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Salerno, 22 maggio 2022.
Nel silenzio dello stadio, dei palazzi, delle strade, di una intera città... gli altoparlanti diffondono un brano di Ennio Morricone, la famosa colonna sonora di C’era una volta in America.
Su quelle note – come nel time-lapse di un fiore che sboccia – la curva sud comincia ad animarsi: i tifosi srotolano due immensi teli, uno per lato, su cui sono dipinte due cineprese puntate verso il centro del settore. Su altri teli compaiono un ciak, la scritta c’era una volta a Salerno e il numero 1919 (anno di fondazione della nostra squadra).
Centinaia di cartoncini gialli disegnano i fasci di luce delle cineprese che convergono su un ulteriore, gigantesco telo: chilometri di stoffa che scorrono dall’alto verso il basso alternando (sincronizzati con la data che ogni volta cambia, come l’ora segnata da un orologio digitale) quindici immagini legate alla storia della Salernitana: le leggendarie prime maglie della squadra, il titolo di un giornale che celebra la promozione in Serie A, la prima coreografia della curva, la vittoria della Coppa Italia Lega Pro, un ritratto di Agostino Di Bartolomei (capitano, nel suo ultimo anno di carriera, della Salernitana promossa nel 1990 in Serie B), il cavalluccio marino simbolo della società.
La nostra idea è di ripercorrere, come in un lungometraggio, le principali tappe della storia del club.
Mentre il pubblico si esalta... mentre la partita ha inizio e i calciatori (incantati) non sanno se guardare il pallone o la curva... mentre la pellicola di stoffa continua a mostrare frammenti di storia e le note di Ennio Morricone risuonano in uno stadio commosso e ammutolito... noi che alla creazione di quella coreografia abbiamo dedicato mesi della nostra vita e che stasera – senza avere mai avuto la possibilità di fare prove – la mettiamo in scena, cerchiamo di posticipare la commozione a quando quello spettacolo di ben sette minuti sarà terminato e rimaniamo concentrati sul far coincidere con precisione maniacale ogni cambio di data con la rispettiva immagine.
Anche i nostri anni di curva sono stati un film.
Migliaia di fotogrammi che non smettono di scorrere, come una coreografia intensa ed entusiasmante, destinata a fare per sempre da sfondo alle vite di ognuno di noi.
1986, Catanzaro.
Un pullman percorre senza vetri la A2, Reggio Calabria-Salerno. Occhiali da sole e sciarpa annodata al collo tirata su fino alla bocca, l’autista guida imperturbabile nonostante l’assenza di parabrezza lo esponga al rigore di una serata invernale.
Sapevamo che Catanzaro non sarebbe stata una trasferta tranquilla. Nella partita di andata ad alcuni tifosi calabresi, una decina, avevamo concesso di assistere all’incontro in tribuna a condizione, però, di non esporre lo striscione.
Scesi dai pullman veniamo avvicinati da un gruppo di ultras locali che ci ordinano di non esporre i nostri. Loro a Salerno erano in dieci, noi a Catanzaro siamo centinaia: ci rifiutiamo.
La mancata accettazione di un criterio di reciprocità scatena la rabbia dei nostri avversari, che neanche la vittoria da loro ottenuta in campo serve a stemperare.
Convinti di proteggerci e di scongiurare in questo modo il rischio di incidenti, i poliziotti convogliano i pullman sotto la nostra curva. Lo stadio è però al centro della città, innervato da minuscole stradine attraverso le quali è folle credere che i nostri torpedoni possano circolare senza essere assaltati. Farci sfilare a piedi, accompagnati da una adeguata scorta, avrebbe favorito un più agevole deflusso.
Fuori dalla curva, Catanzaro ci aspetta per lapidarci. Piazze, vie e finestre sono affollate da una città ostile. Con una carica riusciamo a farci strada dallo stadio ai pullman. Preceduti e seguiti dai lampeggianti, i bus percorrono a passo d’uomo i primi metri. Appena ci inoltriamo tra i palazzi, però, una pioggia di sassi, vasi e monetine prende di mira i nostri vetri, facendoli esplodere.
Persuaso l’autista ad aprire le porte, ci rendiamo conto che la strada è così stretta che l’unico modo per scendere – e caricare gli assalitori – è arrampicarci sulle macchine parcheggiate ai lati. Torce, razzi e sassi: il cielo di Catanzaro sembra quello di Apocalypse Now.
I nemici si dileguano, pronti a materializzarsi ogni volta che, risaliti a bordo, proviamo a ripartire. Un percorso a singhiozzi costellato da continue soste.
Il parabrezza del nostro pullman – centrato da una grossa pietra lanciata da un catanzarese, fermo a centro strada con il volto travisato – è una delle prime vittime. La sassaiola prosegue anche fuori dalla città. L’ultimo vetro viene infranto non lontano da Lamezia Terme, a trenta chilometri da Catanzaro. Al barista di un motel di Belvedere Marittimo (Cosenza), già ibernati da quel tratto iniziale di viaggio senza vetri, chiediamo – per riscaldarci – cinquantaquattro tè allungati con del whisky. Vedendoci in quelle condizioni, l’uomo ne versa comprensivo almeno due dita per tazza.
Alcuni di noi all’epoca sono ragazzini, attesi a Salerno dai rispettivi genitori.
Sguardi increduli assistono all’arrivo di quel pullman con il parabrezza e più della metà dei finestrini rotti, guidato da un autista munito – come uno sciatore – di berretto, sciarpa di lana e occhiali da sole.
La trasferta a Catanzaro è, in qualche modo, emblematica: freddo, pioggia, sconfitte, sassi, scontri... niente ha mai avuto il potere di fermare la nostra passione.
A Salerno amore per la città e tifo per la squadra sono sempre stati visceralmente legati.
Da prima che nascessero gli ultras, lo stadio Vestuti (inaugurato nel 1931) è un’arena le cui tribune sono piene di tifosi, profondamente innamorati – per tradizione familiare – della Salernitana. Una disciplina in voga sugli spalti già dagli anni sessanta, e sintomatica del coinvolgimento con cui le partite vengono vissute, è “il lancio della scarpa”: attempati signori manifestano il loro dissenso nei confronti delle discutibili decisioni arbitrali sfilandosi una scarpa e scagliandola verso i guardalinee colpevoli di sbandieramenti inopportuni. Le scarpe, recuperate dai raccattapalle, vengono ogni volta restituite ai lanciatori. Durante le partite più accese, un tappeto di calzature di diversa foggia e misura rimane per decine di minuti lungo la linea del fallo laterale.
Calore e passionalità spesso trascendono, dando luogo già all’epoca a violenze (che quindi preesistono al fenomeno ultras). Proprio a Salerno si registra il primo morto per incidenti in occasione di una partita di calcio.
28 aprile 1963: Salernitana-Potenza. Ospiti in vantaggio per 1 a 0, a dieci minuti dalla fine l’atterramento in area di un nostro centrocampista non viene sanzionato con il calcio di rigore che a tutti sembra indiscutibile. Abbattute le reti, i tifosi entrano in campo. Nei successivi scontri con la polizia, un proiettile vagante sparato da un agente mai identificato uccide un tifoso seduto in tribuna, Giuseppe Plaitano, quarantottenne padre di famiglia (alla cui memoria è dedicato il gruppo Ultras Plaitano, fondato nel 1978).
Ancora prima, 1945, la morte è stata solo simulata: Salernitana-Napoli. All’ottantesimo minuto, sull’1 a 1, l’arbitro Stampacchia assegna agli ospiti un rigore decisamente controverso. Nonostante l’errore dal dischetto, in campo scoppia una rissa tra i giocatori, a cui i tifosi, scuotendo le reti per sfondarle, cercano di unirsi. Tra lo sconcerto generale l’arbitro crolla a terra, esanime. Trasportato in barella fuori dal terreno di gioco, al sicuro negli spogliatoi si alzerà in piedi e spiegherà sorridente di aver simulato la morte per placare gli incidenti.
Tanatosi dell’arbitro Stampacchia.
Il fatto che Salerno sia carente di infrastrutture sportive e di locali notturni contribuisce a convogliare verso il tifo per la squadra passione e tempo libero di quasi tutti noi ragazzi. È nei bar, in quegli anni i principali punti di ritrovo, che la nostra passione prende la forma dei primi gruppi organizzati e non a caso dai bar che ci si fa ispirare per la scelta del nome.
Nel 1975 nascono gli Ultras Bar Nettuno, che, destinati l’anno seguente a sciogliersi, saranno sostituiti dagli Ultras Real (il Bar Reale è il luogo dove, durante la settimana, alcuni di noi sono soliti incontrarsi). Nel 1977 è la volta dei Fedelissimi Bar Trieste.
La geografia del tifo è quella dei locali in cui trascorriamo le nostre adolescenze fuori casa.
Il 1977 è l’anno del debutto di un altro gruppo, i Panthers, i primi a introdurre allo stadio Vestuti una forma di tifo (fumogeni, tamburi e striscioni) più moderna, strutturata e aggressiva.
È comunque al ’75 che si fa risalire la nascita a Salerno del movimento ultras (nel 2025 ricorre, infatti, il cinquantennale).
La svolta, nel 1982, con la decisione di tutti i preesistenti gruppi di unirsi formandone uno nuovo: Granata South Force (gsF). Simbolo: stella a cinque punte (nessun riferimento politico, solo un omaggio ai cinque gruppi protagonisti della fusione).
Sempre più curve oggi scelgono di farsi rappresentare da un solo striscione. In questo, come in molte altre cose, siamo stati precursori.