Cinque secondi di gloria
di Andrea Beltrama
La finale NCAA si è ridotta a cinque secondi. Il tempo di vedere due canestri pazzeschi, sentire le coronarie chiudersi un paio di volte e venire sommersi dalla Meraviglia, ingrediente fondamentale di qualsiasi esperienza metafisica e qualunque esperienza a sfondo cestistico. E così il primo consiglio, forse l’unico, è quello di andare a rivedersi il video di quegli istanti. Con le facce, i rumori, i festeggiamenti. E l’ennesima dimostrazione di forza del caso. Mentre si carica, ecco alcune superflue considerazioni per contestualizzare il delirio in quello che è successo prima.
Highlights della partita, per chi non li avesse ancora visti
Efficienza
La verità, almeno quella che abbiamo visto noi, è che Villanova ha dominato tatticamente la finale, colpendo spietatamente i Tar Heels nei loro pochi punti deboli. Due cose hanno fatto particolarmente bene gli uomini di Jay Wright: sfiancare la difesa di Carolina per poi colpirla negli ultimi secondi dell’azione; e togliere ai Tar Heels corridoi facili di penetrazione, anche a costo di esporsi più del normale al tiro da tre (Carolina aveva 7/9 alla pausa e ha chiuso con 11 triple: è solo la terza volta in tre anni che i Tar Heel segnano più di 10 tiri da tre in una partita).
Quanto fatto vedere da Villanova ha ricordato, per certi versi, la semifinale tra Wisconsin e Kentucky dello scorso anno: una squadra chirurgica, paziente, fatta di pedine interscambiabili, e una squadra irruenta, piena di energia fisica e talento, ma costretta a subire la partita. Certo, a questo giro le aspettative non erano così sbilanciate come lo scorso anno, quando i Badgers affondarono una squadra fin lì imbattuta. Ma le similitudini sono sembrate tante, negli episodi e nei numeri.
Come l’efficienza offensiva dei Wildcats: 172 punti con 97 tiri in due giorni, con sole 21 palle perse (pochine, visti i tanti possessi), con una percentuale effettiva del 74.7%, segno di un sistema che ha funzionato anche nei minimi dettagli. O come i canestri di Ryan Arcidiacono con finta e giro sul perno, o le sue triple dal palleggio, entrambe specialità della casa anche per gli esterni di Wisconsin un anno fa. È indicativo che Nova abbia vinto tirando con quasi il 60% dal campo, sia da due che da tre, pur perdendo nettamente a rimbalzo. Mai come in questo caso un male minore messo in preventivo.
Fattore X
L’instant classic sarà la tripla di Kris Jenkins, eseguita peraltro con una fluidità sorprendente, visto il momento, il poco tempo a disposizione e la posizione, lontana e un po’ defilata. Ma Villanova non sarebbe arrivata avanti nelle ultime curve se non fosse stato per Phil Booth. Chirurgico eroe per caso, che non solo si è inventato dal nulla 20 punti con un solo errore al tiro, ma anche deciso di sparare le sue cartucce nei momenti più delicati. Ne ricordiamo quattro. Prima, allo scadere del primo tempo: Jackson può schiacciare il +9, salvo farsi stoppare da Josh Hart. Sul ribaltamento Booth, proprio lui, si alza in sospensione da cinque metri. Canestro, -5. E partita che improvvisamente torna equilibrata. Poi, nel secondo tempo: arresto e tiro da 7 metri, a circolazione rotta. È il canestro che lancia il parziale di Villanova, diventando lo spartiacque della partita. Più avanti: cronometro ancora in scadenza. Si butta a centro area, fa saltare Jackson e porta a casa due tiri liberi che valgono il massimo vantaggio Wildcats. Infine la perla, passata inosservata solo per i convulsi eventi negli ultimi minuti: riceve in post basso, si svita verso il fondo, tira cadendo indietro. Altro canestro, questa volta con Carolina a -3. È un tiro che rallenta definitivamente la rimonta dei Tar Heels, concedendo a Nova di rimanere aggrappata al vantaggio per un altro paio di possessi. Non è detto che le cose sarebbero andate così, se non fossero arrivati quei canestri.
La partita di Booth
Caos
I Tar Heels hanno giocato un torneo dominante in cui, paradossalmente senza mai entusiasmare troppo, hanno sempre destato l’impressione di potersi sbarazzare dell’avversario con un minimo passaggio sul pedale del gas del talento. Difficile dire se questo abbia giocato un ruolo nella partita totalmente discontinua giocata dalla squadra di Roy Williams. Di sicuro la Carolina vista in campo è apparsa sulle corde. Tradita non solo dagli errori al tiro, ma dall’incapacità di capire cosa le stesse succedendo attorno nelle fasi cruciali di partita. L’attacco perfetto di Nova non ha concesso abbastanza stops (rimbalzi o recuperi) per potersi distendere in transizione; e la difesa altrettanto perfetta degli avversari, come detto sopra, ha scelto di chiudersi dentro, costringendo di fatto i Tar Heels a snaturare il proprio gioco. Non è un caso che la rimonta sia arrivata solo di nervi, con la partita quasi scappata di mano e più niente da perdere sull’altare della tattica.
Mele e arance
“Perchè la vittoria di Villanova è un bene per il college basket” ha titolato ESPN, accennando alla qualità del collettivo di Nova contro il talento un po’ a briglie sciolte di North Carolina. Senza spingersi a tanto, è evidente che, in mezzo alle trame del caso e agli episodi rocamboleschi, il risultato finale ha confermato che il basket NCAA è ben più complesso della polarizzazione un po’ da bar sport tra gli one-and-done con talento da NBA e i barilotti senza futuro che si sbucciano le ginocchia e tirano piedi per terra da tre prima di finire a fondare una startup. Nel mezzo ci sono sistemi, squadre costruite col tempo, ricette di pallacanestro che mischiano antico e moderno.
Per esempio: la difesa di Villanova, per sincronia, aggressività e principi di base, è stato un capolavoro di pallacanestro contemporanea. Un po’ grazie alle idee di Wright, e un po’ perchè, quando hai 8 giocatori e non puoi fare mercato, devi anche sapere adattare il gioco al materiale che ti ritrovi in casa. In questo caso, guardie, ali e un solo lungo, pure piuttosto mobile. Così come pregevole, come detto sopra, è stato l’attacco. Vedremo mai nella NBA un sistema del genere? No. Significa che la NCAA esprima una pallacanestro superiore? Ancora meno. Resta il fatto che, almeno dal punto di vista razionale, confrontare i due mondi sia come il mischiare apples and oranges tanto caro agli Americani, tanto è diversa la pallacanestro che esprimono. Certo, se poi si parla di gusti personali, inutile andare a sindacare. Anche se noi, nella nostra modestia ingordigia, ci dichiariamo ben felici di apprezzare entrambi i mondi. Pure se ce lo chiedessero mentre macchiamo di caffé un quotidiano al Bar Sport.
Jay & The Arch - Vendetta per due
Di Lorenzo Neri
È il 22 marzo 2013 quando Ryan Arcidiacono fa il suo debutto nel Torneo NCAA. Lui è l’unica, piacevole e inattesa sorpresa in una stagione tormentata per Villanova, in cui la squadra riesce a riprendersi un posto nella March Madness nonostante siano più i dubbi che le certezze. Ryan è un freshman che ha preso in mano il ponte di comando sin dal giorno 1, dimostrando fin dall’inizio una leadership innata che porta gli altri elementi più anziani della squadra a fidarsi ciecamente delle sue scelte. L’impatto con la March Madness però non è affatto dei più piacevoli: al primo turno gioca la peggior gara della sua stagione e non ne imbecca una - tira male, non riesce a dare ritmo alla squadra, perde molti palloni sanguinosi e ‘Nova saluta precocemente la post-season, confermando tutti i dubbi su di loro.
Per un ragazzo cresciuto a pane & culto degli Wildcats in un sobborgo a mezz’ora d’auto di distanza dal campus situato dalla parte opposta di North Philly non deve essere stato facile reagire a quel momento. È quindi probabile che le casacche degli avversari di allora non se le sia mai dimenticate e che da quel momento abbia covato dentro di sé un sentimento di vendetta. Quelle casacche erano di colore light-blue e su di esse campeggiava la scritta North Carolina.
Il suo stile di gioco non è mai stato particolarmente esaltante o spettacolare. Giocatore atleticamente sotto media e con poche armi a livello di scoring per renderlo una prima opzione offensiva, “The Arch” ha trovato la sua dimensione perfetta come l’uomo-squadra definitivo, capace di cambiare l’indirizzo delle partite con scelte perfette, pochissime sbavature e una totale controllo su quello che succede in campo. Grazie a queste caratteristiche lo scorso anno si è portato a casa il premio di miglior giocatore della Big East, lasciandosi però il meglio per l’ultimo atto della sua carriera collegiale.
Parola d’ordine: efficienza
La partita di ieri notte, con la vendetta su North Carolina portata a termine, è stata una perfetta fotografia di quello che Arcidiacono ha dato in 4 anni in maglia Wildcats. Ha giocato la sua solita partita solida come una roccia, tenendo sempre in ritmo i suoi compagni - e non è un caso che la rimonta dei Tar Heels sia avvenuta nel suo momento peggiore, quando ha sbagliato due passaggi semplici a causa di una stanchezza che iniziava a incidere sulla lucidità delle decisioni. Quando però è arrivato il momento di deciderla, con il punteggio in parità e il cronometro che segnava 4.7 secondi, Ryan l’ha decisa. A modo suo.
Si è portato a spasso la difesa per 3/4 di campo e nel momento in cui tutti si aspettavano un tiro da lui, come avrebbe fatto qualsiasi altro 22enne (e non solo) alla sua ultima partita collegiale con tutti quegli occhi addosso, ha fatto la scelta più intelligente possibile, consegnando il pallone a Kris Jenkins, miglior tiratore della squadra e in posizione molto più agevole per lasciar partire il game-winner. Un gesto clamoroso per freddezza ed esecuzione che vale tanto quanto il tiro del compagno e che ha sancito il riconoscimento come Most Outstanding Player delle Final 4.
Questo non gli garantirà un posto in NBA, dove i suoi limiti fisico-atletici sono difficilmente occultabili, ma può permettergli un gran bel biglietto da visita per iniziare la sua carriera da professionista da questa parte dell’Oceano, considerando che ha tutti i mezzi per fare bene e un passaporto italiano che potrebbe tornare utile anche con la Nazionale in chiave futura.
Anche Jay Wright, coach di Villanova, ha avuto il suo momento di rivalsa in questa finale. Non solo verso North Carolina, squadra che non era mai riuscito a battere in carriera, ma soprattutto verso chi lo ha sempre sottovalutato come coach.
Ogni volta che inizia il Torneo l’attenzione si concentra su di lui per due motivi: il primo è per l’inappuntabile eleganza che sfoggia a bordo campo e la classe con cui gestisce i rapporti con giocatori, avversari e arbitri; la seconda e ben più pesante è l’attesa di veder quando i suoi Wildcats si scioglieranno come neve al sole. Dopo le due Final 4 consecutive nel biennio 2008-2009 non sono più riusciti a superare il primo weekend, sbattendo anche su avversarie non irresistibili come la North Carolina State della scorsa stagione.
Stavolta però la gestione di Wright è stata inappuntabile per tutta la stagione: ha trasformato una squadra con caratteristiche perimetrali ben definite in una capace di poter attaccare la difesa a seconda di quello che veniva loro concesso - come ben dimostrato contro UNC, battuta in quello che è il loro territorio, ovvero l’area dei 3 secondi - mentre in difesa ha sfruttato pressione, energia e la grande comprensione tattica dei suoi elementi per togliere ritmo anche agli attacchi più produttivi.
Era dal 1985 che Villanova non vinceva il titolo NCAA: allora in panchina sedeva Rollie Massimino, che ieri notte era tra il pubblico ed è stato il primo a festeggiare coach Wright. Il quale, dopo il buzzer di Jenkins, non ha mosso un muscolo facciale e come se niente fosse è andato a congratularsi con il collega Roy Williams, quando qualsiasi altro essere umano sulla faccia della Terra sarebbe corso in campo a festeggiare.
Ma d’altronde Signori si nasce e lui, modestamente, lo nacque.
“BANG!” So classy
Dalla parte degli sconfitti
Di Dario Vismara
Arrivati a questo punto della giornata è difficile che la vostra timeline di Facebook o di Twitter non vi abbia imposto di vedere l’incredibile canestro di Kris Jenkins.
Nel caso viviate su Marte, eccovi serviti
Già solo per aver segnato un canestro del genere, Kris Jenkins verrebbe ricordato nei secoli dei secoli amen. Ma se si considera anche la sua storia personale, ecco che il suo profilo diventa immediatamente materiale per un documentario 30 for 30 con un finale di quelli che solo la cellulosa sa regalare (cit.). Long story short: per una serie di varie vicissitudini, a 10 anni la madre decide di farlo adottare legalmente dalla famiglia dell’amico e compagno di squadra Nate Britt, in maniera non così lontana da quanto successo a LeBron James nella sua infanzia. Ora, mettetevi nei panni di Britt, che al momento del tiro del “fratello” era sulla panchina di North Carolina, dopo aver giocato solo 9 minuti in finale. Cosa gli deve essere passato nella testa in quel preciso momento? Era felice perché Kris aveva appena segnato il canestro più importante della sua vita oppure era distrutto perché proprio Kris, tra tutte le 6 miliardi di persone sulla faccia della Terra, aveva appena distrutto il suo sogno di vincere il titolo NCAA? Gli sarà passato per la testa “Ma-perché-diavolo-lo-abbiamo-adottato?” - almeno per un centesimo di secondo prima di rendersi conto dell’assurda epicità romanzesca della cosa?
Allo stesso modo, spendiamo due parole per Marcus Paige, che aveva pareggiato la partita con una tripla ben più difficile e improbabile del pulito catch-and-shoot di Jenkins.
Anche Paige, come Arcidiacono, era alla sua ultima partita di college basket. E con quella tripla era diventato top-scorer della partita con 21 punti, prenotando un posto nella storia di UNC se fosse riuscito a portare la squadra al titolo nell’eventuale overtime, avendo appena rimontato 10 punti in poco meno di cinque minuti. Anche quello sarebbe stato un degno finale per un giocatore che ha dato tutto nei suoi quattro anni come Tar Heels. Invece rimarrà solamente un tiro impossibile che ha aggiunto epicità a una partita destinata ai libri di storia. Ma non tale da deciderla. Pour one for the poor Marcus Paige.
Ten Shining Moments
Di Lorenzo Bottini
The Road ends Here. E quando si finisce sul serio, quando anche gli ultimi tifosi hanno trovato la via d’uscita dall’astronave NRG Stadium, quando le retine sono state tagliate e la voce di Luther Vandross è ormai un eco lontano, finalmente realizzi che è aprile e quel culto pagano chiamato March Madness è appena svanito.
Ma quando finisce con una scarica elettrica dal voltaggio dei due possessi di Paige e Jenkins, lo spettro ci mette di più a dissolversi. Perché tutti sanno che una partita così probabilmente non la rivedranno mai più e tutti, che l‘abbiano vista allo stadio con altre 70.000 persone, o dall’altra parte del mondo nella solitudine dell’alba, hanno il dovere di andare per il mondo e farsi apostoli del college basketball.
Ma gli apostoli degli anni 3000 non usano più i santini, ma le immagini. Eccovene dieci nel nome delle quali dovete giurare fedeltà eterna a questo pazzo, bellissimo gioco.
Middle Tennesse University, Protettrice della Madness
Il 99,1% dei Bracket compilati in tutto il mondo aveva inserito il nome degli Spartans nella griglia dei 32simi. A quell’1% invece la notte precedente era apparso in sogno Giddy Potts e aveva scelto giustamente di puntare tutto sui Blue Raiders, seguendo lo spirito e non la ragione. C’è chi chiama questi interventi miracoli, chi ESPN Insider. Noi preferiamo il nome comune di March Madness.
Conviene sempre essere nell’un percento del mondo
San Denzel Valentine, Protettore delle triple doppie
A Lansing un playmaker di due metri lo hanno già avuto qualche anni fa, e ora si fa chiamare Magic. Denzel camminando nelle sue orme ha deciso che quest’anno avrebbe tenuto acceso il suo spirito, portando gli Spartans alle Final Four. Middle Tennesse aveva altri piani, come abbiamo visto, ma questi passaggi resteranno con noi nei nostri pellegrinaggi, per ricordaci qual è la nostra missione.
Paul Jesperson, Protettore delle ricorrenze
Non sarebbe il primo weekend del Torneo senza il tiro ignorante dalla propria metà campo per avanzare al turno successivo. Quest’anno è toccato al lungo di Northern Iowa che con meno di tre secondi riceve la rimessa da fondo campo e lascia andare la preghiera un passo dietro la linea di centrocampo. Il resto è ordinaria amministrazione marzolina.
Rex Pflueger, Protettore del Milite Ignoto
Nessuno sa chi sei, probabilmente i commentatori americani non sanno neanche come si pronuncia il tuo nome. Coach Brey ti ha inserito perché sei il suo miglior difensore sulla palla ma ora tocca attaccare, e in fretta, perché SF Austin è tornata in testa e manca pochissimo sul cronometro. Demetrius Jackson si butta dentro ma la sua conclusione sbatte sul ferro, ci prova Auguste, la palla si impenna e tu decidi di metterci una mano. La palla sbatte sul tabellone ed entra: Notre Dame è alle Sweet Sixteen. Domani nessuno ricorderà più il tuo nome. Tranne i Lumberjacks, perché loro se lo ricorderanno fino alla fine dei tempi.
Texas A&M, Protettrice dei discorsi motivazionali
Se state attraversando un momento buio nella vostra vita, se non riuscite ad arrivare a fine mese o non vi sentite realizzati, non cercate una confezione di barbiturici o una lametta affilata. Digitate su Youtube “Texas A&M comeback” e troverete immediatamente la voglia di tornare a combattere la vostra battaglia quotidiana. I texani, sotto di tredici punti a 44.7 secondi dalla fine, hanno trovato incredibilmente un modo per vincere e Northen Iowa, altrettanto incredibilmente, un modo per perdere. Il mio consiglio per oggi è quindi il seguente: cercate di essere Aggies più di quanto siate Panthers. Namasté.
"Never give up, don’t ever give up!”
Malcolm Brogdon, Protettore dello spirito di Thomas Jefferson
Nel campus di Virginia c’è un comprensorio che è rimasto inalterato dall’anno della sua costruzione, il 1895. In una delle sue stanze senza bagno ha trascorso l’anno da senior il capitano dei Cavaliers, proseguendo quel rituale di purificazione in cui si è inseriti appena si manda l’application per il college con la V. Malcolm davanti a quel caminetto sognava le Final Four da MOP e da studente dell’anno, purtroppo quei cattivoni di Syracuse hanno privato l’America del giusto lieto fine, eliminando i Cavaliers con la loro malefica zona. Ma non ti disperare Malcolm, i Padri Fondatori del tuo paese ti guardano dall’alto.
San Buddy Hield, Protettore delle Triple Step Back
Scodiamoci la terribile prova contro Villanova nelle Final Four in cui avevano messo un tappo sul canestro: Buddy Hield è stato di gran lunga il giocatore che più ci ha fatto divertire durante l’intera stagione, diventando a suon di triple il miglior marcatore della storia della Big12. Preferite ricordarlo per la sua ultima partita collegiale o per cose di questo tipo? Scommettiamo la seconda.
Non ha mai piovuto così tanto in Oregon
Brice Johnson, Protettore delle Doppie Doppie
Ci sono vari modi per accumulare sia punti che rimbalzi nella stessa partita affinché nelle colonnine i numeri diventino in doppia cifra. Johnson ha scelto il più efficace, con un solo salto non fa torto a nessuno e si garantisce punti e rimbalzi. D’altronde, l’unico altro giocatore ad aver raccolto 400 rimbalzi in una stagione di ACC fa Duncan di cognome e Tim di nome...
Ecco cosa di cosa si parla quando si parla di efficienza
Jay Wright, Protettore dell’Eleganza
Ho letto tempo fa un articolo in cui definivano Tony Bennett, il coach di Virginia, il George Clooney del basket collegiale. È stato come un dardo nel panciotto di Jay Wright, che da anni partecipa ai contest come sosia del mascellone di E.R. (e quando non può manda Seth Davis di SportsIllustrated). Colpito nell’orgoglio, ha deciso di riconquistare il trono e lo ha fatto nel migliore dei modi, sfoggiando un elegantissimo gessato blu notte con fermacravatta d’argento durante la partita dell’anno. Chapeau.
You’re the real George Clooney
Kris Jenkins, Protettore dei nostri sogni
“Ogni volta che prendo un tiro ho la sensazione che vada dentro”. C’è tutta la fiducia di chi ha appena messo sulla sirena il tiro per vincere un titolo nazionale nelle parole che escono dalla bocca di Jenkins appena il microfono si avvicina alle sue labbra. I coriandoli sono ancora a mezz’aria, Jay Wright ha appena stretto la mano di Roy Williams. Il tempo si è fermato. C’è chi esulta, chi si dispera, chi sta semplicemente inserendo più punti esclamativi possibile su Twitter. Jenkins segue il follow through e rimane lì, due passi dietro la linea dei tre punti, Villanova ha appena vinto il suo secondo titolo NCAA, a più di trent’anni di distanza dal primo. E lo ha fatto secondo la più hollywoodiana delle sceneggiature, con la palla decisiva che si insacca quando il tabellone è già illuminato a festa. Kris Jenkins ha deciso di salutarci così, euforici per uno dei finali più pirotecnici della storia, ma con l’amaro in bocca di chi sa che siamo ai titoli di coda. Ci ha fatto il più bel regalo del mondo, domani saremo tutti nelle palestre o nei campetti a provare e riprovare quel tiro, quell’emozione.
Perché diciamocelo, chi non ha mai sognato di essere Kris Jenkins in una notte come questa?
Bonus track
E come ogni anno: One Shining Moment