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Un arbitro
29 ago 2014
Howard Webb, l'uomo, l'arbitro, forse il migliore della sua generazione, sicuramente il più composto, il più sicuro di sè. Ritratto di una vita dentro e fuori dal campo da calcio.
(articolo)
19 min
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Il countdown dei giorni che mancavano al termine della carriera da arbitro internazionale di Howard Webb è iniziato con l’inclusione nella lista corta dei quindici fischietti che la FIFA ha deciso di tenere in ballo per le quattro conclusive partite della recente Coppa del Mondo in Brasile. Come in quel famoso racconto di István Örkény in cui, dopo la partenza del treno, il corpo del passeggero va scomparendo di fermata in fermata, prima una gamba, poi l’altra, poi un braccio, la testa, la presenza di Webb ha cominciato un processo di dissolvenza in uscita: alla nomina degli arbitri per le semifinali - non era tra quelli - aveva già smesso per metà. Gli rimanevano ancora due chance, certo: le finali. Quella per il terzo posto e la finalissima. Era in bilico tra la sublimazione della redenzione, la gloria eterna (nessun giudice di gara, nella storia del calcio, ha mai arbitrato due finali mondiali consecutive) oppure, semplicemente, la fine di una carriera folgorante. Non gli è stata assegnata più alcuna partita.

Il racconto di Örkény termina con la sparizione del passeggero e la sua nuova apparizione sul sedile di fronte, pronto per un nuovo viaggio. Mercoledì scorso la Professional Game Match Officials Ltd ha annunciato di aver investito Howard Webb del ruolo di nuovo Direttore Tecnico. Fine di un viaggio, inizio di un altro. Quando ha suggerito a Rizzoli di spegnere il cellulare, e riaccenderlo solo dopo Germania-Argentina, negli spogliatoi, con la Coppa nelle mani l’una, l’angoscia della sconfitta l’altra, di Webb si poteva già parlare al passato. E dire che è stato il migliore arbitro della sua generazione.

In Inghilterra si domandavano, prima del Mondiale: con quali motivazioni andrà in Brasile, Webb? Per dispensare suggerimenti ai suoi colleghi più giovani? O per rincorrere la Storia?

Nel marzo del 1984 ha inizio una delle stagioni più dure della storia d’Inghilterra. E non parliamo di calcio. Il governo thatcheriano decide la chiusura di venti pozzi minerari in tutto il Regno Unito: per alcuni è il segno della decadenza di un settore rimasto a lungo improduttivo, per altri il risultato di politiche troppo liberaliste intraprese dall’esecutivo guidato dalla Lady di Ferro. I minatori, fiancheggiati dal NUM, l’incorruttibile e battagliero sindacato di categoria, sono sul piede di guerra.

Howard ha tredici anni. Suo padre è un minatore. È nato e cresciuto a Rotherham, nello Yorkshire del Sud. L’epicentro delle agitazioni, allora, e il centro dello scandalo, oggi. Il diciotto giugno guida la sua bicicletta fino alla collina che domina la Orgreave Coking Plant. Da lassù si vedono gli operai impegnati nel picchetto: alcuni stanno prendendo il sole, altri organizzano una raccolta fondi. Molti stanno mangiando. Alcuni giocano a calcio. La scena che verrà rappresentata di lì a pochi minuti rimarrà immortalata nella memoria collettiva: uno scontro impari e titanico, cinquemila operai fronteggiati da altrettanti poliziotti della South Yorkshire Police, uno scontro di violenza inaudita: poliziotti che in assetto militare, addirittura con reparti a cavallo, assale, arresta, picchia selvaggiamente i minatori impegnati nel picchetto - e poi devasta le case degli occupanti, interi villaggi. Anni dopo al termine di un lungo processo, la polizia si vedrà costretta a risarcire 39 minatori mandati in galera con accuse risultate essere false con 425 mila sterline.

Billy Webb, oltre a essere un minatore, è un arbitro dilettante. Sa quanto può essere dura l’esistenza fuori e dentro un campo di calcio, se scegli il ruolo più scomodo. Howard, come tutti i figli coscienziosi, intelligenti, affezionati alla sua famiglia, vuole seguire le orme del padre, che però lo scoraggia. Lo zio Ian, invece, vede in lui «qualcosa di buono». Cinque anni dopo la Battaglia di Orgreave, sul campo della cittadina di minatori Webb arbitra la sua prima partita, appena diciottenne. Ha coraggio e prestanza. Qualche tempo dopo qualcuno azzarderà un parallelo: «la prestanza del minatore che pianta gli occhi in quelli del poliziotto, o viceversa».

Viceversa perché Howard, oltre a indossare la divisa del giudice di gara, si è anche arruolato nella South Yorkshire Police. «Dopotutto si sono comportati bene, coi minatori in sciopero. Si sono presi cura di loro...», dichiarerà tempo dopo, con molto candore (e senza troppa malizia, mi sembra di poter aggiungere).

Ricordando la sua infanzia, Webb ha dichiarato: «Se dovevo immaginarmi una finale mi vedevo capitano vittorioso, non arbitro». Capitano vittorioso autore della rete decisiva con un rigore calciato come questo, aggiungo io, e con la maglia del Barnsley FC.

Nel 2008 si giocano gli Europei in Austria e Svizzera. Webb ci arriva da arbitro affermato, stimato, autorevole: nel giro di vent’anni ha scalato la piramide del calcio inglese. È il suo primo, importante banco di prova.

Dieci anni dopo l’esordio, dopo esser passato per i campionati minori, è stato nominato assistente arbitrale per la Premier League. Nel 2000 è stato incluso nella lista degli arbitri elegibili per condurre una gara nella massima serie inglese; nel 2003 ha arbitrato per la prima volta in Premier, Fulham - Wolverhampton. Due anni più tardi gli è stata affidata la gara di FA Community Shield tra Arsenal e Chelsea, e sempre nel 2005 è diventato internazionale.

La sua prima partita tra nazionali è stata Irlanda del Nord - Portogallo giocata al Windsor Park di Belfast. Cristiano Ronaldo, giovanissimo ma già ricco d’esperienza ad alti livelli, veniva continuamente bloccato dai difensori nordirlandesi, si era infastidito, qualche volta aveva provato a reagire. Webb aveva condotto la gara con piglio e sicurezza. Nella finale di Coppa di Lega del 2007 tra Arsenal e Chelsea aveva dovuto impegnarsi fisicamente per dividere le due squadre, tra le quali si era accesa con una fiammata una rissa feroce. Aveva espulso Obi, Kolo Touré e Adebayor. Era la prima volta che durante una finale di Coppa di Lega venivano sventolati tre cartellini rossi - la prima e finora l’unica.

In un bel parallelo tracciato in un’intervista tra le sue due occupazioni, quella dentro e quella fuori dal campo, Webb ha descritto la prassi che adotta imperativamente: a me è sembrato di scorgerci i presupposti che lo hanno mosso sia in quella finale di Coppa di Lega che, più in generale, in ognuna delle partite che gli ho visto arbitrare. Si chiama senso del dovere, del servizio. «[Quando sei impegnato in operazioni di polizia] devi darti delle priorità: a chi mettere le mani addosso, se c’è qualche ferito, controlli quelle cose. Tutto succede rapidamente di fronte a te. Devi mantenere la calma, analizzare molte informazioni tutte insieme e prendere decisioni mentre i fatti accadono, agire con decisione ma anche con la consapevolezza di poter sbagliare, di poter mettere a rischio la tua incolumità. Devi insomma sempre guardarti le spalle».

Nel marzo del 2000 era assistente di Graham Poll in una partita ad Anfield: Liverpool - Sunderland. Il pari raggiunto dai Saints a poco meno di dieci minuti dal termine aveva rinfocolato il malumore dei tifosi della Kop. Erano imbestialiti, lanciavano di tutto contro l’arbitro. Al triplice fischio Webb ha scortato Poll dal centro del campo al tunnel, poi fino agli spogliatoi. E dagli spogliatoi alla stazione di Lime Street, e poi al binario, fino al seggiolino. Difficile tracciare una linea di separazione netta tra il Webb assistente di gara e il Webb poliziotto.

Scene di ordinaria mattanza. Neppure l’insistenza di Adebayor riesce a far perdere le staffe a Webb.

C’è un documentario, girato da Yves Hinant, Delphine Lehericey e Eric Cardot, che si intitola Les Arbitres (ma che noi conosciamo come Kill the referee). Racconta l’esperienza di alcuni arbitri durante l’Europeo del 2008. Se si intitola così, nella sua versione anglofona, l’esclusività del merito spetta ad Howard Webb.

Nei primi minuti del documentario si vedono l’arbitro inglese e i suoi collaboratori storici, Darren Cann e Mike Mullarkey, nello spogliatoio prima di Austria - Polonia. La terna è molto affiatata: sia Cann che Mullarkey lavorano con Webb da anni. Cann è diventato guardalinee perché, per sua stessa ammissione, «non ho la personalità per arbitrare». Ha iniziato a giocare a pallone nelle giovanili del Crystal Palace, poi ha smesso e ha preso a lavorare in banca a Poringland, nel Norfolk, per la Lloyd.

In Kill the referee si capisce bene quello che succede, durante un match, tra i membri della terna: dialogano con una lingua fatta di trigger words, di parole in codice. Si scambiano punti di vista, si confidano titubanze e dubbi. Anche se, come ha raccontato Cann, «spesso non serve neppure che alziamo la bandierina, perché Howard vede e sa tutto prima di noi».

Il guardalinee è come il portiere: capita che magari per tutta una partita non è coinvolto, poi di colpo diventa decisivo. A fine primo tempo la Polonia passa in vantaggio con una rete in sospetto fuorigioco. Nello spogliatoio, mentre mangia una banana, Mike confessa ai suoi colleghi «Era fuorigioco, l’ho visto nel maxi-schermo».

All’ultimo minuto della secondo tempo, Webb concede un rigore riparatore all’Austria. I polacchi protestano: al numero sei Webb dice «Allontanati gentilmente o dovrò ammonirti». Ivica Vastic realizza il penalty che vale il pareggio. Leo Beenhakker, tecnico dei polacchi, è fuori di sé: nell’ingresso agli spogliatoi urla più volte «English referee. Non è possibile, non è mai successo. English referee». La terna, mentre si cambia, lo ripete più volte, scimmiottandolo.Dopo quella partita, il primo ministro polacco Donald Tusk dirà di Webb «Se lo incontrassi per strada lo ucciderei». In conferenza stampa, di fronte al giornalista di Varsavia che riporta questa affermazione, Webb reagisce composto ma fermo, sicuro di sé e del suo ruolo: «So che nella foga del momento si dicono cose che non si pensano davvero. Arrivederci».

Kill the referee ci dice molto del Webb arbitro, ma pure del Webb uomo. Prima della partita successiva viene inquadrato nel corridoio dell’hotel. Dalle luci sembra sia mattina prestissimo. È elegante e un po’ teso. Arriva allo stadio, il capo della polizia di Salisburgo gli dice «Mister Vebb, le assicuro che non verrà ucciso oggi a Salisburgo». Lui scherza: «Posso entrare nello spogliatoio? Avete tolto le bombe? E l’antrace, e l’arsenico?». Sono scene che sospendono l’incredulità dello spettatore: ci si chiede è mai possibile che un arbitro abbia bisogno di tutte queste misure di sicurezza? Nel frattempo, ci dimentichiamo - per poi ricordarcene repentinamente - che un atleta è un uomo, con famiglia e affetti e una vita privata, e che in Inghilterra c’erano davvero tifosi polacchi che andavano a bussargli a casa, a cercarlo. Un suo omonimo, ingegnere del dipartimento dell’illuminazione urbanistica a Rotheram, si era visto costretto a chiudere l’account email di servizio perché tempestato di mail infuocate, piene di invettive e minacce di morte, scritte in una lingua dell’est europeo.

«L’arbitro è un po’ come un giocatore che fallisce un’occasione facile perché i suoi piedi non sono nella posizione migliore, o perché legge male la traiettoria del pallone». Nell’errore di lettura dell’azione del fuorigioco in Polonia-Austria si condensa tutta la caducità delle prestazioni di una terna arbitrale in tornei di grande spessore internazionale: spesso è più facile passare il turno per una squadra impegnata nel girone che per i giudici di gara. «Se non fai bene alla prima partita che ti assegnano, potrebbe essere la tua unica». Webb, e Cann e Mullarkey, pur avendo arbitrato in maniera impeccabile Grecia - Spagna (mi ha molto colpito la grazia delicata e risoluta a un tempo, come quella che si adopera con una ragazza dopo averci litigato, con la quale Webb cerca di placare un Karagounis innervosito: «Fermati, dobbiamo parlare», gli dice), vengono eliminati dai giochi dopo la fase a gironi.

E ora una parentesi triviale. Siamo al White Hart Lane, Ledley King sta dando l’addio al calcio giocato. Webb si impossessa del pallone e parte in dribbling. Lewis Holtby lo falcia impietoso, Webb si rialza e lo spinge platealmente, mandandolo a terra. Il quarto uomo interviene per separare i due.

C’è stato un momento nel quale per Webb si è presentata l’opportunità che venisse ricordato come quello che i polacchi volevano uccidere. La sua visione del gioco, la rapidità dei suoi scatti, la grande preparazione atletica rischiavano di passare in secondo piano. I vertici del calcio, al contrario, ne avevano preso nota: già nel novembre del 2008 Webb era stato inserito dalla FIFA nella lista previsionale dei giudici di gara che avrebbero partecipato ai mondiali di Sud Africa del 2010.

Nel replay del 3° round della FA Cup dell’anno successivo, però, la carriera di Howard ha toccato il suo punto più basso. Stava arbitrando Birmingham - Wolverhampton Wolves. Nel primo tempo c’è un penalty cristallino per i blues che Webb non assegna. Più tardi, accidentalmente blocca un passaggio in profondità di Rahdi Jaidi del Birmingham. I Wolves recuperano palla, impostano l’azione che porta al goal vittoria. Non gli era mai successo di sbagliare in maniera così incisiva sul risultato di una gara. «Ci sono sempre cose che non vanno. Raramente ho riguardato una partita e mi sono detto “sono stato perfetto”. Però devo prendere comunque sempre una decisione».

Era il 2009, e neppure lui avrebbe creduto a chi gli avesse detto che di lì a un anno sarebbe diventato una figura iconica, l’arbitro più en vogue di questo scorcio di millennio.

A cavallo tra il maggio e il luglio del 2010, infatti, a Webb vengono assegnate le due finali più importanti nel calcio mondiale.

A Madrid dirige la finale di UEFA Champions Leaugue tra Inter e Bayern Monaco, coronando un sogno che inseguiva da anni e che lo strapotere delle formazioni inglesi, sempre finaliste dal 2005 gli aveva impedito di coronare.

Ma soprattutto, a Johannesburg l‘8 Luglio arbitra la finale di Coppa del Mondo tra Olanda e Spagna, trentasei anni dopo l’ultimo arbitraggio inglese (nella finale del ’74 tra Germania Ovest e Olanda). Dei minuti immediatamente precedenti il calcio d’inizio ricorda il passaggio al fianco della Coppa, all’uscita del tunnel: «Era il pezzo di metallo più brillante del mondo».

In Sud Africa, prima della partita regina, Webb aveva già diretto Spagna - Svizzera (l’unica sconfitta dei futuri campioni del mondo), Italia - Slovacchia (ovvero il match della nostra eliminazione, nella quale Cann aveva chiamato un fuorigioco di Quagliarella impeccabile) e Brasile - Cile.

Nella finale del 1986 tra Argentina e Germania Ovest, una partita già di per sé molto rude, erano stati estratti sei cartellini gialli. Webb, nel 2010, si spinge oltre il doppio: quattordici in totale, cinque per gli spagnoli e nove (inclusa la doppia annotazione sul taccuino del nome di John Heitinga) per gli oranje. Un record, il record per antonomasia. Che tuttavia gli è costata la prece di Crujiff, secondo il quale l’arbitro inglese è stato fin troppo clemente coi suoi connazionali. In particolar modo con Nigel De Jong, protagonista di un intervento decisamente scomposto nei confronti di Xabi Alonso.

«Gli arbitri vengono spesso ricordati per le decisioni che hanno preso, non per quelle che hanno deciso di non prendere». È una frase di Graham Poll. Webb, su quel fallo, si è successivamente espresso così: «Eravamo solo al 26’, non me la sono sentita di incidere in maniera così marcata sull’esito della gara. E comunque, se non avessi avuto l’angolo coperto e avessi visto meglio non avrei esitato ad espellerlo»./em>

«Un ufficiale di gara», ha detto una volta Pierluigi Collina, «ha una buona reputazione se si è guadagnato il diritto di essere reputato un buon arbitro, uno cioè che può anche prendere pessime decisioni, ma non quella di arbitrare in modo pessimo». Tutta una circonlocuzione per dire che gli arbitri con una buona reputazione, stimati, non decidono coscientemente di arbitrare a senso unico. Magari sbagliano, ma lo fanno senza malizia. Altrimenti non sono arbitri con una buona reputazione, non possono esserlo.

Nel 2011, dopo un Manchester United - Liverpool, Webb è stato molto criticato dai Reds. Ryan Babel ha pubblicato sul suo profilo twitter un fotomontaggio di Webb con la maglia dei Red Devils. Un po’ tutto il web, in realtà, si è spesso divertito a giocare con la presunta sudditanza di Howard a Sir Alex Ferguson. C’è chi ha eretto una statua all’arbitro proprio vicino a quella del decano allenatore, all’ingresso dell’Old Trafford; chi lo ha ritratto festante al fianco di Giggs e compagni dopo l’ennesima vittoria.

Il 17 Marzo del 2012 Webb sta arbitrando una gara di FA Cup tra Tottenham e Bolton Wanderers. Sul finire del primo tempo si volta e vede il calciatore del Bolton Fabrice Muamba riverso a terra, faccia in giù, nessun avversario o compagno intorno; «ho pensato da subito che si trattasse di qualcosa di diverso da un normale infortunio», ha raccontato a un convegno di medicina sportiva organizzato dalla FIFA a Budapest.

«Il fatto che non si stesse rotolando a terra strillando e agonizzando, il modo in cui era andato giù, senza contatto, ha fatto pensare subito a qualcosa di serio. E non solo io - anche i giocatori se ne sono resi conto. Lo vedete dalla reazione di Gallas, un avversario: subito si è sbracciato verso la panchina per far accorrere i soccorsi». La parte interessante dell’intervento di Webb arriva quando dice «Se non avessi sospeso il gioco nel giro di venti o trenta secondi, forse avrei compromesso le sue speranze di vita. Uno dei nostri doveri, come arbitri, è cercare di far proseguire il gioco, quando possibile. Ma se i giocatori gridano al lupo troppe volte, allora c’è la possibilità che possiamo non comportarci come certe situazioni, tipo quella di Muamba, richiedono». «Se veniamo criticati per fermare il gioco troppe volte, allora gli arbitri possono cominciare a pensare di non fermare più il gioco».

L’esperienza del White Hart Lane ha sconvolto Webb più di ogni critica, attacco personale, forse anche più delle minacce di morte del primo ministro polacco. «La sensazione che ho avuto è che il pubblico stesse spingendo il medico del Bolton Jonathan Tobin e i suoi colleghi a far tornare a funzionare il cuore di Muamba». «Sono rimasto annichilito. È stata la reazione più incredibile che abbia mai visto in una tifoseria in tutta la mia carriera, e solo ripensarci ancora mi emoziona».

Per arbitrare tre partite di Euro 2012 (il match d’apertura del gruppo A tra Russia e Repubblica Ceca, la gara tra Italia e Croazia e il quarto di finale tra Portogallo e Repubblica Ceca) Webb è tornato in Polonia: Breslavia, Poznan, Varsavia. Nessuno ha provato la sensazione irrefrenabile di ucciderlo. L’anno successivo alcuni errori in Premier League gli sono valsi un bagno d’umiltà nei meandri della League One, il corrispettivo della nostra Lega Pro; in quei campi periferici ha trovato nuovo slancio per la Confederation Cup brasiliana, le prove generali del Mondiale prossimo a venire.

Nel febbraio del 2014, fresco di nomina per la Coppa del Mondo, Webb è sulla cresta dell’onda.

Il sito Comedians.co.uk riunisce una serie di personalità disponibili, dietro lauto compenso, per discorsi motivazionali, dopocena a serate di gala, spettacoli di cabaret. Webb finisce nella lista dei disponibili: ha un cachet generoso, e le critiche principali che gli vengono mosse ruotano attorno allo sfruttamento che starebbe facendo della sua popolarità. Il fatto, di per sé, non sarebbe neppure troppo condannabile, se non fosse che nel frattempo Webb è anche tornato in Polizia, dopo una pausa sabbatica lunga cinque anni: «Lavoro 10 ore a settimana a progetti di prevenzione del crimine e impegno sociale nella comunità». Il tempo che Webb spende fuori dal campo finisce per intaccare le sue prestazioni. Sebbene in casa gli vengano affidate partite lontane da essere match di cartello (arbitra soprattutto squadre low-profile: Cardiff, Hull, Crystal Palace), a livello internazionale la sua affidabilità è adamantina. Gli vengono assegnate partite delicate come il derby italiano di Europa League tra Juventus e Fiorentina, il derby spagnolo tra Atlético e Barcellona e la semifinale tra Real Madrid e Bayern Monaco.

Si prepara con acribia per l’appuntamento con la Coppa del Mondo brasiliana. A 43 anni potrebbe essere il suo ultimo mondiale, e poi c’è una coincidenza con la Leggenda da prendere. «Non voglio sembrare un vecchio grassone. Voglio sembrare ancora un atleta». Si allena alla Sheffield Hallan University, in stanze a temperatura controllata: prova serie di 20 scatti da 150 metri alla temperatura di 40°C, 80% di umidità. Le condizioni che troverà in Sudamerica. «Allenare a un mondiale significa abituare il proprio corpo al clima e la propria mente alla cultura, non solo calcistica, del paese ospitante».

Anche se nel regolamento non c’è scritto da nessuna parte che un arbitro non possa arbitrare per due volte consecutive la finale, Webb è consapevole di quanto sia difficile che questa situazione possa verificarsi. «Comunque andremo e ci godremo ogni momento».

Nella prima partita che gli viene assegnata, la gara tra Colombia e Costa d’Avorio, è inappuntabile. Mullarkey e Cann non sbagliano una chiamata di offside. Ma è soprattutto nel match rovente tra Brasile e Cile, agli Ottavi, che Webb regala la sua ultima perla. Riesce a vedere, da più di venti metri, uno stop di mano di Hulk, la palla che, smorzata con il braccio, scivola lenta e ammaestrata sulla coscia del poderoso attaccante dello Zenit, che al volo la insacca. Goal annullato.

Molti tifosi argentini, quando Rizzoli è stato designato per la finale contro la Germania, hanno tirato un sospiro di sollievo. Meglio un italiano che un inglese. In realtà, anche se le acredini tra le due nazioni sono ancora vive per via dell’annosa questione Falklands/Malvinas, nessun veto politico era stato posto a un eventuale arbitraggio di Webb. Semplicemente, il suo compito si era concluso. Anche se sarebbe stato meraviglioso scrivere una pagina di storia con la bella calligrafia destinata all’indelebilità della Leggenda.

Dal prossimo settembre, Webb si dedicherà al corpo arbitrale inglese. Dispenserà suggerimenti, offrirà supporto tecnico e comunicazionale, darà indicazioni e direttive ai referees d’Albione.

Nell’ultima scena (premonitrice) di Kill the referee, Webb è a una serata di gala. Viene premiato per il lustro donato alla categoria degli arbitri inglesi, per il successo internazionale. Più tardi sale su un palco, c’è un gruppo molto concerto-post-matrimonio. Il cantante gli porge una bacchetta, gli dice: «Ora sarai tu a dirigere il pubblico».

Iniziano tutti insieme a cantare “You’ll never walk alone”. Webb era appena stato eliminato dalla sua prima importante competizione internazionale. Anche se i tuoi sogni saranno sconvolti e scrollati. Bisognava fargli sentire il supporto della sua gente, del pubblico, come i tifosi fanno con la loro squadra. Va’ avanti, va’ avanti. Ho immaginato, in fondo alla sala, i volti di Cann e Mullarkey. Quelli degli arbitri che allenerà d’ora in avanti. Non camminerete mai soli. Non camminerete mai soli.

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