L’atterraggio
Giovedì 26 marzo 2015 alle 11 circa—orario terrestre—un oggetto interstellare è transitato nella Galassia Italia. A seguito di ordinarie e apparentemente ben calibrate manovre, il velivolo ha interrotto la sua navigazione aerea nel punto di coordinate 8° 43' Est di Longitudine e 45° 37' 59'' Nord di Latitudine, località più facilmente identificabile con il nome di Aeroporto Malpensa. La forma di vita che si è manifestata ai presenti è stata stimata in 201 cm di altezza e 118 kg di peso, circondata da una stupefacente luminescenza a forma di anello iridato e con il capo sormontato da quello che potremmo definire come “il sorriso beffardo di un Panda su un cappello”. La popolazione locale, giunta da un limitrofo piccolo insediamento urbano, ha consegnato all’abitante ultraterreno una ghirlanda di fiori bianchi e blu con la quale il divertito organismo sovrumano si è lasciato decorare il collo in segno di cordiale benvenuto. Ne sono seguite grida, canti, cori e altre manifestazioni di giubilo saltellante.
Com’è potuto accadere?
Il dato più fantascientifico che questo fantomatico dispaccio ci permette di registrare è il seguente: Ron Artest nel campionato italiano, è tutto vero! Per chi masticasse poco di pallacanestro, forniamo brevi cenni biografici: l’alieno è nato 35 anni fa con il nome di Ronald William Artest Jr. ed è cresciuto nell’equivalente delle nostre case popolari nel neighborhood di Queens, New York—un doppio blocco di palazzoni marroni snodati e riuniti in un isolato chiamato Queensbridge House, una specie di mostro di lego gigante con più di 7 mila abitanti, tra il Queensbridge Park e la centrale elettrica di Ravenswood.
Tra quei 7.000 ci sono stati anche i rapper Nas, Craig G, oltre a Ron Artest e i suoi cinque fratelli minori. Una zona dove spaccio e criminalità di strada sono di casa. Quando Artest è stato accusato di essere troppo violento, rispose dicendo che lui combatte in campo così come ha sempre fatto per tutta la sua vita, prima per strada e poi nei playground della sua città, a Long Island, al West 4th, al Rucker... «Sono cresciuto combattendo, gioco combattendo».
Dal 2011 Ron Artest ha cambiato legalmente il suo nome in Metta (una parola pali che significa “amore-gentilezza”) e il cognome in World Peace (che si spiega da sé). Da professionista ha disputato 14 stagioni NBA e vinto il titolo nel 2010 in maglia Lakers. È stato uno dei giocatori più duri e cattivi della storia di questo sport, elemento che stride non poco con la natura del suo secondo battesimo, ma perfettamente in linea con la dicotomia costante del personaggio.
Per chi, invece, la pallacanestro non solo la mastica, ma di pallacanestro si nutre l’anima e si riempie gli occhi costantemente come un bambino che per la prima volta ha visto la retina di nylon rumoreggiare e sventolare dopo un suo tiro, c’è davvero poco da dire. Ron Artest, l’amico dei Panda, l’ultimo Difensore dell’Anno NBA a giocare da esterno, lo conosciamo bene. E tra poco arriveremo a dire qualcosa in più su di lui, sulla sua adattabilità al nostro campionato e le sue caratteristiche in campo, con e senza palla. Intanto, però, facciamo un passo indietro, e poniamoci la domanda davvero rilevante dal momento in cui Metta World Peace è diventato un giocatore della Pallacanestro Cantù fino al termine della stagione. Una domanda del tutto lecita: com’è potuto accadere?
«La risposta, in realtà, è molto semplice, di una semplicità quasi disarmante: è accaduto tutto né più né meno come se fosse un qualsiasi altro giocatore. Una naturalezza che definirei quasi incredibile se pensi al nome altisonante e al personaggio» dice la voce al telefono, lasciando scivolare le parole con andamento ritmato, sicuro. «Di fatto lui aveva questo contratto in Cina di qualche mese, dopo di che è tornato in America con l’intenzione, credo, di terminare la stagione in NBA. La cosa più probabile è che in NBA non abbia trovato la situazione a lui più congeniale e abbia chiesto al suo entourage di iniziare a guardarsi intorno, aprendo all’Europa, cosa che non era mai stata considerata prima. Probabilmente era andato in Cina per una questione di marketing—bisognerebbe parlarne con lui per avere una conferma—dopo di che ce l’hanno offerto come a tante altre squadre. Non è che Metta World Peace volesse fortissimamente venire a Cantù... è stato offerto a diverse squadre, tra cui noi. Io credo che l’operazione si sia potuta concretizzare perché un grande club fa fatica ad inserire un giocatore così invasivo in questo momento della stagione, perché è un personaggio che pesa all’interno dello spogliatoio, in un periodo in cui i top club hanno già raggiunto un equilibrio che non vogliono mettere in discussione; inoltre le squadre di medio livello si fanno spaventare da questi nomi e io stesso quando me l’hanno detto ho risposto 'Sì va bene, e quindi?'».
La voce fa una pausa, si arresta; ma più che fermarsi prende una piccola rincorsa e riparte con la stessa spedita sicurezza di prima, anche se il timbro vocale (che ben conosco) mi pare, ora, attraversato da un lieve e comprensibile brivido di euforia. «Poi pensandoci e ripensandoci aveva delle caratteristiche che si adattavano alla squadra, noi eravamo in rotta con Hollis e ho pensato... perché no?».
Ho chiamato Daniele Della Fiori, general manager della Pallacanestro Cantù, il 24 marzo. Il motivo principale della chiamata era fargli gli auguri per i suoi 35. E per chiacchierare un po’. Tra le varie cose c’era questa storia di Artest, così, tra il più e il meno, ne abbiamo parlato. Poi, qualche ora dopo l’ho chiamato di nuovo, dicendogli che stavolta avevo bisogno di un po’ più di formalità, perché dovevo scrivere qualcosa sull’arrivo di un Alieno in Brianza.
«Oh, mica ci dobbiamo dare del lei, sia chiaro». «Figurati se ti do del lei!». Io e Daniele ci conosciamo da quasi vent’anni. Il nostro primo incontro è avvenuto proprio su un campo da basket, un playground di cemento a un centinaio di metri dalla spiaggia bianca e delicata di Tropea. Era l’agosto del 1996, avevamo qualche chilo in meno di oggi e un po’ di dinamismo in più. L’anno successivo ci saremmo potuti incontrare da avversari alle finali nazionali di categoria, se lui non si fosse dovuto operare al ginocchio. Io giocavo al Basket Roma di Roberto Castellano e l’allora Polti Cantù ci eliminò, aggiudicandosi poi lo Scudetto. Nel giorno in cui si parla di Ron Artest in Brianza, nella sede del Coni al Foro Italico di Roma Fabrizio “Ciccio” Della Fiori, padre di Daniele, entra a far parte dell’Italia Basket Hall of Fame. Vestendo la maglia canturina, “il Ciccio” ha vinto uno Scudetto, una Coppa Intercontinentale, tre Coppe Korac e tre Coppe delle Coppe nel leggendario decennio dei Settanta, da aggiungere ai successi in maglia azzurra—un Argento olimpico nel 1980 e il bronzo Europeo in Jugoslavia del 1975.
In casa Della Fiori il basket è il verbo, è l’aria che Daniele ha respirato fin dalla nascita e, probabilmente, è anche la responsabilità che ha sentito sulle spalle, da ragazzo, vestendo la stessa maglia del padre, con quel cognome così pieno di storia, e portata avanti dopo anni di passione da tifoso, partendo con la gavetta in società fino al salto in dirigenza. Due stagioni con il budget ridimensionato rispetto al recente passato. Due stagioni in cui la necessità di avere intuito e competenza si scontra con la forza economica delle rivali. Immagino—mentre sento la sua voce distorta dalla cornetta, e mentre posso figurarmi la sua espressione tranquilla e compostamente soddisfatta—che quel peso abbia iniziato a sbriciolarsi, magicamente, e a tramutarsi in confortevole carezza, nel momento in cui la domanda gli è apparsa davanti agli occhi, semplice e necessaria, come la scritta lampeggiante di un motel nei telefilm americani degli anni Ottanta: «Perché no?».
«Allora ho provato a capire se c’erano delle possibilità reali. Più chiedevo e più capivo che c’era veramente la possibilità di discuterne. A un certo momento mi sono trovato a fare l’offerta che evidentemente—ma è quasi banale dirlo—a livello di cifre era infinitamente al di sotto di standard a cui è abituato un giocatore che, solo con il basket, ha guadagnato quasi 80 milioni di dollari in carriera. Quindi si tratta di un’operazione che lui vuole fare per, non so, aprirsi una vetrina in Europa? Pubblicizzare qui da noi il suo brand? Non lo so, fatto sta che lui ha voluto sentire l’offerta e ci ha ragionato un po’. Io credo abbia fatto due chiacchiere con Bootsy Thornton, che è stato suo compagno a St. John’s (l’Università del Queens, a pochi passi da casa sua), e ha sicuramente fatto due chiacchiere con Darius Johnson-Odom, la nostra play-guardia che ha dei trascorsi ai Lakers, dove hanno giocato insieme e sono rimasti amici. Dopo un paio di giorni ha accettato. Quindi sono iniziati i colloqui personali—due, tra me e lui. E, magicamente, ti trovi al telefono con uno che ha deciso una gara-7 di finale NBA vincendo il titolo: tutto incredibilmente normale!».
Just a flashback
17 Giugno 2010 ore 10:33 PM di Los Angeles, California. Staples Center. Gara-7 di Finale NBA. 1:30 da giocare, Paul Pierce palleggia in posizione di play. È stata una gara durissima per lui per via della marcatura di Ron Artest, anche se a tabellino ha messo una doppia doppia da 18&10.
I Celtics sono sotto di 6, si va per un tiro rapido. Pierce penetra a destra attirandosi addosso tre maglie gialle; dopo due palleggi però si ferma al gomito e fa un ribaltamento skip sul lato debole, dove Rasheed Wallace riceve il pallone. Lo scarico gli è arrivato un po’ basso, ma con Kobe Bryant in recupero con la mano in faccia non c’era altra scelta: la sua parabola è il solito interminabile arco verso il paradiso. Sembra un tiro disperato, se esce è game over, ma la palla entra per il -3 Celtics, con 1:23 sul cronometro. C’è ancora vita, come si dice da queste parti. L’anello torna in ballo.
Ora, dall’altra parte sembra tutto già scritto: ci pensa il 24. È così, non può essere diversamente. Lo sanno i gialli, lo sanno i verdi. Lo sanno Jack Nicholson e Donald Sutherland con i cappelli di paglia e le loro camicie sgargianti, seduti sulle poltrone da 5.000 dollari d’ordinanza. Lo sa anche Kobe che, ai tempi dell’High School, per assomigliare il più possibile a Michael Jordan, portava volontariamente le partite punto a punto fino allo scadere, così da avere in mano l’ultimo pallone: un esercizio di grandezza. Un tentativo di immortalità, quasi. D’altronde, non ha vissuto per null’altro.
Bryant si porta a spasso palla e occhi di milioni di spettatori, tra sedili calpestati da gente in piedi e divani ingombrati da un pubblico planetario dislocato in fusi orari completamente diversi. Va a palleggiare davanti alla panchina dei Celtics, senza perdere di vista i numeri rossi sopra al tabellone. Ray Allen riesce a contenerlo anche quando Kobe sembra pronto a partire in uno contro uno e ammazzare la partita, serie e stagione. Rasheed a quel punto, con meno di 6 secondi sul cronometro dei 24, parte per un raddoppio concordato probabilmente nell’ultimo time-out ma che, in quel momento, sbilancia tutta la difesa. C’è un po’ di nebbia nelle rotazioni difensive dei Celtics e Pierce si trova a metà tra Odom e Ron Artest. Kobe se n’accorge e la palla finisce al numero 37, fino a quel momento con 1/6 dall’arco. Pierce recupera e gli chiude la partenza in uno contro uno, Artest prova un jab step a cui non abbocca nessuno. Ha la palla tra le mani e tre secondi per fare qualcosa. Quando alza gli occhi il suo tiro è già partito, senza pensarci su ulteriormente.
L’istintività è il tratto caratteristico della sua carriera, nel bene e nel male.
Jack Nicholson e Donald Sutherland fanno capriole sulla linea laterale, il pubblico si eleva in un’esplosione. Ron torna in difesa e lancia baci verso gli spalti. Boston Celtics 73 - Los Angeles Lakers 79. C’è ancora un minuto da giocare, qualcos’altro succede (quel batticuore impazzito che regalano solo i finali di partita nel basket) ma, di fatto, la partita finisce qua. Sul tiro di Ron Artest. Lui, che due anni prima, dopo la tremenda sconfitta in gara-6 al Boston Garden, aveva buttato dentro la testa interrompendo il dialogo privato tra Kobe e Phil Jackson dicendo «Se vi serve un difensore sul perimetro, sono qua». Lui, che aveva fatto a pugni con l’Attacco Triangolo per tutta la stagione, pur decidendo la serie con Phoenix con il rimbalzo-e-canestro decisivo di gara-5. Per Federico Buffa «Artest è l’MVP della partita». E l’anello non balla più.
Cosa farà l’alieno tra i terrestri?
A me, che questo qua ora giochi da noi, tanto normale non sembra. Inoltre, c’è da chiederselo: cosa ci si può aspettare da lui? Poco più di dieci anni fa ha messo la sua firma indelebile su "The Malice at the Palace", una Royal Rumble “Artest contro tutti” senza alcun vincitore alla fine. Unico risultato? Squalifica per il resto della stagione, 86 gare: la più lunga nella storia NBA. Un fatto di cui Artest si è detto più volte pentito—l’ultima nella conferenza stampa di presentazione qui da noi.
Il video ha fatto il giro del mondo, un episodio che ancora oggi viene ricordato con orrore negli uffici dell’Olympic Tower di New York. Artest ha vissuto poi un purgatorio tra Sacramento e Houston, dove ci si ricorda di lui per un celebre e durissimo corpo a corpo con il suo futuro protetto numero 1, Kobe Bryant. Trovare un corrispettivo di Artest nella storia NBA non è semplice. Alcuni lo vedono come un erede di Rodman, per il modo in cui i due hanno saputo combinare eccentricità e scienza cestistica in egual misura. Saper attirare l’attenzione e sapersi vendere bene come personaggio è una cosa, lottare su ogni singola palla di ogni azione di ogni partita di ogni stagione è una cosa per pochi. Pochi vincenti. Tanti piccoli gesti che non vanno nelle statistiche, ma cambiano le annate. E Rodman ha finito la carriera con ben cinque anelli alle dita, e non era affatto uno stupido. Su questo, credo, i due si assomiglino di più che per i capelli ossigenati.
E ora? Compagni e avversari devono aspettarsi i gomiti in gola, i pugni, lo scontro fisico? O quella cosa schifosa che è stata la gomitata a James Harden? Ecco, l’unico atto che veramente ripudio di Metta—tra i tanti Brutti Episodi della carriera di Ron Artest, citati e non—è il colpo tirato al "Barba", che ha rischiato di porre fine alla carriera di un attuale candidato MVP.
Questione di centimetri.
In questi giorni è facile veder rimbalzare sui social molte delle sue follie, leggerle nei tanti articoli che si stanno occupando di lui. Alcune di queste follie sono anche divertenti, come ad esempio i pantaloncini di Pierce tirati giù a palla lontana, i baci ai bicipiti dopo una stoppata o le scarpe di avversari lanciate fuori dal campo prima di un contropiede. Altre, senza senso; come le telecamere fracassate al Madison Square Garden, o la lite da bar col mitico Pat Riley, all’epoca coach dei Miami Heat.
Quel che più sconcerta, a volte, nelle improvvise risse che Metta ha scatenato in campo durante la sua carriera, è proprio questo: molte risultano inspiegabili. O meglio: sono razionalmente inspiegabili, ma si spiegano con la sua storia. La prima volta in cui Ron ricorre alla psicoterapia è all’età di 7 anni. È il padre, un ex pugile, a convincerlo. Quella più eclatante all’indomani della sua conversione: «Mi sento finalmente un’altra persona, e di questo ringrazio la mia psicanalista». Ma, probabilmente, lui era il primo a sapere che così non era affatto cambiato. Metta World Peace ha anche sostenuto finanziariamente diverse case di cura mentale, le sue foto con gigantografie di assegni da 30-40.000 dollari hanno fatto il giro del web. Lui, stuzzicato sull’argomento, ha risposto: «So cosa vuol dire essere considerati dei fuori di testa».
Però è bene ribadire che c’è stato anche un grande giocatore, ed è per questo che da lui a Cantù ci si possono aspettare mani veloci su tutti i palloni, aiuti difensivi che riempiono l’area o soffocano i migliori attaccanti uno contro uno. Al primo anno ad Indiana la sua media di recuperi è stata di 2.56 per gara, la seconda più alta della Lega. Ci si può aspettare da lui difesa su esterni e lunghi (so che è un’estremizzazione, ma si pensi che Samardo Samuels dell’Olimpia, il centro dominante del campionato italiano, in fondo pesa ufficialmente solo 3 kg più di lui), esperienza, rimbalzi, qualche tiro aperto da tre. Probabilmente non sarà pronto da subito, forse sarà costretto ad essere più realizzatore di quanto realmente sia, ma anche per gli avversari sapere che uno con quella capacità di lettura difensiva gioca “con gli altri” farà un certo effetto. Ecco, prima di vederlo coi nostri occhi—da ala piccola? da ala grande perimetrale?—chi ha immaginato il suo arrivo sulla Terra, cosa ha tentato di rispondersi?
«Premetto che le mie sono semplicemente sensazioni, perché poi quello che sarà lo deciderà l’allenatore»—Daniele si riferisce ovviamente a Pino Sacripanti, come lui canturino doc, attuale coach di Cantù e allenatore di Daniele ai tempi delle giovanili. «Abbiamo già accennato alla questione Hollis: sicuramente lui è quello che quest’anno ha deluso di più, non tanto per le prestazioni, ma un po’ per come si è spento e per come ha dato l’impressione di smettere di lottare, di crederci, e di provare a mettere il corpo quando le cose non andavano bene. La sua è una situazione che da noi non ha funzionato» prosegue spedito come chi, in queste ore, è pronto a dare spiegazioni sui retroscena, sulle strategie e raccontare (rendendolo di tutti) un piccolo miracolo di promozione dell’intero movimento del basket italiano. Quello che passa per le curve delle squadre di tutte le categorie, per i campi di minibasket, per i playground multietnici dove non c’è estate e non c’è inverno, ma solo un pallone che rimbalza e sei o otto, o a volte quattro o solamente due ragazzi e ragazze disposti a sfidarsi e ad arbitrarsi la partita fino ai 21 («No, facciamo 31 tanto non c’è nessuno fuori che aspetta»).
«E adesso lo rimpiazziamo con Ron Artest, o Metta World Peace che dir si voglia. Lui è un giocatore particolare, perché è la classica ala piccola NBA che diventa ala grande europea. Per caratteristiche fisiche assomiglia senza ombre di dubbio di più a un 4: ha un corpo pazzesco, due metri e uno/due metri e due per un peso tra i 115 e i 118 chili, quindi stiamo parlando quasi di un corpo da pivot-bonsai, davvero molto particolare. Artest non è mai stato un grandissimo atleta, però ha i piedi abbastanza veloci per quella stazza. Sicuramente, a livello difensivo può fare qualsiasi cosa: appena entrerà nei meccanismi non solo di squadra, ma anche familiarizzando con l’approccio lato forte-lato debole che in Europa è diverso da quello NBA, potrà solo che migliorare l’aggressività e l’efficacia della nostra difesa. Offensivamente...» qui l’esitazione me l’aspettavo, ma devo dire che è molto meno di quel che credessi, quasi solo il tempo di un respiro più profondo «... è tutto da scoprire: non ha un talento puro giocando da numero 3, forse è più congeniale da 4; è perimetrale da 4, ma non tanto, dato che gioca anche bene in post e non troverà tanti avversari più grossi di lui in quella posizione. Non ha particolare ball handling, ma è efficace in uno contro uno nelle partenze frontali. Quindi c’è da lavorare, da vedere, però, ecco, io credo che lui ci possa dare quella dimensione da tuttofare e, qui soprattutto mi collego al 'discorso spogliatoio': noi pensiamo possa portare una ventata di entusiasmo anche nei giocatori oltre che alla piazza. Perché giocare con Metta World Peace, secondo me, fa salire l’adrenalina anche a un suo compagno di squadra».
Pianeta Cantù
Già, l’adrenalina. L’entusiasmo. A Roma diremmo il “fomento”, a Cantù dicono “ul gasament”. Ma più genericamente potremmo parlare di quella energia necessaria, e così difficilmente raggiungibile fase del sentire umano, sottile come la luce dell’alba, splendente e vorace come la lava di un vulcano. Di questa magia parlo con Luciano, uno dei membri storici degli Eagles canturini, uno che, come lui stesso dice, «le partite le vede più di schiena che di faccia». Gli chiedo cosa ne pensa della questione Metta. «Dopo una stagione difficile, con risultati altalenanti, serviva qualcosa per ravvivare il tutto. E quel qualcosa è stata una bomba pazzesca: abbiamo portato a casa Ron Artest! Adesso speriamo di andarci a prendere i playoff e poi sogniamo, perché sognare non costa nulla». Eccolo il vulcano, che erutta e risplende: adesso sogniamo, perché sognare non costa nulla. Perché davanti al sogno neanche le trasferte fino a Sassari, o da Capo d’Orlando per qualsiasi città di terra ferma, da Caserta a Venezia, da Brindisi e Reggio Calabria fino a Reggio Emilia e Avellino, da Roma a Cantù, a Ferentino, a Pesaro, Varese, Milano, in treno, in pullman, in aereo, in macchina; per i tifosi del basket italiano non pesa nulla, se si può ancora sognare. Altrimenti sì che pesa, e costa. Tempo, fatica, soldi. Tempo sottratto, fatica accumulata, soldi che se ne vanno.
Cantù è conosciuta in Italia non solo per il ricamo (famoso è il pizzo omonimo), ma anche per le aziende del mobile e per il basket. Piccoli segni culturali che sono identità, linfa sociale che si tramanda come il colore chiaro dei capelli, o le vocali pronunciate con l’accento diverso da quelle dei telegiornali. Da qualche anno la crisi è arrivata fin qui ai piedi del lago, ha obbligato a trasformare storie virtuose in tragedie e ha scritto nebulosi drammi quotidiani. Se rifletto a cosa-penso-quando-penso-a-Cantù, ho davanti agli occhi diverse immagini: il sorriso d’avorio di Thurl Bailey, ad esempio, o il suo uso magistrale del piede perno sotto canestro; i capelli morbidi di Pace Mannion e il suo infallibile tiro da tre; quel pazzo di Celentano che palleggia in maniera inguardabile sullo storico campo del Parini; i corpi magri e nodosi di Marzorati e Recalcati. Mi viene in mente uno striscione esposto al Pala Tiziano di Roma, o gli stendardi coi nomi dei ragazzi della curva che non ci sono più. Ma su quei pezzi di tessuto bianco fissati a due bastoni non rimangono solo i loro nomi («Sempre con noi»), rimane pure tutto quel che è stato. E quel che sarà. Quando penso a Cantù penso infatti a una maglietta sulla quale c’è scritto «di padre in figlio». Penso al ragazzino che la indossa e al modo migliore che ha di ricordare suo padre che non c’è più: tra i suoi amici della curva, a condividere un pezzo di sogno.
E rimanendo in argomento, prima di salutarci, chiedo a Daniele: «Com’è per te aver portato una stella dell’NBA, non nella società per cui lavori, ma nella città in cui sei nato, tra la gente a cui appartieni?». «Non posso negare che faccia piacere veder parlare di Cantù fuori dall’Italia con i tweet di Metta ripresi ovunque. Tutto il mondo, per il personaggio, parlava di 'Metta World Peace che va in Cina', e adesso parla di Metta World Peace che va a Cantù. Sicuramente non nego che fa piacere. Non era questo l’intento, ma diventa anche l’occasione per riflettere: nel nostro sport si dice che non ci sono idee, che in Italia il basket è venduto male, si parla troppo spesso con frasi fatte—rilanciare il movimento, dare spazio agli italiani. Io credo che questa sia stata un’idea tecnica e un’idea di come far bene al movimento. In questa situazione economica non possiamo vivere di soli risultati sportivi, altrimenti uno sport così è destinato a morire. Bisogna vivere anche di idee e di sogni da realizzare».
Championship + Champagne + Wheaties = Ron at his best.
Ci siamo: Metta World Peace telefono Italia.
L’esordio di Metta nella Serie A Beko è qualcosa che a scriverlo per bene non ci si sarebbe riusciti a renderlo così. Ma il basket, chi lo ama lo sa, possiede sceneggiature da Oscar. Artest, come aveva già annunciato lo scorso venerdì, sarebbe sceso in campo con lo pseudonimo animalista-commerciale di "The Panda’s Friend". Già durante la sua presentazione al Pianella era stata evidente l’impennata della vendita di pupazzetti-panda nei negozi del centro commerciale Bennet. L’ipotesi del brand che avanza non è più solo un’ipotesi—il suo marchio è ufficialmente lanciato, tanto che alla conferenza stampa viene presentata una versione “pandesca” dell’Acqua Vitasnella, sponsor della squadra. Tutti parlano del Panda sui cappelli e sulle magliette. Tutti parlano del Panda e dell’Italia, la sua nuova patria-mercato. Ne parla perfino la CNN. Ma, come detto, non c’è solo il marketing.
Con pochissimi giorni per allenarsi, Metta è entrato nei meccanismi della squadra, ha corso, saltato la corda, provato gli schemi. Si è fatto trovare in una forma accettabile (e ci voleva, quantomeno per scacciare il fantasma di quella brutta copia di Shawn Kemp arrivata a Montegranaro qualche stagione fa, uno che era stato devastante in NBA, ma che da noi era arrivato dopo il ritiro e coi postumi di problemi per abuso di alcool). Al quinto minuto del primo quarto di gioco contro la Giorgio Tesi Group Pistoia, Ron ha fatto il suo ingresso nella storia del nostro campionato, con la maglia numero 37 (ancora il 37, che per lui è un omaggio a Michael Jackson, per le settimane in cui l’album Thriller rimase al numero 1 negli USA), allungando di fatto la lista dei magnifici extraterrestri venuti da noi a chiudere la carriera come, guardando parecchio indietro, Bob McAdoo, o più recentemente il grandissimo Dominique Wilkins, o ancora Orlando Woolridge, Rolando Blackman e l’ex Sixers Jumaine Jones.
La partita è di vitale importanza: Pistoia e Cantù sono tra le tante squadre che ambiscono al settimo e ottavo posto validi per i playoff. Sono appaiate a 20 punti in classifica, ma Pistoia ha a favore lo scontro diretto dell’andata. Ora, con The Panda’s Friend in campo, l’elettricità del match diventa pericolosa. Dopo un banale recupero sulla linea di fondo, Tony Easley esulta e incita il pubblico di casa per aver fatto carambolare la palla sull’ex Lakers. (Easley si scalda per poco, ma non sospetta neanche la serata che l’attende). Tre minuti dopo, Metta e Milbourne si vedono fischiato un doppio fallo tecnico per un accenno di schiaffeggio al pallone, una cosa di cui quasi non si accorge nessuno, ma gli arbitri scattano come dovessero far respirare Alì e Foreman alla quinta ripresa sul ring di Kinshasa, e fischiano quello che pare essere più un “fallo tecnico preventivo”, come dire: teniamo tutto sotto controllo, ok?
Intanto Artest entra lentamente nel ritmo gara: sembra aver bisogno di togliersi ruggine di dosso, i rimasugli di un infortunio al ginocchio e dell’anarchia tattica che regna nel campionato cinese. Dà via un bell’assist a DeQuan Jones, poco più tardi sbaglia una tripla, poi recupera un palla in difesa contro Valerio Amoroso. Lotta a rimbalzo e va a prendersi i primi due punti italiani dalla lunetta. A fine gara saranno 8 su 8. Metta World Peace si è sgranchito su azione con un palleggio arresto e tiro da due, fluido, facile facile, e il primo tempo si è chiuso sul 38 pari.
Se nella prima frazione non ha inciso molto, Artest ha però tentato di “ambientarsi” e di non forzare. Pino Sacripanti gli ha dato 9 minuti sul parquet, anche perché ha dovuto gestire tre falli, ma c’è da dire che Metta ha giocato con pazienza. Del resto sembra l’esordio che ci si aspettava da lui: una partita più per recuperare forma e capire dove si trova, che per incidere veramente.
Poi nel secondo tempo le cose cambiano. Cantù inizia una rincorsa che durerà fino all’ultimo minuto, fatta di strappi e troppa discontinuità, sia in attacco che in difesa. Quando l’Acqua Vitasnella alza l’intensità e gioca di squadra accorcia nel punteggio, quando lascia liberi di tirare C.J. Williams e Filloy sono dolori. A 3’ dalla fine del terzo quarto Metta segna la sua prima tripla italiana. Prende fiducia e sembra voler testare i suoi mezzi. Ne escono alcune forzature, soprattutto andando a sinistra, dove si sente più sicuro, ma ancora non abbastanza reattivo di gambe. La media al tiro lo testimonia, un 20% complessivo. Continua però a essere preciso ai tiri liberi e a sporcare ogni pallone.
Poi, sul -12 che sembra fatale a Cantù, Johnson-Odom ha i suoi due minuti di geniale solitudine, la stessa che la squadra aveva tanto sofferto nella prima parte di stagione e che ora, confinata in poche azioni, è semplicemente inarrestabile. Ne mette 9 di fila e una partita che sembrava già chiusa, si riapre con una giocata sull’asse World Peace-Gentile: recupero del newyorkese e tripla del -1 da parte del figlio del grande Nando. La rimonta però pare non riuscire fino in fondo, perché Pistoia segna i due liberi e va +3.
Ultimo possesso Cantù. La logica vorrebbe un fallo tattico per non rischiare triple o giochi da tre punti; sembra pure che coach Moretti chieda proprio questo. Fallo sul +3. Oppure no. Fatto sta che i giocatori in maglia biancorossa rimangono a guardare Feldeine che palleggia per il campo fino a trovare quel che di meglio non poteva: un avversario contro cui appoggiarsi mentre tenta un tiro dai 6,75. Il fallo c’è e sono tre tiri liberi. Il dominicano è freddo e si va all’overtime. Una cosa impensabile fino a 120” prima, che gela il palazzetto.
L’inerzia, come si dice, sembra passata nelle mani di Cantù. Nei supplementari l’esperienza di Artest pesa, come pesa l’ottimo lavoro di Eric Williams sotto canestro. Sul -2 Metta si prende un’altra tripla, la sbaglia. Il pallone gli torna in mano e lui tira immediatamente dall’arco, come un flipper. Bam. Stavolta segna. +2 Cantù. Sugli spalti gli Eagles esplodono. Sono andati a Pistoia in tanti nonostante fosse lunedì, sapendo di dover tornare di notte, e la mattina dopo aspettarsi la solita routine fatta di occhiaie, muscoli tesi, orari da rispettare. Ma in questo momento sono aggrappati a un pezzo di quel sogno col numero 37.
Durante tutta la partita si sono insultati con i pistoiesi. Li distanzia un gemellaggio storico tra Cantù e Montecatini, rivali altrettanto storici di Pistoia. A un certo punto della partita però (se ci pensiamo bene, al punto più importante della partita) i tifosi di casa hanno esposto uno striscione per ringraziare gli Eagles (sì, gli stessi Eagles canturini), per l’aiuto (economico e di conseguenza affettivo, morale, concreto) che questi hanno offerto per la causa del piccolo Manuel, un bambino di Pistoia che sta portando avanti una lotta drammatica e coraggiosa. Anche questo è il basket. Anche queste sono le curve. Se le dovessero (o semplicemente, se le potessero) raccontare chi le vive quotidianamente ci sarebbero a nostra disposizione anche tante altre storie, che fanno certo meno scalpore, meno notizia, ma che sono storie altrettanto valide a descrivere quel che accade tra chi vede la partita di schiena, o tiene alte le braccia, o insulta un avversario col sangue alla testa che s’infiamma non solo di odio ma anche d’amore.
La partita? Ah, certo. Anche qui, come nella gara-7 di finale decisa da Ron Artest succede qualcosa nell’ultimo minuto—come il 3/3 di Gilbert Brown dalla lunetta, la persa su rimessa di Gentile e Artest e il tap-in vincente di Easley, già proprio lui che aizzava la folla per un banale recupero e ora, a sirena suonata, si spoglia e esulta tra il pubblico di Pistoia in festa.
Ma preferisco fermarmi a quello striscione di ringraziamento, ai tifosi di Cantù che vanno a conoscere il piccolo pistoiese coraggioso. Di Ron Artest e dei Panda si dirà ancora molto, quindi preferisco chiudere questo personale reportage sull’arrivo di un Alieno del basket nella galassia Italia, con l’incoraggiamento, senza bandiere, di tutti noi umani: Forza Manuel.