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Un uomo solo al comando
23 mag 2019
Ricordo della Cuneo-Pinerolo 70 anni dopo.
(articolo)
11 min
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«Nella poltiglia del Maddalena, ho visto Coppi venire via dagli altri. Sfangava, quasi sollevando la bicicletta. Lo accompagnai fino a un paesino francese, mi pare Barcelonette. Lo lasciai andare. Entrai in una trattoria. Ordinai un pasto completo, dagli hors d’oeuvre al caffè. Mangiai con tempi da buongustaio. Fumai una sigaretta. Chiesi il conto. Pagai. Uscii. Stava passando il sesto»

(Pierre Chany, L’Equipe)

La radio gracchia un po’, poi la voce di Mario Ferretti prende spazio, prende vita. Sta per pronunciare una frase che resterà nella storia dello sport. È tornato da pochissimo alle radiocronache, perché la sua decisione di lasciare l’EIAR e trasferirsi al nord per lavorare in una radio finanziata dai tedeschi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, lo aveva reso un paria. A fornirgli l’occasione di rientrare in Rai era stato l’uomo che, il 6 maggio del 1949, aveva dovuto raccontare via radio agli italiani i funerali del Grande Torino, un momento drammatico per gli sportivi dello Stivale: è Vittorio Veltroni, futuro padre di Walter. Durante il Giro d’Italia, un radiocronista aveva esagerato con i commenti entusiastici nei confronti di un modello di bici ed era stato silurato in tronco. Serviva una nuova voce, una brava, e serviva in fretta. Veltroni si era ricordato di quel Ferretti e lo aveva convocato d’urgenza, affidandogli le cronache della corsa più amata dagli italiani.

Il 10 giugno 1949 la maglia rosa è sulle spalle di Adolfo Leoni, mancano tre tappe alla fine. La radio gracchia, poi Mario Ferretti inizia a raccontare una frazione destinata a rimanere nella leggenda. «Un uomo solo è al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi», declama con la solennità richiesta dalla circostanza. La Cuneo-Pinerolo, tappa numero 17 del Giro d’Italia 1949, è la tappa più bella di sempre. E lo è grazie a un uomo «secco come un osso di prosciutto», che avrebbe potuto limitarsi a vincere e invece decise di esagerare, di riscrivere i canoni di uno sport che resta impareggiabile per epica e culto della fatica. Fausto Coppi era di un’altra pasta, lasciava tutto sulla bicicletta come se avesse già immaginato di essere costretto a mangiarsi la vita prima di finirne prematuramente divorato. Uno sguardo in avanti, un altro a Bartali attardato e via.

Ai piedi della Cuneo-Pinerolo

L’Italia porta ancora addosso i segni della guerra e il dolore dalla tragedia del Torino, ma il ciclismo resta lo sport nazionale e l’appuntamento con il Giro è immancabile. Coppi arriva alla corsa rosa dopo aver vinto la terza Milano-Sanremo della sua vita e il Giro di Romagna, davanti a rivali di spicco come Magni e Bartali.

È il favorito per la vittoria finale, eppure per sedici tappe non veste mai la maglia rosa. Vince a Salerno, in volata, il 24 maggio (quarta tappa), ma il simbolo del comando resta sulle spalle di Giordano Cottur, che lo cede poi a Mario Fazio e questi ad Adolfo Leoni. Il reatino non è uomo da salite e nella Bassano del Grappa-Bolzano ha visto Coppi volare fino a rosicchiargli oltre sette minuti. Seguono frazioni più morbide, Leoni si impone a Montecatini Terme il 6 giugno, il Giro riposa l’8 per poi concedersi un piccolo extra in occasione della Sanremo-Cuneo, con l’aggiunta di 18 chilometri ai 190 previsti dal percorso. Per l’avvicendamento in testa alla corsa sembra questione di ore, anche perché la tappa da affrontare il 10 giugno fa venire i brividi ai polsi. Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro, Sestriere: 254 chilometri da Cuneo e Pinerolo, con un passaggio in Francia, un dislivello complessivo spaventoso e le nuvole all’orizzonte che non lasciano presagire nulla di buono. Per un velocista come Leoni, la resa dei conti è dietro l’angolo. Coppi e Bartali si sono già testati sul colle di Nava, posto all’inizio della Sanremo-Cuneo. Gli inviati al seguito della corsa rosa avevano assistito con discreto stupore a delle schermaglie apparentemente prive di senso per la classifica. In realtà, è un gioco di potere. Bartali fa di tutto per scollinare davanti a Coppi, che tiene il passo ma senza mai superare il rivale. “Ginettaccio” vuol far capire a Fausto di essere pronto per una grande impresa, ai livelli di quella del Tour de France dell’anno precedente, quando con il suo successo finale era riuscito a placare la tensione che stava montando in Italia dopo l’attentato a Palmiro Togliatti. Inoltre, a Bartali non è andato giù l’epilogo della Bassano-Bolzano.

Era stato lui a scollinare per primo sul Rolle, per poi farsi sorprendere dall’eterno rivale mentre il toscano era intento a mangiare una banana nel tratto di strada tra Predazzo e Moena. Non si può raccontare fino in fondo l’epopea della Cuneo-Pinerolo senza passare con scrupolo dalla tappa che aveva permesso a Coppi di riaprire il Giro. Arrivato a Moena, nel tentativo di arginare l’attacco di Coppi, Bartali aveva dovuto fare i conti con una foratura, ennesima beffa di una giornata da dimenticare. Fausto si era scatenato sul Pordoi, leggero e inarrestabile. Leoni, in maglia rosa, e Pasotti, che lo avevano seguito nell’attacco a tradimento ai danni di Bartali, avevano deciso di rifiatare. Neanche il passaggio sul Sass Becé lo aveva turbato più di tanto: 4’30” sui due e 5’05” sul rivale di sempre. Foratura anche per Coppi all’inizio della discesa verso Arabba e “Ginettaccio”, rabbioso, era pronto a tutto per riprenderlo, anche a chiedere un estemporaneo aiuto a Pasotti, Leoni, Fornara, Cottur e Rossello.

Con l’arrivo di una nuova salita, però, sapeva benissimo di dover fare da solo. Un solo minuto rosicchiato, non di più, e nel tratto del Passo Gardena Coppi aveva guadagnato ancora secondi preziosi: 5’27” da Bartali allo scollinamento, quasi 9’ su Leoni, maglia rosa virtuale. Leoni, indomito, avrebbe anche sputato sangue pur di restare leader: 6’58” il distacco finale, ma i 30 secondi di abbuono del secondo posto, strappato in volata a Bartali e Astrua, gli avevano permesso di mantenere la leadership. Coppi, dal canto suo, alla vigilia della Cuneo-Pinerolo sente di avere il Giro d’Italia in mano. Non ha il sangue caldo del rivale, sa fare di conto, ma è pur sempre un uomo pervaso dalla fantasia. Tutto farebbe pensare a una tattica attendista, perché deve recuperare solamente 43 secondi a Leoni – ampiamente alla portata – e ha un margine di sicurezza di oltre 9 minuti su Bartali, che le cronache dell’epoca descrivono come un ciclista ormai messo al muro dal tempo che passa.

L’altimetria della tappa.

L’impresa

«Centinaia di migliaia di italiani avrebbero pagato chissà quanto per essere lassù dove noi si era, per vedere quello che noi vedevamo. Per anni e anni – ce ne rendemmo conto – si sarebbe parlato a non finire di questo fatterello che non pareva di per sé niente di speciale, solamente un uomo in bicicletta che si allontanava dai suoi compagni di cammino»

(Dino Buzzati)

Cinquanta chilometri circa già alle spalle quando inizia a cadere una pioggia finissima, che taglia il viso come minuscole lame. Il gruppo è sul Colle della Maddalena, prima salita di una giornata indimenticabile. Fa freddo, le cime hanno il bianco della neve fresca. Mentre si è all’altezza di Argentera, Bartali si attarda per un problema meccanico. Coppi scatta come una molla. Al traguardo mancano 192 chilometri.

Va a riprendere Primo Volpi, che aveva provato l’attacco con qualche metro di anticipo. È un affondo tatticamente insensato per chi avrebbe già in mano le sorti del Giro, ma non si può star lì a mettere in dubbio la Storia: quando Coppi parte, non è più Coppi, è già Storia. Bartali se ne avvede in ritardo e medita sul da farsi, mentre Fausto scollina con poco meno di un minuto e mezzo su Volpi, 2’15” su Astrua e una decina di inseguitori, 2’40” su Bartali, 3’ sulla maglia rosa Leoni. Il leader della classifica generale sa di non avere chance e quando vede a terra Oreste Conte, dolorante per una caduta, non ha dubbi: si ferma e attende l’ammiraglia per ultimare i soccorsi, la nobiltà d’animo che ha la meglio su tutto il resto. Bartali riesce a tornare sul plotoncino degli inseguitori, Coppi procede in splendida solitudine. Tra gli inviati al seguito della corsa c’è un intellettuale raffinato come Dino Buzzati: «La vittoria si pose al fianco di Coppi fino dal primo istante del duello. In chi lo vide non ci fu più dubbio. Il suo passo su quelle salite maledette aveva una potenza irresistibile. Chi lo avrebbe fermato? Ogni tanto per alleviare il tormento del sellino si sollevava sui pedali e pareva, tanto era leggero, che volesse distendere le membra per eccesso di vitalità, come fa l’atleta al destarsi da un lungo sonno. Si vedevano i muscoli, sotto la pelle, simili a serpenti straordinariamente giovani, che dovessero uscire dall’involucro». Bartali deve provare qualcosa, scatta sulle primissime rampe del Vars, Volpi gli tiene testa ma davanti Coppi è inarrestabile. “Ginettaccio” è trasfigurato, l’orgoglio lo tiene in piedi.

Ancora Buzzati: «Era lurido di fango, la faccia grigia di terra e immota nello sforzo. Pedalava come se qualche cosa di orrendo gli corresse dietro e lui sapesse che a lasciarsi prendere ogni speranza era perduta. Il tempo, null’altro che il tempo irreparabile gli correva dietro. Ed era uno spettacolo quell’uomo solo nella selvaggia gola in lotta disperata contro gli anni». Bartali non ha scampo.

Sul Vars Coppi ha 4’30” di vantaggio, Gino è rimasto da solo perché Volpi ha avuto problemi alla catena. Nel frattempo, entrambi i protagonisti mettono in fila squarci alle gomme e guai di ogni tipo. È ciclismo eroico, epico, irripetibile. Sull’Izoard il gap sale a 6’55”, Jomaux è terzo a 10’40” ma nel tragitto resta addirittura senza tubolari dopo aver forato due volte. Al traguardo finale, Coppi mette in fila cinque forature: un danno collaterale sopportato grazie alla puntualità di Giovanni Tragella, sempre pronto a ruota. Bartali si presenta a Pinerolo con 11 minuti e 52 secondi di ritardo, tre forature, due guasti al cambio, l’incredibile disavventura di un mazzo di fiori impigliato nella trasmissione a pochi metri dal GPM del Sestriere. «Ho perso quattro minuti per l’entusiasmo dei tifosi che pregherei di non lanciarmi più mazzi di fiori, come hanno fatto in vetta al Sestriere, provocandomi un incaglio al cambio, poiché erano fiori legati con fil di ferro e sono andati a incepparlo».

Il quartetto composto da Martini, Cottur, Bresci e Astrua chiude a poco meno di 20 minuti. Coppi è devastato dalla fatica al traguardo ma riesce a rilasciare qualche dichiarazione a Giuseppe Ambrosini: «Non avevo neppure pensato a una pazzia simile, anzi, ho sbagliato. Ho soltanto risposto a uno scatto di Volpi quando la salita, dopo Argentera, si faceva più ripida, e mi sono trovato in testa. Ho visto Bartali un po’ indietro e ho continuato, ed eccomi qui. Ma quanto è stata dura! Troppo lunga!». Non si può nemmeno parlare di un duello, perché 192 chilometri di fuga solitaria annientano qualsiasi confronto. Eppure, in una tappa diventata mito, una buona parte del fascino risiede nel tentativo disperato di Gino Bartali di non arrendersi, di ribellarsi a un destino palesemente contrario. Buzzati lo segue per tutta la frazione, capendo che in quel momento, più che il vincitore, c’è da raccontare il vinto: «Oggi per la prima volta Bartali ha capito di essere giunto al suo tramonto. E per la prima volta ha sorriso. Coi nostri occhi, passandogli accanto, abbiamo constatato il fenomeno. Uno dal bordo della via lo ha salutato. E lui, voltando un po’ la testa da quella parte, ha sorriso, lo scorbutico, lo scostante, l’antipatico, l’intrattabile orso dall’eterna grinta di scontento, proprio lui ha sorriso. Perché lo hai fatto, Bartali? Non sai di aver distrutto così l’ispido incanto che ti difendeva? Gli applausi, gli evviva della gente ignota cominciano a esserti cari? Così terribile è dunque il peso degli anni? Ti sei arreso finalmente?».

Quel Giro, ovviamente, lo avrebbe vinto Fausto Coppi, nello stesso giorno in cui Enrico Mattei annunciava all’Italia e al mondo di aver trovato il petrolio a Cortemaggiore: una piccola riserva, sufficiente però per aguzzare l’ingegno di uno degli uomini più influenti del Novecento italiano. Coppi avrebbe vinto anche il Tour de France, centrando, primo nella storia, la doppietta nello stesso anno: anche stavolta, davanti a Bartali. «Coppi è un’invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta», scriverà Gianni Brera il 27 luglio di quell’anno. Se ne sarebbe andato da lì a undici anni, in un caso clamoroso di malasanità: la malaria scambiata per una grave influenza, la tracotanza dei medici che decisero di ignorare le segnalazioni dei parenti dell’amico Geminiani, che aveva contratto il male insieme a Coppi in un viaggio nel fu Alto Volta, ora Burkina Faso.

Castellania, il paese che gli ha dato i natali, da marzo del 2019 porta il suo nome: è diventato Castellania Coppi, nel ricordo di Fausto e del fratello Serse, anch’egli tragicamente scomparso anzitempo il 29 giugno 1951, in seguito a una caduta al Giro del Piemonte, a soli 28 anni. Un dramma che Fausto aveva condiviso con Gino Bartali: il fratello Giulio, a nemmeno vent’anni, aveva perso la vita durante una gara di dilettanti, travolto da una Balilla nera e operato malamente da un chirurgo che avrebbe confessato le sue colpe soltanto sul letto di morte, lasciando una lettera alla madre di Giulio e di Ginettaccio.

Il Giro, ciclicamente, cerca di riproporre nelle varie ricorrenze dei surrogati di quella Cuneo-Pinerolo: restano le città di partenza e di arrivo, cambia il percorso, il mito non si avvicina nemmeno lontanamente alla versione originale. Un uomo solo al comando, da quel giorno e per sempre.

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