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Un brutto settembre italiano
11 set 2018
L'Italia non ha fatto una buona impressione nelle prime due partite ufficiali della gestione di Roberto Mancini.
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Tutti i dati presenti nell’articolo sono stati forniti da Opta.

Dopo le tre amichevoli giocate al termine della scorsa stagione, l’Italia del nuovo commissario tecnico Roberto Mancini si è presentata ai suoi primi impegni ufficiali, cioè l’inizio della Nations League organizzata dalla UEFA. Le partite contro Polonia e Portogallo sono arrivate dopo tre giornate di campionato e le indicazioni giunte dai primi match di Serie A hanno preoccupato l’allenatore azzurro. Tralasciando il generico allarme sul fatto che “gli italiani giocano poco”, alcuni dei convocati di Mancini in effetti sono stati poco impiegati in questo inizio di stagione.

In difesa Rugani, Caldara e Zappacosta non hanno ancora giocato neanche un minuto nelle loro squadre di club, addirittura Emerson Palmieri non è mai andato nemmeno in panchina nel Chelsea. In mezzo al campo Pellegrini e Cristante hanno giocato una sola partita da titolari, venendo peraltro sostituiti dopo il disastroso primo tempo della Roma contro l’Atalanta; mentre Gagliardini è stato impiegato per 90 minuti nell’Inter. In attacco, Balotelli ha giocato 79 minuti con il Nizza e Zaza 19 con il Torino.

Tra le novità, nei 31 convocati di Mancini per il doppio impegno di Nations League, la presenza di Alessio Cragno del Cagliari nel gruppo dei portieri, il ritorno di Giorgio Chiellini, gli ingressi del fiorentino Cristiano Biraghi e dello spallino Manuel Lazzari in difesa e di Barella in mezzo al campo (oltre ai giovani Zaniolo e Pellegri, convocati più come incentivo a fare bene che altro). Gli esclusi rispetto alle convocazioni dello scorso maggio, oltre agli infortunati De Sciglio e Florenzi, sono stati D’Ambrosio, Baselli, Marchisio, Politano e Verdi. Rolando Mandragora è stato invece convocato nell’Under-21, probabilmente a seguito della squalifica rimediata in campionato per una bestemmia scovata dalla prova tv.

Le difficoltà con la Polonia

Nella prima delle due partite Mancini ha cercato di proseguire il percorso tattico intrapreso la scorsa stagione, schierando i suoi uomini con il 4-3-3 visto anche nella primavera scorsa con Di Biagio, che aveva messo da parte i moduli di gioco più utilizzati dal suo predecessore Ventura (4-4-2 e 3-5-2).

Contro la squadra di Zielinski e Lewandowski, Mancini ha utilizzato la coppia Bonucci-Chiellini, appena ricostituitasi alla Juventus, al centro della difesa, con Zappacosta e Biraghi sugli esterni. In mezzo al campo, ai fianchi del mediano Jorginho sono stata scelti Pellegrini e Gagliardini, mentre il tridente d’attacco ha visto Bernardeschi a destra, Balotelli al centro e Insigne a sinistra.

Diversamente dalla scorse amichevoli, in cui in fase difensiva l’Italia aveva dato priorità a mantenere la squadra compatta e ordinata, schierando una sorta di 4-5-1 che abbassava gli esterni ai fianchi delle mezzali e che provava il recupero palla in zone intermedie di campo, contro la Polonia gli azzurri hanno giocato un pressing piuttosto aggressivo tenendo alta la linea difensiva.

L’Italia ha tenuto il baricentro alto (54.3 m) e la squadra corta (31.2 m) impiegando le mezzali, in particolare Gagliardini, nella pressione avanzata di uno dei due centrali avversari, per contrastare aggressivamente e in parità numerica il giro palla della difesa a 4 della Polonia. La strategia di pressing adottata da Mancini, sebbene non abbia prodotto troppi recuperi del pallone nella metà campo avversaria in grado di generare transizioni corte per attaccare, è stata comunque capace di contrastare efficacemente la manovra offensiva polacca.

Notevolmente maggiori, invece, sono state le difficoltà dell’Italia in fase di possesso palla. In continuità con quanto visto la scorsa primavera, le direttrici del gioco degli azzurri hanno seguito le tracce canoniche di un 4-3-3 piuttosto verticale, con adattamenti alle caratteristiche dei giocatori.

La fase di impostazione della manovra ha coinvolto principalmente 3 giocatori, i due centrali e il mediano Jorginho, che hanno effettuato più passaggi. Attorno a loro, i due lati dello schieramento azzurro si sono mossi in maniera differente: a destra, Zappacosta rimaneva basso, per compensare, nelle fasi di transizione difensiva, la posizione più avanzata del terzino opposto Biraghi. A occupare l’ampiezza è stato, quindi, Federico Bernardeschi (che ha limitato i suoi tagli verso l’interno), mentre Gagliardini si inseriva centralmente affiancando Balotelli al centro dell’attacco.

A sinistra le posizioni erano molto più fluide e i movimenti della catena terzino-mezzala-esterno offensivo miravano a occupare dinamicamente e uniformemente lo spazio, disegnando triangoli in cui Pellegrini e Insigne potevano occupare sia un vertice esterno che una posizione interna, mentre Biraghi rimaneva costantemente a presidio dell’ampiezza. I diversi set di movimenti sulle due fasce hanno costruito un lato forte, quello sinistro, in cui la manovra ha provato a svilupparsi in maniera più palleggiata, mentre dal lato opposto l’Italia si è comportata in maniera più diretta.

La pass-map dell’Italia. Si notino le diverse posizioni medie di Biraghi e Zappacosta, la posizione più esterna di Bernardeschi rispetto a quella di Insigne e come Gagliardini abbia mediamente ricevuto il pallone più avanti di Balotelli.

Entrambe le mezzali, con movimenti diversi, si allontanavano da Jorginho. Gagliardini attaccava lo spazio vuoto tra Bernardeschi e Balotelli, mentre Pellegrini tendeva a compensare i tagli interni di Insigne, attaccando l’ampiezza. Sono tracce di un calcio verticale e diretto, che, come in occasione delle precedenti partite della gestione Mancini, cozza con le migliori caratteristiche di Jorginho, mettendolo in difficoltà: isolato dai movimenti dei compagni di reparto, il gioco corto del calciatore del Chelsea non ha potuto svilupparsi con compiutezza, esponendolo a errori in palleggio che sono costati il gol del vantaggio polacco.

Più in generale, la squadra ha faticato a manovrare con fluidità. L’Italia non è stata praticamente mai pericolosa: dei 6 tiri totali solo uno, oltre a quello su rigore, è partito da dentro l’area, ed è nato da un recupero alto del pallone e non da un’azione costruita dal basso. Gli errori tecnici sono stati frequenti e, oltre a limitare la pericolosità della squadra, hanno creato i presupposti ideali per le ripartenze velocissime dei polacchi, che giocavano il loro calcio preferito, fatto di contrattacchi verticali in cui si esaltano le enciclopediche doti di Lewandowski di fungere da perno su cui poggiare l’inizio della manovra, e le qualità tecniche e di inserimento di Zielinski. A fine partita la Polonia ha tirato in porta ben 12 volte, di cui ben 6 da dentro l’area, con 12 giocate negli ultimi 16 metri contro le 6 degli azzurri.

Al di là della scossa adrenalinica fornita dall’ingresso di Federico Chiesa, e dell’occasionale pareggio raggiunto grazie a un’ingenuità difensiva di Blaszczykowski, gli azzurri per tutto il match hanno avuto grosse difficoltà a trovare uno scaglionamento in campo che consentisse loro di avanzare palleggiando e, al contempo, non sono riusciti a giocare un calcio maggiormente verticale e diretto. Nei 61 minuti giocati, Balotelli ha effettuato solo 3 passaggi, toccando in totale 11 palloni, muovendosi solamente verso di esso, senza mai attaccare la profondità.

La mappa dei 37 cross dell’Italia contro la Polonia, un’arma in genere poco efficiente, a maggior ragione contro centrali difensivi lenti, ma abili nella protezione dell’area di rigore come quelli polacchi. Biraghi è arrivato ben 19 volte al cross, raggiungendo solo 5 volte un compagno di squadra.

Le contraddizioni del 4-3-3

Il 4-3-3 dell’Italia visto con la Polonia ha messo in mostra le contraddizioni già intraviste nella tre amichevoli dell’inizio della gestione di Roberto Mancini. Le fasi iniziali delle azioni sono state pienamente assegnate al triangolo costituito da Bonucci, Chiellini e Jorginho, che, senza alcun contributo dei terzini, palleggiando, provavano a superare il lavoro in pressione di Lewandowski e Zielinski, i due giocatori avanzati dello stretto 4-4-1-1 polacco.

Tuttavia, l’abilità dei tre giocatori a tramutare la superiorità numerica in un concreto vantaggio posizionale è stata del tutto inutile all’avanzamento della manovra perché, più avanti, a catena, non c’erano i movimenti necessari a capitalizzare il vantaggio ottenuto e a disordinare la difesa polacca. Le mezzali si allontanavano attaccando la profondità o aprendosi in ampiezza, Bernardeschi rimaneva largo, Zappacosta arretrato e Biraghi si alzava. I movimenti del resto della squadra, cioè, erano quelli di un 4-3-3 verticale, che avrebbe dovuto sviluppare l’avanzamento della manovra sugli esterni: movimenti incoerenti con il lavoro interno fatto dal trio Bonucci-Chiellini-Jorginho.

Nessun giocatore occupava gli spazi alle spalle del centrocampo avversario dopo avere saltato la pressione di Lewandowski e Zielinski e la posizione delle mezzali, sempre troppo lontane da Jorginho, ha esposto l’Italia alle transizioni offensive della Polonia ogni volta che, troppo frequentemente, gli azzurri hanno sbagliato un passaggio e perso il pallone.

Come se l’Italia avesse giocato due fasi offensive secondo due principi diversi: una, iniziale, palleggiata e finalizzata a creare superiorità posizionale, che non riusciva a propagarsi in avanti perché il resto della squadra giocava una fase offensiva più diretta, che avrebbe preferito un avanzamento per mezzo delle catene laterali, con un coinvolgimento maggiore dei terzini, e in cui gli sbilanciamenti in transizione difensiva dovuti alla posizione delle mezzali potevano essere compensati dalla posizione delle palle perse, mediamente più vicina alla linea laterale.

Non è un caso che l’ingresso di Bonaventura, che per caratteristiche rimaneva più vicino a Jorginho e consolidava il possesso palla nelle fasi iniziali della manovra, ha reso più fluido l’avanzamento del pallone.

La rivoluzione contro il Portogallo

Tre giorni dopo la partita contro la Polonia, Roberto Mancini ha rivoluzionato la squadra per affrontare a Lisbona il Portogallo. Il tecnico ha cambiato nove undicesimi della formazione, confermando solamente Donnarumma e Jorginho e passando dal 4-3-3 visto in tutti i suoi match precedenti a un rigido 4-4-2. In difesa hanno giocato Lazzari e Criscito sulle fasce e Caldara e Romagnoli in mezzo. A centrocampo la coppia di interni era costituita da Jorginho e Cristante, mentre sugli esterni Chiesa e Bonaventura, con Zaza e Immobile in attacco.

Anche contro il Portogallo l’Italia ha provato inizialmente a pressare in maniera aggressiva l’inizio delle azioni avversarie, alzando i due esterni sui due terzini e le due punte sui centrali. Tuttavia bastava la salida lavolpiana di Rúben Neves, che si abbassava tra Pepe e Rúben Dias, a creare superiorità numerica per i lusitani, bravi poi a trasmettere in avanti i vantaggi posizionali conseguiti, grazie al gioco esterno di Mário Rui, Bruma e Cancelo e all’occupazione degli half-spaces di Pizzi e Bernando Silva.

Il baricentro della squadra di Mancini si è abbassato (49.6 m), così come la posizione media di recupero del pallone (33.8 m). Provando a pressare in avanti, ma venendo facilmente superata dal palleggio arretrato portoghese, l’Italia ha faticato a rimanere corta, con la coppia di interni presa in mezzo tra i centrocampisti e i trequartisti avversari: la lunghezza media della squadra è stata di 39.8 m, ben 8 metri in più che nella partita contro la Polonia.

Nel primo tempo, e fino al gol della vittoria di André Silva, l’Italia ha concesso il possesso palla (64.1% nei primi 45 minuti) e occasioni pericolose (un salvataggio sulla linea di Romagnoli e una traversa) al Portogallo, incapace di tenere compatte le due linee del 4-4-2 e insicura nei duelli con Lazzari e Caldara (il terzino della SPAL, in particolare, ha mostrato difficoltà nel posizionamento a protezione del lato debole).

In fase di possesso palla non erano chiari i progetti di avanzamento della manovra. Con i terzini piuttosto bloccati e gli esterni offensivi statici nelle loro posizioni di partenza, l’unico concreto sviluppo del gioco prevedeva la ricerca verticale degli attaccanti, sia aggredendo la profondità che provando a innescare estemporanee combinazioni tra i due giocando loro la palla addosso. Solamente con la forza fisica di Zaza e Immobile, prima, e di Zaza e Belotti, successivamente, l’Italia è riuscita episodicamente ad abbassare i portoghesi e a giungere nell’ultimo terzo di campo.

I tentativi di avanzare palleggiando, invece, sono stati inefficaci, tanto che nei 20 minuti in cui gli azzurri hanno schierato il solo Zaza come punta sono riusciti a calciare su azione solamente una volta, con un tiro fiacco da fuori area di Federico Chiesa.

Ancora una volta tanti cross per l’Italia, 27, di cui solamente 5 hanno raggiunto un compagno, a testimonianza delle difficoltà a penetrare la difesa portoghese con il palleggio.

Anche il 4-4-2 è problematico…

Se i moduli di gioco sono quasi sempre poco indicativi della più profonda natura tattica di una squadra, nel caso dell’Italia di Mancini il brusco passaggio dal 4-3-3 al 4-4-2 ha rappresentato una discontinuità molto netta con il lavoro fatto precedentemente anche sul piano dei principi di gioco.

Oltre a cambiare 9 titolari su 11 e a variare il modulo di gioco, il tecnico azzurro ha disegnato una squadra che, più che sviluppare il gioco tramite le catene laterali - che per quanto vago e male eseguito sembrava essere l’obiettivo del 4-3-3 - ha proposto un gioco offensivo interamente basato sulle giocate verticali verso le punte; con i terzini propensi a rimanere in posizione e le fasce occupate staticamente dagli esterni offensivi, senza alcuna costruzione di combinazioni esterne a più giocatori.

Un 4-4-2 piuttosto rigido e muscolare in cui ancora una volta Jorginho, unico giocatore sempre titolare nelle cinque partite della gestione Mancini, non ha trovato la sua collocazione ideale, e avrebbe richiesto per essere efficace un’intensità di gioco ben diversa da quella messa in campo dagli azzurri. In assenza di un’efficace occupazione degli spazi alle spalle e ai fianchi degli interni avversari, il 4-4-2 schematico disegnato da Mancini avrebbe avuto bisogno, offensivamente, di un maggiore contributo offensivo dei terzini e di movimenti più fluidi e coordinati delle due punte.

In fase difensiva, invece, al Portogallo è bastato abbassare Rúben Neves tra i due centrali per superare il primo pressing azzurro e disordinare, successivamente, con il palleggio, lo schieramento difensivo azzurro, stirando le distanza tra le linee e i componenti delle stesse.

Di fatto l’Italia ha giocato un 4-4-2 poco fluido, senza la compattezza difensiva che il modulo favorisce e senza l’intensità e il ritmo che un’interpretazione così rigida del modulo di gioco richiede per essere efficace offensivamente.

Il 4-4-2 dell’Italia contro il Portogallo. Anche la pass-map evidenzia l’assenza di un gioco tra le linee degli azzurri.

Quale futuro per l’Italia?

La Nations League è una competizione ufficiale e i risultati delle prime due partite aprono le porte a una retrocessione dalla Lega A alla Lega B, e quindi a posizioni sfavorevoli nei sorteggi del girone di qualificazione ai campionati europei. Per questo sembra strana la scelta di rivoluzionare la formazione dopo la partita contro la Polonia, come se il tecnico italiano considerasse il torneo della UEFA, a dispetto delle dichiarazioni ufficiali, alla stregua di un gruppo di amichevoli.

Ma, soprattutto, le due partite giocate hanno ancora una volta confermato come il talento a disposizione dell’allenatore azzurro sia inferiore a quello di tante altre Nazionali e mal distribuito. L’Italia non ha terzini moderni, in grado di uscire dallo schema difesa e spinta sul binario in avanti, capaci di sostenere con il palleggio la manovra offensiva. Il solo Emerson Palmieri si avvicina al prototipo, ma si sta parlando di un giocatore che non gioca con continuità ormai da tantissimo tempo.

In mezzo al campo, in assenza di Verratti, comunque mai convincente in Nazionale, manca una mezzala di possesso in grado di consolidare il possesso palla e, più in generale, un centrocampista capace di equilibrare la squadra. Il profilo più vicino a quello richiesto sembra quello di Mandragora e la speranza è che il giocatore possa crescere giocando con continuità nell’Udinese.

Mancini sembra volere fare di Jorginho un perno della sua squadra: il giocatore del Chelsea è un maestro nel gestire sul corto i tempi della manovra, attirando la pressione e disordinando col palleggio stretto lo schieramento difensivo avversario, ma le sue doti risultano inutili in un sistema che non prevede sistematicamente l’utilizzo di tali armi per avanzare lungo il campo.

In attacco, poi, tutti i centravanti attualmente nel giro della Nazionale non hanno tra le loro migliori doti la capacità di aiutare la squadra con il palleggio.

In un quadro così delineato è fondamentale il lavoro dell’allenatore che deve provare a colmare, o quantomeno ridurre, il gap dei valori individuali con le proprie capacità, per creare un contesto tattico che massimizzi le qualità dei giocatori a disposizione. In questo senso sarà fondamentale creare le opportune sinergie tra i giocatori e centrare i propri sforzi per la costruzione di un progetto di gioco chiaro e univoco.

Sarebbe opportuno, per questo, che ogni giocatore potesse svolgere in campo il ruolo che meglio lo definisce all’interno di un disegno coerente: Cristante, per fare un esempio, ha trovato la sua dimensione all’Atalanta come incursore alle spalle di una punta forte fisicamente come Petagna, impiegarlo come interno in un 4-4-2 è la migliore maniera di sfruttarlo e di renderlo utile alla squadra?

O, per fare un esempio diverso, è utile affiancare a Jorginho due mezzali di inserimento come Gagliardini e Pellegrini, isolandolo e rendendo vani i suoi sforzi di creare superiorità posizionale con il palleggio? Qual è, in fondo, la squadra che si voleva costruire passando dal 4-3-3 al 4-4-2?

Il lavoro di Roberto Mancini è iniziato solo da pochi mesi e non sarà semplice. Non possiamo che augurarci che sia all’altezza della dura sfida che ha accettato prendendo la panchina della Nazionale italiana.

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