SUR, con traduzione riveduta e corretta da Chiara Gualandrini. Se volete acquistare il libro potete farlo cliccando qui.
[Panorama, 12 gennaio 1971]
a Francisco Juárez
La passione per la boxe mi viene dall’adolescenza. Ricordo che verso il 1958 Ricardo González, «Gonzalito», ormai vecchio, rovinato, andò a General Roca a battersi contro un cileno che furoreggiava nell’Alto Valle de Río Negro. In quel periodo io abitavo a Cipolletti e andai con tutta la banda a veder battersi quella figura che per noi era leggendaria. «Gonzalito» vinse e rimase con noi fino all’alba, a bere vino e a raccontare aneddoti. Aveva seguito il destino crudele di quasi tutti i pugili: da strillone a campione, per finire come saltimbanco in un qualsiasi ring polveroso di provincia.
Aveva avuto una notte molto agitata, «tormentosa», avrebbe detto lui. Era soddisfatto, anche se piuttosto stanco, e un sonno implacabile lo dominava. Lentamente cominciò a svestirsi. Dapprima si slacciò la cinghia che gli serrava il petto: vi reggeva una pistola che lasciò negligentemente sul cassettone. Le lanciò un’occhiata – l’ultima –, e sorrise; ci aveva vissuto incollato, una buona amica. I suoi occhi si rannuvolarono e una vertigine lo fece traballare; fu solo un istante, ma sicuramente gli bastò perché le immagini del suo itinerario passato lo mitragliassero in rapida successione. Un lerciume da cui non era mai riuscito a sfuggire, condiviso da ventiquattro fratelli in una baracca di Pine Bluff, nell’Arkansas, l’aveva insidiato; ricordò, forse, un’altra notte piovosa di trent’anni prima, quando suo padre gli aveva mollato un calcio nel sedere che l’aveva buttato a terra mentre sentiva gridare: «Fuori, fannullone, mangiapane a ufo!» Questo gliel’avrebbe perdonato, ma non lo sputo che era arrivato dopo perché, come diceva lui, «non è bello che un negro sputi a un altro negro».
Charles Sonny Liston era in mutande; cercò un fazzoletto nei pantaloni che aveva buttato a terra, si asciugò il sudore che gli scorreva lungo il collo, lo ripose nella stessa tasca e lì trovò una piccola lima. Stava per limarsi le unghie quando un altro capogiro gli tolse le forze; d’improvviso, un lampo lo frustò da dentro, ma non riuscì a provare dolore. Ebbe una convulsione, si curvò come durante quelle grandi serate sul ring, e cadde pesantemente su uno sgabello che cedette sotto il suo peso. Il corpo nero rimase immobile con le braccia abbandonate e il torace appoggiato al letto. Era la sua ultima caduta. Oppure il modo in cui toccano il fondo quelli che stanno sempre cadendo. Il telefono squillava senza tregua; una chiamata tardiva che Geraldine – sua moglie – tentava da St. Louis City alla sua casa di Las Vegas, ora disabitata. Immediatamente – non si capisce mai come l’angoscia si trasmetta a distanza – immaginò il peggio: sentì che fra lei e quella morte c’era un passo e lo fece il più in fretta possibile. Un paio d’ore dopo (appena trascorsa la mezzanotte di martedì 5 gennaio), forzava la porta circondata da poliziotti e si ritrovava davanti il cadavere di Sonny. Era finito il lungo addio.
Le circostanze della morte furono ricostruite (immaginate?) dall’ispettore Gene Clark, che indagò sul caso. Liston era nato trentotto anni prima (certuni, tuttavia, dicono che ne avesse quarantatré) a Pine Bluff e aveva trascorso i primi quindici della sua vita nei campi di cotone. Suo padre aveva unito i dodici figli del primo matrimonio ad altrettanti portati dalla seconda moglie, ma vide allontanarsi Charles quando aveva diciott’anni. Se ne andò lungo il sentiero di terra battuta che portava allo stradone, ma non era solo: lo accompagnavano due poliziotti e non sarebbe ritornato prima di tre anni. Rinchiuso nella prigione di Jefferson City (aveva rapinato una stazione di servizio), il sacerdote Alois Stevens lo spronò a dedicarsi alla boxe, quell’altro modo di crollare a terra fra ovazioni e applausi. Buttò giù tre avversari nel precario ring del carcere e ottenne la libertà nel 1952. Non sapeva dove andare e Stevens lo portò a casa sua. Un anno dopo debuttava sui ring e il 25 settembre 1962, dopo fulminanti vittorie, conquistò il titolo mondiale dei pesi massimi sconfiggendo Floyd Patterson.
Il regno durò meno della sua innocenza nei campi di cotone: il 25 febbraio 1964 un giovane insolente e talentuoso – Cassius Marcellus Clay – lo faceva fuori in sei round. Dovette ritirarsi, ma i cronisti sospettarono qualcosa di losco. Le coscienze a posto si sono sempre beffate dei vinti. In quel periodo la malavita circondava Liston, lo avvolgeva in una silenziosa ragnatela. Sonny fu l’idolo dei bassifondi, che lo abbandonarono quando conobbero un altro più giovane e più bello; ma Clay si sarebbe beffato di loro per dedicarsi a una causa politica: i Black Muslims. Un anno e mezzo dopo Cassius Clay vinceva di nuovo e niente avrebbe più potuto fermarlo. Il colosso di cento chili – era alto 1,85 – era affiliato a Frankie Carbo e Frank Palermo, capi di una mafia che signoreggia nel cuore dell’America del Nord. Si diede, inoltre, alle droghe e all’alcol, fughe che lo blandivano, gli opponevano una realtà all’altra.
Si era battuto cinquantun volte come professionista (trentasei trionfi per ko, solo cinque sconfitte), ma i suoi due ultimi incontri furono disastrosi: il 6 dicembre 1969 Leotis Martin lo stese al nono round e il 29 giugno 1972 il suo carnefice fu Chuck Wepner, che lo sconfisse alla seconda ripresa*. Negli Stati Uniti si era sempre creduto che Liston sarebbe stato un avversario eccellente per l’argentino Oscar Ringo Bonavena.
Quando morì, nessuno sa esattamente in che giorno (il cadavere, al momento della scoperta, risaliva a una settimana prima), poteva ricordare una ventina di soggiorni in carcere, un migliaio di inseguimenti vani, appena qualche ora di pace in quella casa di Las Vegas dove finì i suoi giorni. «Da quando sono nato», aveva detto, «ho dovuto battermi per la mia vita». Forse l’avrà contrariato morire in maniera pacifica, senza aver potuto cogliere quella vertigine che preannuncia le catastrofi definitive. Non gli fu mai possibile scegliere e il destino gli rifiutò la possibilità di una morte scelta da lui. La settimana scorsa, la polizia sospettava che l’avesse stroncato una dose eccessiva di alcaloidi; altri, più allarmisti, credevano a un omicidio, a una vendetta, a un regolamento di conti. Forse Sonny l’avrebbe desiderato, perché visse sempre nel pericolo, sputò sulla società, starnutì contro le basi dell’establishment e pagò cara la sua audacia. Le canaglie preferiscono morire a testa alta.
* In realtà Sonny Liston vinse il suo ultimo incontro, appunto con Chuck Wepner, interrotto al nono round dal medico per tagli agli occhi (Wepner ebbe bisogno di 72 punti dopo l'incontro).