Il 9 febbraio 1992 gli occhi degli appassionati di palla arancione sono tutti rivolti ad Orlando, Florida. Tre mesi dopo aver commosso l’America rivelando di essere positivo al virus dell’HIV, Magic Johnson fa il suo ritorno in completo da gioco per la 42esima edizione della Partita delle Stelle. Viene nominato MVP per acclamazione.
Contemporaneamente, sotto meno riflettori accesi, nella culla del basket collegiale a Notre Dame, Indiana, una squadra rompe tutti i tabù e schiera cinque freshman alla palla a due. Chris, Jalen, Juwan, Jimmy e Ray segnano tutti i 74 punti con i quali i Michigan Wolverines sconfiggono a domicilio i Fighting Irish, e i pochi occhi che non sono rivolti verso la Florida si accorgono in un solo momento che quelli non sono dei semplici adolescenti al primo anno di college. Se Earvin era Magic, loro sono Fab. I Fab Five.
Ora sembra fantascienza stupirsi di una squadra che schiera teenagers appena usciti dal liceo, specialmente se questi sono in cima alle classifiche della loro classe di reclutamento, però è giusto ricordare come fino al 1972 a quest’ultimi fosse persino vietato scendere in campo. Il mantra nonnista consigliava nell’aspettare-il-proprio-turno, come avevano fatto i junior e i senior quando era toccato a loro perché il college non era una rampa di lancio verso il professionismo, ma un percorso atto a formare studenti-atleti capaci di vincere sia nello sport che nella vita. E aspettare il proprio turno era la prova zen a cui tutti dovevano prostrarsi per diventare adulti consapevoli e non adolescenti viziati.
Le squadre collegiali allora erano profondamente diverse da quelle professionistiche della NBA. Se queste ultime erano dominate dallo stardom dei loro giocatori più forti e riconoscibili, nei campus universitari erano ancora i coach a impugnare lo scettro da despota più o meno illuminato. I giocatori erano soldati che indossavano un’uniforme e agivano come diretta emanazione del loro comandante. Le superstar si chiamavano Dean Smith, Bob Knight, Jerry Tarkanian o Mike Krzyzewski. Loro restano, i giocatori passano.
A volte, però, anche loro passano. Nella primavera del 1989 Bill Frieder annuncia di aver accettato l’offerta della sua Alma Mater, Arizona State, e che lascerà l’Università del Michigan subito dopo il torneo NCAA. Il tempismo della decisione fa andare su tutte le furie Bo Schembechler, lo storico allenatore della squadra di football e da poco nuovo direttore atletico dell’università, che lo licenzia in tronco affidando la squadra al suo sottoposto, Steve Fischer.
Un mese e sei vittorie dopo, Fischer taglia le retine del Kingdome di Seattle. Guidati da Glen Rice e Rumeal Robinson, i Wolverines si laureano campioni NCAA.
Due anni dopo però Michigan naufraga nella Big Ten infilando una stagione con più sconfitte che vittorie, e il tocco magico di Fischer sembra essere svanito in quella folle galoppata marzolina. L’unica speranza per salvare il lavoro è reclutare qualche buon talento in uscita dalle high school - perché, per quanto comandino gli allenatori, i titoli li vincono i Glen Rice.
Il primo ad accettare la borsa di studio è un ragazzo di Chicago dagli eccellenti fondamentali in post e dalle impeccabili scelte davanti all’armadio: Juwan Howard diventerà la pietra angolare di quella che verrà ribattezzata The Greatest Class Ever Recruit. La sua amicizia con Jimmy King apre la strada fino al Texas, da cui arriva anche Ray Jackson. Ray era cresciuto giocando a football con l’elmetto dei Wolverines ed era rimasto abbagliato dalla vittoria del titolo nel 1989. Per quanto potesse esserlo per un ragazzo di Austin, TX, la scelta di andare a Michigan era la scelta più ovvia.
Ora che Fischer e il suo staff hanno costruito una classe di livello con tre Top-100, possono lanciarsi sui due migliori giocatori dello stato del Michigan. Finalmente hanno il fattore campo dalla loro parte.
Il numero uno della Nazione, il primo premio alla lotteria, il giocatore per il quale tutti gli allenatori avrebbero camminato sui carboni ardenti pur di strappargli una firma gioca a un’ora di macchina da Ann Arbour, a Country Day High School, una scuola cristiana per l’alta borghesia di Detroit. Nell’ultimo anno trovare un posto libero per le loro partite era divenuta un’impresa e la ragione era evidente a tutti, anche perché era alta almeno venti centimetri più di chiunque altro sul parquet. La bassa competizione delle scuole private aveva finito per annoiare Chris Webber, si limitava a qualche schiacciata da poster e a vincere le partite praticamente solo scendendo in campo.
Chris Webber e qualche altro compagno che gli arriva alla cintola.
Lui si sentiva un ragazzo di strada e doveva giocare nelle scuole cittadine, con compagni neri, con un allenatore nero, non con dei futuri avvocati o banchieri. Nella pioggia di lettere di recruit che tutti i College d’America gli mandavano mensilmente quelle di Duke e degli altri blue chip programs erano le più appetibili, almeno agli occhi di Mr. e Mrs. Webber. Ma Chris non avrebbe voluto ripetere l’esperienza di Country Day e diventare nuovamente il simbolo di una società che detestava. Mentre sta decidendo la sua futura destinazione una sua compagna entra in classe piangendo: la sua macchina non si trova dove l’aveva lasciata la mattina, qualcuno doveva averla rubata. La scuola è sconvolta. Tra le lacrime, qualche ora dopo al suo posto compare una Mercedes nuova di zecca sormontata da un grosso fiocco rosa: Auguri dai tuoi genitori per il tuo compleanno.
Chris è disgustato. Accetta l’offerta di Coach Fischer.
La vita che Chris sognava, Jalen Rose la viveva ogni giorno, ma non era affascinante come nei versi dei Geto Boys. Jalen era il tipico inner city kid, cresciuto senza un padre e costretto a costruirsi un personaggio alla Boyz n The Hood per sopravvivere. Era il figlio biologico di Jimmy Walker, stella a Pepperdine e prima scelta assoluta nel Draft del 1967: in pratica Jalen giocava a basket per fare in modo che un giorno il padre conoscesse il suo nome. Mentre Chris Webber annunciava il suo impegno verso Michigan, Rose stava vincendo il secondo titolo Class A dello Stato a Southwestern, il liceo numero uno della nazione. Diventerà il quinto dei Fab Five, come suggerirà il numero sulla maglia.
Dopo un’intensa estate passata a giocare a Nintendo in qualche casa di amici, Jalen raduna le Nike da gioco nel bagagliaio della sua verde Dodge Shadow e parte per quella mezz’oretta di viaggio che, quando non c’è traffico, divide West Detroit con Ann Arbour. Quando arriva al campus, tutti i suoi compagni di squadra erano già lì ad aspettarlo. Come al solito era sempre l’ultimo.
Appena mette piede in campo però lo stereo cambia musica, si passa dal G-Funk al Gangsta Rap. “Non puoi marcarmi”, “Tutti questi anni in college senza saper neanche fare un sottomano?”, “Il legno della panchina è piuttosto duro, ti toccherà portarti un cuscino da casa”. Benvenuti sulle frequenze di Radio Jalen, tutto-il-trash-talking-che-volete-ventiquattro-ore-su-ventiquattro. E questa non dovrebbe essere un vero e proprio allenamento, ma piuttosto un modo per far integrare i nuovi arrivati con il resto della squadra. “Facciamo freshman contro tutti?”. Alla faccia dell’integrazione. La proposta usciva ovviamente da quell’altoparlante gracchiante con la testa rasata e un buco tra gli incisivi. “Allora, freshman contro tutti o avete paura di perdere contro dei ragazzini?”. Pur di farlo stare zitto ci si divide i fratini. Da una parte The Greatest Class Ever Recruit, dall’altra una squadra che ha chiuso anzitempo l’ultima stagione senza un invito alla Big Dance.
Cinque partite dopo, effettivamente Jalen aveva ragione: non potevano marcarli. Dei teenager che non avevano mai indossato una maglia collegiale avevano appena umiliato una squadra della Big Ten. D’altronde, c’era un motivo se erano Fab.
La mattina del 3 marzo 1991 Rodney King, un tassista afroamericano di Los Angeles, viene fermato da una volante della LAPD e ridotto in fin di vita da tre agenti. Due giorni dopo l’emittente locale KTLA manda in onda dei frammenti di un video registrato da George Holliday, la cui abitazione affacciava sull’incrocio a Lake View Terrace dov’è avvenuta la violenza. Quei secondi nei giorni successivi rimbalzeranno su tutte le stazioni televisive statunitensi diventando per l’intera comunità afroamericana l’immagine dell’osceno, ciò che tutti sapevano ma che rimaneva non rappresentabile.
Il video di Holliday trasforma la questione razziale in una guerra di immaginari in cui sono compresi tutti gli ambiti della vita pubblica. Ovviamente il basket diventa un canale irrinunciabile di confronto, superando anche le ambiguità del decennio precedente. Al duopolio un po’ scenografico tra le coste di Boston e Los Angeles si sostituisce la durezza delle working city del Midwest, prima Detroit poi Chicago. E le rispettive star, Isiah Thomas e Michael Jordan, sono atleti che sbattono in faccia al pubblico il loro dominio fisico con una vis a cui la giocosità di Magic non era mai arrivata.
I conservatori potranno anche comprare le Jordan, ma non potranno mai fare un 360. Period.
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Anche il college basket vive in pieno l’ambiguità di reclutare giovani ragazzi provenienti dalle periferie delle grandi città e trasportarli tra palazzi neoclassici sperduti nella campagna statunitense. Questi attraversano i grandi prati all’inglese protetti da enormi cuffioni che sparano hip hop in continuazione e dominano lo sport convogliando quell’energia di strada dentro i sistemi dell’istruzione bianca.
Prima dei Fab Five, molte squadre collegiali avevano vissuto su questo duplice rapporto ma nessuna era riuscita a divenire così iconica come i cinque freshman di Michigan. Ci aveva provato Illinois con Kendall Gill (un cosplayer del primo Jordan), Nick Anderson, Kenny Battle, Steve Bardo e Marcus Liberty, ma ironicamente la loro cavalcata era stata azzoppata da un canestro di Sean Higgins sulla sirena durante le Final Four del 1989. Esatto, proprio Michigan.
L’anno successivo il trionfo di UNLV dimostrò come una squadra composta da talenti radunati tra i playground americani potesse effettivamente tagliare la retina a fine stagione sconfiggendo i programmi più paludati. I Runnin’ Rebels di Jerry Tarkanian divennero la squadra del cuore di tutta la gioventù nera quando smantellarono Duke nella gara per il titolo del 1990, 103 a 73. Le spalle titaniche di Larry Johnson, le braccia telescopiche di Stacey Augmon, la cinica sapienza di Greg Anthony sembravano uscire dalle pagine di un fumetto Marvel più che dall’imbalsamata NCAA. Esattamente un anno dopo, tutto era apparecchiato per il bis che avrebbe legittimato un epocale passaggio di consegne: UNLV arrivava alle Final Four senza aver perso una singola partita durante la stagione e dava l’impressione di essere un rullo compressore senza freno a mano. Ma in questa favola c’è un antagonista, anzi l’archetipo degli antagonisti: i Duke Blue Devils.
Tra i tanti cuori in frantumi davanti alla televisione c’erano anche i brandelli di quello di Jalen Rose. Aveva seguito la partita con i pantaloncini da gioco di UNLV, dato che la guardia dei Rebels Anderson Hunt era un prodotto di Southwestern HS proprio come lui. I suddetti pantaloni erano piuttosto eccedenti rispetto alla sua secca figura, arrivando a coprirgli le ginocchia come una gonna vittoriana. Jalen però si sentiva più un MC della Motown piuttosto che un componente della corte reale inglese. Al primo allenamento ad Ann Arbour ruba i pantaloni della divisa da Chip Armer, un walk-on che pesava il doppio di lui e che aveva qualche taglia in più sui fianchi, e li indossa imitando la moda che Michael Jordan stava lanciando in NBA. I Wolverines hanno anche un’altra cosa in comune con MJ: un contratto di sponsorizzazione tecnica con la Nike.
I cinque cominciano a tempestare di richieste l’azienda di Eugene alla ricerca di pantaloncini sempre più lunghi, per poi richiederne altri ancora più lunghi appena il pacco arrivava in palestra. Il gergo tecnico per questo taglio non proprio sartoriale è baggy, perché si accartocciano appunto come una busta di cartone sotto la vita: la cultura streetwear li ha presi in prestito dai carcerati, i quali non potendo usare cinture erano costretti a farli scendere fino alle anche. Studenti-atleti che sembrano detenuti. Perfetto.
“Can’t get a fade everyday”
Se le eminenze grigie dello sport collegiale li disprezzano e i genitori li temono, l’intera America sotto l’età legale per bere li adora. Per J.A. Adande, Senior Writer di ESPN, “La loro generazione fu la prima ad avere la musica hip hop come colonna sonora durante l’intera adolescenza. Potevi sentire gli EPMD pompare nello spogliatoio di Michigan o vederli saltare sul tavolo del segnapunti e muovere le braccia come nel video di Hip Hop Hooray dei Naughty By Nature per festeggiare una vittoria”.
Hey-ho Hey-ho Hey-ho Hey-ho Hey-ho Hey-ho Hey-ho.
Dopo ogni contropiede finito sopra il ferro, dopo ogni canestro di puro talento, dopo ogni stoppata a cancellare l’iniziativa avversaria cominciavano le esultanze, lo spintonarsi vicendevolmente, il trash talking. Il corollario coreografico non era un semplice show, rappresentava la dichiarazione di esistenza di una generazione che non voleva seguire acriticamente le regole ma esprimersi nel pieno della propria personalità. Non è un caso che la canzone più usata per i video-tributi su YouTube sia Express Yourself dei N.W.A.
Se le partite dei Fab Five erano un continuo video musicale, la loro vita era quella delle rockstars in tour. I giornalisti avevano trovato delle galline dalle uova d’oro: Chris, Jalen, Juwan, Jimmy e Ray erano a loro agio sotto i riflettori ancor più che sul parquet e la loro contagiosa esuberanza chiudeva idealmente un decennio durante il quale, ad esempio, John Thompson o Dean Smith proibivano ai freshman di parlare con la stampa. Ora i diapers dandy sono diventati appuntamenti televisivi imperdibili, i negozi che vendono le loro magliette e soprattutto i loro pantaloncini sono presi d’assalto. La “M” blue & maize diventa un simbolo di riconoscimento paragonabile solo alle sciabole nero-argentate dei Raiders.
Diversamente dalle superstar dell’NBA, i Fab Five sono dei ragazzi normali, con cui è facile empatizzare. Amano passare intere giornate a giocare alle varie console - Nintendo in casa, Sega Genesis per le trasferte -, farsi continuamente scherzi e cercare di mettere insieme i soldi per pagarsi una cena al fast food del campus, mentre le vendite del merchandise dell’università volavano da 1.5 milioni di dollari a 10 milioni dopo il loro anno da freshman.
Contrariamente alla vulgata che vede i Fab Five come ragazzini viziati coccolati dai media e venerati dalle masse solo per dei pantaloni portati sotto l’elastico delle mutande, i risultati in campo sono stupefacenti se rapportati alla durezza del college basket in quei tempi. I Wolverines completano lo schedule della Big Ten vincendo contro Indiana, Purdue e Illinois e si aggiudicano una sesta testa di serie per il Torneo. Le prime due sedi sono Atlanta e Lexington, esattamente le stesse del Torneo vinto da Steve Fisher tre anni prima. Scaramanticamente decide di prenotare le stesse camere negli stessi hotel, sperando di riaccendere la magia. Ovviamente la mossa funziona.
Chip Armer, quello a cui Jalen aveva rubato i pantaloni, tornando verso le stanze incontra Webber.
“Ehi Chris, non indovinerai mai chi ho appena incontrato in ascensore”
“Chi, Nia Long?”
“No, Muhammad Ali”
“Chip, lo sai che non ti conviene prendermi in giro”.
Il tempo di scendere le scale e l’intera squadra si riversa nella suite di The Greatest. Ali è già segnato dal Parkinson ma regala sottovoce ai suoi giovani discepoli qualche consiglio sul come gestire la pressione dei grandi eventi. Il tono si alza improvvisamente quando ricorda le parole con cui festeggiò il suo primo titolo mondiale: “I Shook Up The World”
Quasi le stesse che Juwan Howard strillerà alle telecamere tornando verso gli spogliatoi dopo la vittoria contro Ohio State. I Wolverines hanno appena strappato un biglietto per le Final Four.
Michigan aveva già perso una partita contro Duke all’inizio della stagione ai supplementari. Ne perderà un’altra, quella che vale il Titolo NCAA, dopo essere andata in vantaggio negli spogliatoi all’intervallo. Ne perderanno un’altra durante la stagione successiva, restando l’unica squadra che non riusciranno mai a sconfiggere. I Blue Devils incarnavano tutti i valori che i giovani Wolverines disprezzavano: da una parte i rampolli dell’America bene, cresciuti in uniformi di velluto nelle corti di eccellenti istituti privati, con la riga a destra e le scarpe sempre lucide. Dall’altra i figli di chi faceva due lavori pur di garantirgli quell’educazione minima per salvarli dalla vita di strada, con la testa rasata, gli orecchini col brillante e i tatuaggi a segnare la pelle, prevalentemente scura. Se una parte della popolazione si riconosceva in quei giovani atleti, la pancia conservatrice li criminalizzava per come si vestivano o per la musica che ascoltavano. Ma allo stesso tempo non si faceva alcuno scrupolo a inondare la buca delle lettere di Coach Fischer chiedendogli di non far giocare quei negri perché insultavano il loro sport con atteggiamenti da scimmie. Qualcuno li definirebbe prodotti culturali: rispondevano allo stereotipo secondo il quale se una squadra afroamericana vince è perché ha talento, mentre se vince una di bianchi è perché sono intelligenti, disciplinati e ben allenati.
“Sono la squadra più sopravvalutata e meno vincente della storia del College Basket, esemplificano tutto ciò che è sbagliato in questo sport”. Il pacato commento di Bill Walton rifletteva la bipolarità con cui erano vissuti i Fab Five. Sopravvalutati, viziati, maleducati, streetballer, palloni gonfiati arrivati in finale grazie a colpi di fortuna. Nessuno perdeva l’occasione di regalare al grande pubblico il suo personale e indispensabile parere basato in gran parte su pregiudizi e luoghi comuni. Intanto, la macchina continuava a macinare dollari.
Ogni capo di abbigliamento con il marchio “Fab Five” andava a ruba, venivano stampate centinaia di migliaia di figurine che ritraevano Chris appeso al ferro, Jalen in palleggio, Jimmy pronto per caricare un tiro. Se da freshman erano eccitati dall’entusiasmo che li circondava, da sophomore si sentivano sfruttati. E risposero a loro modo. Per la prima partita stagionale, contro Rice University, si presentarono in campo con dei calzettoni neri infilati dentro a scarpe nere. Nessuno lo aveva mai fatto prima d’ora, nemmeno tra i pro. Non era una ribellione giovanile, era un gesto di sfida basato su una rivendicazione identitaria. Facile a dirsi: la Nike vendette più calzini neri quella settimana di quanti ne aveva venduti negli ultimi vent’anni. In risposta i cinque si presentarono alle successive partite con la maglia da allenamento al rovescio, in modo tale da non far vedere né lo sponsor tecnico, né il nome dell’università. Non funzionò neanche quello.
Chris rappa su un beat di Jimmy. Piazza San Marco, Venezia, Maggio 1992
Si concentrarono allora in ciò che sapevano fare meglio: vincere partite di basket. “Non sono una squadra che gioca bene e non è una squadra che andrà molto lontano nel torneo”, sentenziò sempre Walton. Non esattamente Bill. Michigan dopo aver chiuso la Big Ten a due partite da Indiana (che concluse con 17-1, una roba mai vista) fu collocata come prima testa di serie a Ovest e in qualche modo riuscì a superare in sequenza Coastal Carolina, UCLA, George Washington e Temple fino a rimanere una tra le ultime quattro squadre ancora in vita. Survive and Advance, non è poi così difficile questo giochino.
New Orleans, Louisiana. Una delle istantanee più celebri e crudeli dello sport americano.
Con Michigan sotto di due Chris Webber cattura il rimbalzo con 19 secondi ancora sul cronometro, non riesce a scaricare su Rose e parte in palleggio superando la linea mediana tendendo verso la sua panchina. Ferma il palleggio e chiama timeout. Solo che Michigan li aveva esauriti un paio d’azioni prima. È fallo tecnico, i Wolverines perdono un’altra finale. Il miglior giocatore della nazione ha appena commesso l’errore più ingenuo della sua vita, aveva 20 anni. Nel momento esatto in cui Chris si gira verso la linea laterale e chiede l’attenzione degli arbitri per fermare la partita finisce anche la storia dei Fab Five. Webber una settimana dopo si dichiarerà per il Draft e verrà scelto con la prima dai Golden State Warriors. Da allora ha passato il resto della sua carriera a cercare di dimenticare e cancellare quell’errore.
Gli ultimi venti secondi di North Carolina - Michigan sono stati vivisezionati per venticinque anni come un caso di cronaca nera. Invece di accanirmi sul cadavere preferisco tornare a quarantotto ore prima, quando Michigan gioca la sua partita più emozionante. Dopo aver zittito i detrattori con un altro viaggio alle Final Four si trovano davanti i Kentucky Wildcats di Rick Pitino, un mostro che aveva asfaltato la propria strada verso New Orleans vincendo ogni partita con più di 20 punti di scarto. Tutti i commentatori erano certi che avrebbero riportato i Wolverines alla dura realtà. I Fab Five, dopo essersi radunati in circolo abbracciandosi l’un l’altro esplosero nel loro grido di battaglia.
«LET YOUR NUTS HANG»
Salirono sul ring con i Wildcats come due pesi massimi ed arrivarono fino ai supplementari, pugno dopo pugno. Webber assestò l’ultimo colpo, quello del K.O., e i cinque freshman diventati sophomore, i beniamini diventati villain, shockarono di nuovo il mondo. Rivedendo quella partita stupisce la maturità, la dedizione con la quale eseguono il piano partita alla perfezione, annullando la velocità in transizione e il tiro perimetrale di Kentucky e sfruttando le proprie qualità nel pitturato. Come una squadra ben allenata e disciplinata, esattamente il contrario di come è stata definita per anni.
La partita più bella giocata dai Fab Five.
La sconfitta più dolorosa non fu però quella contro North Carolina, una squadra che secondo tutti loro gli era inferiore. Fu quando l’NCAA cancellò le loro stagioni a Michigan e quelle successive per i rapporti irregolari che l’università intrecciò con Ed Martin, un criminale di Detroit che a tempo perso si interessava anche dell’approvvigionamento dei migliori talenti cestistici in città. Fu quando i banner, conquistati con il sangue e il sudore, vennero srotolati dal tetto del Crisler Center e nascosti negli uffici in scatoloni di cartone. La rivoluzione dei Fab Five non è più sui libri mastri dell’NCAA ma vive quotidianamente nel basket che amiamo, nei vestiti assurdi o nelle esultanze pazze. Ci hanno insegnato che non conta l’età o la provenienza ma solo il talento e la voglia di vincere, che i fratelli non sono quelli di sangue ma quelli che ti scegli lungo la via, e che una sconfitta non è sempre e solo una sconfitta.
Dopo aver perso la seconda finale Chris, Jalen, Juwan, Jimmy e Ray uscirono per le vie di New Orleans fino ad arrivare al club più esclusivo di Bourbon Street. La fila era un infinito millepiedi strisciante, ma appena si avvicinarono al buttafuori questo gli aprì davanti il cordino viola lasciandoli passare. Dietro di loro, ad aspettare il proprio turno, c’erano i giocatori di North Carolina.