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Una vita oltre il basket
13 gen 2016
La storia, gli inizi e la filosofia del più vincente allenatore in attività, Gregg Popovich.
(articolo)
30 min
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«Prendetevi il rischio di pensare per voi stessi: avrete in cambio molta più felicità, verità, bellezza e saggezza».

Christopher Hitchens

Scrivere il ritratto un personaggio pubblico che ha passato la sua vita a costruire una recinzione attorno al suo mondo interiore può essere complicato. Si rischia di ritrovarsi nella frustrante situazione di avere una montagna di materiale a cui attingere ma di non riuscire comunque ad accedere a una dimensione più profonda. Gregg Popovich è uno degli uomini di sport che è stato sotto i riflettori per più anni consecutivi, ha creato una delle squadre più vincenti del basket moderno, e i suoi metodi, le sue idee, i suoi comportamenti, sono stati osservati, studiati e replicati. Il problema è che più la gente parla di lui, meno lui accetta di parlare di sé.

In quasi tutte le interviste che ha rilasciato in questi anni spesso non è andato oltre un rigido e a tratti irritante formalismo, e quando lo ha fatto è stato solo per cazzeggiare con i giornalisti o per mortificarli, oppure lo ha fatto con persone che facevano parte della sua famiglia sportiva. Non ha scritto autobiografie tronfie e autocelebrative—del tipo “Vi insegno a vincere nel basket e nella vita”—come hanno fatto tanti dei suoi colleghi, famosi e meno famosi, vincenti e meno vincenti, interessanti e meno interessanti. Non somiglia per niente allo stereotipo del coach di alto profilo dello sport professionistico. Non ha lo stile di Pat Riley, né l'aura filosofica di Phil Jackson. La sua storia, la storia degli Spurs, non è in vendita.

Forse perché, da buon figlio di immigrati balcanici, studente dell'Air Force Academy e ufficiale d'intelligence durante la Guerra Fredda, Popovich sa meglio di chiunque altro che comparire nelle fotografie o mettersi davanti al microfono significa rivelarsi—e quindi prestare il fianco all’avversario. Per questo non ci sono scorciatoie che portano al suo mondo interiore. Ci sono i rari passaggi autentici delle centinaia di interviste sparse in rete; ci sono i racconti dei giocatori e dei suoi assistenti; ci sono i riferimenti alle sue idee e alle sue passioni lasciati in giro come briciole da raccogliere per costruire un ritratto che non potrà mai essere completo—ma che è un tentativo di comprendere cosa ci sia dietro la scorza di uno degli uomini più osannati dello sport moderno.

Per capirci qualcosa bisogna prendere la macchina del tempo e tornare a quando Pop non era ancora Pop, raccontare di John Havlicek e sconfinare in terreni apparentemente lontanissimi, come quelli di un modesto allenatore di calcio nordirlandese e di uno scomodo quanto brillante scrittore inglese.

Da soldato a comandante

La nomina di Gregg Popovich alla guida del Dream Team non ha sorpreso nessuno. Ha avuto da subito l'aspetto del matrimonio che prima o poi s'aveva da fare tra la più grande squadra di basket del mondo e il miglior allenatore in attività, l'evoluzione naturale di una carriera straordinaria. Da almeno un anno e mezzo, cioè da quando gli Spurs hanno annientato i Miami Heat in una delle serie finali più sconvolgenti di sempre, negli Stati Uniti e nel resto del mondo nessuno si sogna di mettere in discussione i meriti sportivi e umani di Popovich, e non solo per i cinque titoli vinti.

Pop è unanimemente considerato un innovatore del gioco, un fine psicologo, un coltivatore di uomini e uno scopritore di talenti, un allenatore illuminato capace non solo di stare al passo con i tempi ma anche di prevederli, se non addirittura di cambiarli. Oggi Popovich è, a tutti gli effetti, un'Istituzione. Anche il suo modo di parlare con la stampa e di chiudere la porta in faccia a chiunque sia fuori dal circolo della famiglia Spurs—un tempo considerato un atteggiamento fuori luogo, in un mondo dove la prima regola è essere accomodante e non dire o fare cose che potrebbero indispettire il pubblico e gli sponsor—oggi per molti è un segno di simpatia e autenticità.

In questi due anni sono stati versati fiumi d'inchiostro per elogiare la sua idea di puntare prima di chiunque altro sui giocatori europei e sudamericani, creando gruppi internazionali e multiculturali; l’uso rivoluzionario delle spaziature, soprattutto degli angoli del campo; la capacità di mettere da parte il gioco statico, muscolare degli anni ’90 e adottarne uno più dinamico. Ma la verità che viene fuori sfogliando l'album dei ricordi dei San Antonio Spurs è che Popovich ha avuto bisogno di almeno nove anni e tre titoli NBA per essere considerato allo stesso livello di mostri sacri come Red Auerbach, Riley o Jackson. Prima di diventare il padrino del basket americano, Pop è stato un allenatore normale, spesso contestato, poco amato e compreso dai tifosi, sull’orlo dell’esonero come un Gigi Delneri qualsiasi. E il cammino degli Spurs verso la gloria non è stato una linea retta, ma una strada tortuosa fatta di pericolose sbandate e bivi dove la squadra, l'allenatore, la proprietà, sono stati a un passo dal prendere la direzione sbagliata.

Il bivio più importante ha un luogo e una data precisi: Houston, 2 marzo 1999. La stagione è cominciata solo da un mese, a causa del lockout che ha portato le partite di stagione regolare da 82 a 50. Michael Jordan si è ritirato, i Chicago Bulls sono stati smantellati e si aprono possibilità di titolo per squadre non perfette, ma competitive e talentuose. Gli Spurs sono sicuramente sulla lista, visto che due anni prima si sono ritrovati tra le mani Tim Duncan, raro esempio di prima scelta al Draft già fatta e finita, da affiancare a David Robinson (MVP nel 1995), Sean Elliott (gran tiratore e uomo da canestri pesanti), Avery Johnson (playmaker tutto tenacia & sostanza) e Mario Elie (difensore straordinario, gran trascinatore e l'unico ad aver giocato—e vinto—per il titolo). Ma la stagione è partita malissimo: San Antonio ha perso otto della quattordici partite giocate e nello spogliatoio tira un brutta aria, tanto che comincia a spargersi la voce che se Duncan e compagni non dovessero vincere a Houston contro i Rockets (anche loro sulla lista dei candidati al trono vacante grazie al trio Olajuwon-Barkley-Pippen, pur ultra-trentenni) la società potrebbe decidere di cambiare guida tecnica.

Molti giocatori hanno l'impressione che Popovich sia a un passo dal licenziamento, magari per tornare a fare il general manager o addirittura per uscire definitivamente dall'organizzazione. Nessuno sembra particolarmente sorpreso. All'inizio della stagione 1996-97 Popovich, all'epoca GM, aveva licenziato il coach Bob Hill (che aveva perso 15 partite su 18) e aveva nominato sé stesso come capo allenatore, conducendo la squadra alla peggiore annata della storia della franchigia (20 vittorie e 62 sconfitte). Quel pessimo risultato—e un bel po' di fortuna in Lottery—avevano permesso agli Spurs di andare al Draft con la prima scelta e di tornare a casa con Tim Duncan, e nella stagione 1997-98, con David Robinson di nuovo in forma, la squadra aveva chiuso con un ottimo record di 56 vittorie e 26 sconfitte. Ma a ovest gli Spurs erano ancora un gradino sotto ai Lakers, ai Sonics e soprattutto agli Utah Jazz, che in semifinale di conference avevano liquidato facilmente la truppa di Popovich.

La stagione successiva, con Duncan al secondo anno e il roster ulteriormente rafforzato, deve essere diversa. Invece sembra che la squadra non sia ancora pronta. Soprattutto, sembra che Pop non sia ancora pronto. Almeno è quello che pensano molti opinionisti e molti tifosi, che chiedono di rimpiazzare quell'impenetrabile, indecifrabile e a tratti scontroso allenatore con un altro più carismatico e comunicativo. Il nome è già pronto e sembra accontentare tutti: è Doc Rivers, che si è ritirato da poco, lavora per il canale tv degli Spurs—quindi conosce bene l'ambiente—e non vede l'ora di sedersi su quella panchina. Qualche tempo dopo Steve Kerr, parlando del prepartita contro Houston, ha raccontato: «Si diceva che se avessimo perso quella partita sarebbe arrivato Doc al posto di Pop. Vedendo l'atmosfera che c'era nello spogliatoio avresti detto che fosse la verità. C'era molto fastidio per come stavano andando le cose. Pop non era ancora Pop. Non aveva neanche un nome. I tifosi ancora non sapevano chi fosse in realtà». Ma quel giorno la squadra si stringe intorno al suo allenatore, asfaltando i Rockets con 38 punti e 29 rimbalzi della coppia Duncan/Robinson—e la stagione diventa una marcia trionfale, fino ai playoff quasi perfetti e alle finali dominate contro New York. Quel giorno a Houston gli Spurs sono diventati gli Spurs, e Gregg Popovich è diventato Pop.

Un’ora ben spesa per tutti i tifosi nero-argento out there.

Di solito un allenatore che vince un titolo si guadagna automaticamente la stima di tutto il mondo NBA. Ma per Popovich non è andata così. Per molte persone il fatto che fosse riuscito finalmente a portare la sua squadra alla vittoria non bastava a trasformarlo in un vincente. San Antonio era tornata sulla mappa del basket americano e suoi abitanti avevano finalmente qualcosa di cui andare orgogliosi, ma per i giornalisti e per molti tifosi Pop era ancora l’impostore che si era preso con la prepotenza un posto che non gli spettava.

Mentre la città stava ancora festeggiando il titolo, David Bennett, tifoso degli Spurs e direttore del settimanale San Antonio Current, scrisse: «La vittoria contro New York ha unito la città ed è uno dei momenti più belli della mia vita. Quanto a Popovich, be', questa squadra avrebbe vinto anche se in panchina ci fosse stata la moglie di Lyndon Johnson». Non molto tempo dopo il mensile Texas Monthly uscì con un articolo, intitolato “San Antonio Mission”, che cominciava così: «Gregg Popovich è l’allenatore più vincente della storia degli Spurs e l’unico che è riuscito a vincere un titolo NBA. E quest’anno la sua squadra lotterà ancora per il titolo. Allora perché tante persone lo considerano ancora un mediocre?».

E poi c'era la diffidenza dei suoi colleghi più titolati, che non sembravano disposti ad ammetterlo nella confraternita degli allenatori d'élite. Risale più o meno a quel periodo una frase di Phil Jackson che è il motivo per cui ancora oggi a San Antonio il Maestro Zen è persona molto poco gradita: intervistato a proposito della rivalità tra i suoi Lakers e gli Spurs, Jackson disse che accanto al titolo del 1999 doveva esserci un grosso "asterisco", perché i Chicago Bulls non avevano avuto la possibilità di difendere i loro titoli e per via del fatto che il lockout aveva falsato l'intera stagione. La stagione successiva al titolo vinto contro New York sembrò dare ragione a Jackson: gli Spurs chiusero la stagione regolare con un non eccezionale record di 53 vittorie e 29 sconfitte, e al primo turno dei playoff furono sconfitti dai Phoenix Suns (che avevano Jason Kidd, Penny Hardaway e poco altro) pur avendo il vantaggio del fattore campo. Il tutto mentre Phil Jackson vinceva il primo di tre titoli consecutivi e fondava una nuova dinastia.

A Popovich, invece, sarebbero serviti altri tre anni per vincere il secondo titolo. In mezzo, due brucianti lezioni di basket impartitegli da Jackson e dai Lakers (4-0 nel 2001 e 4-1 nel 2002) e che avevano generato i soliti dubbi sulla tenuta mentale degli Spurs e le solite voci su un possibile allontanamento di Pop. Perché certo, San Antonio ha vinto quattro titoli negli undici anni seguenti, ma in questo periodo di tempo ci sono state almeno altrettante disfatte clamorose. L’ultima, e più devastante, quella nelle finali del 2013 contro i Miami Heat, una sconfitta che avrebbe molto probabilmente stroncato qualsiasi grande squadra, forse anche i Lakers di Pat Riley e i Bulls di Phil Jackson. Perché invece gli Spurs sono rimasti in piedi? Come spesso succede, anche in questo caso la risposta sta nei dettagli—e se è vero che gli Spurs sono Popovich e Popovich è gli Spurs, bisogna cercare quei dettagli nella storia dell’uomo che ha plasmato questa squadra.

Il tiro che ha cambiato le Finali NBA 2013.

La lezione dell’Indiana

L'allenatore di calcio nordirlandese Iain Dowie l'ha chiamata bouncebackability, letteralmente la capacità di rimbalzare, di rimettersi in piedi dopo un colpo subìto. Dowie è stato un modesto attaccante in Premier League tra l'inizio degli anni ‘80 e la fine degli anni ‘90. Era la tipica punta generosa e tenace da squadra di provincia, abbastanza bravo per arrivare nella massima serie, ma non abbastanza per attirare l'attenzione delle squadre di prima fascia. Nel 2000 si è ritirato ed è diventato allenatore. Neanche come manager ha lasciato un'impronta particolarmente profonda: le sue squadre non hanno mai fatto exploit clamorosi e gli esoneri sono stati più delle vittorie memorabili. Ma ha dimostrato più volte un talento particolare nel motivare squadre apparentemente alla frutta o abituate a prendere batoste, e a portare i suoi giocatori a rendere al di sopra delle loro possibilità. Nel 2003 prese in corsa la guida del Crystal Palace, che all'epoca era 19.esimo in Division One, la Serie B inglese, e con una striscia di 17 vittorie in 23 partite portò la squadra ai playoff e poi alla promozione in Premier League. La rimonta fu possibile perché Dowie introdusse un regime di allenamenti molto più duro e un sistema di gioco più adatto alle caratteristiche dei giocatori. Ma in realtà il cambiamento aveva a che fare con l'aspetto umano e psicologico, più che tecnico. Quando un giornalista gli chiese quale fosse il suo segreto, Dowie disse che il principale pregio della sua squadra era l'abilità di riprendersi dopo una batosta, di uscire rafforzati dalle sconfitte. Bouncebackability, appunto.

È curioso che il concetto che definisce meglio la storia e il successo di Gregg Popovich venga da un uomo e da un mondo1quello del calcio britannico degli anni ‘90—che non potrebbe essere più lontano e diverso dalla NBA di oggi. Ma in realtà i punti di contatto sono diversi. Prima di tutto, anche Popovich è stato un giocatore dignitoso le cui doti tecniche e fisiche non erano all'altezza dei suoi sogni e delle sue enormi ambizioni.

L’attuale allenatore degli Spurs è nato nel 1949 a East Chicago, una città dell'Indiana sul lago Michigan che ha sempre venerato un'unica divinità: l'acciaio delle fabbriche siderurgiche. Nel 1906 la Us Steel costruì da quelle parti il più grande impianto per la produzione di acciaio di tutti gli Stati Uniti. L'azienda creò dal nulla anche una città, che fu chiamata Gary (dal nome del fondatore della Us Steel, Elbert H. Gary), e negli anni successivi decine di migliaia di persone alla disperata ricerca di un lavoro cominciarono ad arrivare nella regione. Molti erano immigrati provenienti dall'Europa dell'est, che negli anni fecero schizzare alle stelle la popolazione di Gary e di altre città della cintura dell'acciaio: Merriville, Griffith, East Chicago e Ceown Point. Tra gli immigrati c'era anche Raymond Popovich, che arrivò dalla Serbia e stabilì la sua famiglia nella zona portuale di East Chicago, un posto parecchio rustico dove l'americanità era un concetto relativo: c'erano comunità di serbi, di croati, di polacchi, di italiani, di tedeschi, ognuna con i suoi riti e le sue passioni da dopolavoro e con un enorme senso di lealtà tra i suoi membri. L'elemento comune a quasi tutti era il lavoro nelle miniere e nelle acciaierie, e il fatto che per le nuove generazioni non c'erano molte alternative a quella vita: i figli accompagnavano i padri nelle acciaierie, come avevano fatto i padri con i nonni tanti anni fa, e si preparavano a ereditare un’esistenza faticosa.

Gregg Charles Popovich è cresciuto in quel miscuglio di lingue e culture con l’unica aspirazione di giocare per i Senators di Washington High School, la squadra di basket della città, per distacco la migliore di uno stato dove il basket è sempre stato una religione. «Se nascevi a East Chicago e ti piaceva lo sport, l'unica scelta era il basket», ha detto Popovich in un'intervista qualche anno fa. «L'unica cosa che mi importava fino a quando ho avuto 11 anni era diventare un Washington Senator. Volevo giocare per il leggendario coach Johnny Baratto». Nel 1960 i genitori si separarono e lui si trasferì con la madre nel sobborgo di Merrillville. Popovich, che all’epoca aveva 11 anni, capì che forse non avrebbe mai giocato per la sua squadra preferita, e la cosa lo fece piombare in uno stato di isolamento che sua madre fu costretta a rompere a furia di botte. «Me lo ricordo ancora: una sera me ne stavo chiuso nel garage quando lei arrivò correndo e agitando una scopa, mi colpì sulla testa e sul culo per farmi uscire in strada, ma io non volevo, io volevo solo tornare a casa e giocare basket».

La terapia d’urto funzionò: il ragazzo ricominciò a impegnarsi nello studio, a uscire di casa e soprattutto a giocare a basket. Si fece anche dei nuovi amici con cui passava i fine settimana a vagare per Broadway e a mangiare hamburger da 14 centesimi comprati in un posto chiamato The Mug. In quel periodo nessuno lo chiamava con il suo vero nome. Era per tutti “C.C.”: la prima C stava per Charles, il suo secondo nome; la seconda era dovuta al fatto che Bill Metcalf, il suo allenatore al liceo, non riusciva a pronunciare Gregg e si ostinava a chiamarlo Craig. Nel 1963 Metcalf, un uomo irascibile che guidava una squadra composta solo da bianchi, decise di lasciare “Craig” fuori dalla squadra. Venne fuori che il ragazzo che aveva sognato di diventare la stella dei mitici Washington Senators non era abbastanza forte per giocare nei modesti Merrillville Pirates.

Il perché della scelta non è chiaro, ma la cosa certa è che Metcalf dovette affrontare l’ira di Katherine Popovich, che un giorno si presentò infuriata nell’ufficio del coach accusandolo di aver rovinato la vita di suo figlio. In realtà Gregg era già abbastanza maturo per capire che il fallimento, per quanto doloroso, può e forse deve essere la premessa per un successo futuro. Capì che per migliorare il suo gioco doveva confrontarsi con gente migliore di lui, così cominciò ad andare tutti i giorni, insieme al suo amico Arlie Pierce, al playground di Gary, a una quindicina di chilometri da Merrillville. La squadra del liceo era composta solo da bianchi e Popovich era abituato a giocare un basket morbido e poco competitivo; invece a Gary si trovò a giocare partite all’ultimo sangue con ragazzi molto più tosti, molti dei quali erano neri. «È lì che Pop ha imparato a essere un duro», ha detto Pierce tempo fa ricordando quel periodo. Molti dei ragazzi che frequentavano il playground erano figli degli operai delle acciaierie che non avevano i soldi per comprare un paio di scarpe da basket. «Spesso indossavano le scarpe dei loro padri, quelle con la punta d’acciaio, ma anche così erano molto più forti di noi. Ogni volta ci dicevamo che avremmo dovuto migliorare». Quell’estate Popovich partecipò con Pierce e altri amici ai tornei di strada di Griffith, un’altra città della cintura dell’acciaio, in un campo chiamato The Courts. Poi tornò a Merrillville e Metcalf, che continuava a chiamarlo Craig, lo scelse come centro titolare dei Pirates. La prima dimostrazione di bouncebackability.

Popovich non arrivò mai a giocare per Johnny Baratto, ma diventò comunque la star della squadra del liceo cittadino, non tanto grazie al talento, ma piuttosto grazie a un mix di disciplina tattica e devozione fisica. In molte foto dell'epoca si vede Pop—un ragazzino con il naso grosso, la faccia sottile e capelli folti con la riga di lato—sfoggiare già quell'espressione impenetrabile che oggi ci è tanto familiare. Ce n'è una scattata nella palestra della squadra nel 1966: Pop ha addosso una canotta numero 21 (un segno annunciatore: è lo stesso numero che ha avuto Tim Duncan per tutta la sua carriera) e la bocca spostata di lato a disegnare una sorta di smorfia scettica.

In ogni caso le cose per lui andavano alla grande, e a 17 anni era arrivato il momento di decidere cosa fare una volta finito il liceo. Le possibilità erano due: seguire la maggior parte dei suoi amici e coetanei, andando a ingrossare le fila dei colletti bianchi delle aziende siderurgiche, guadagnare un buono stipendio dignitoso, sposarsi con una ragazza del paese, mettere su famiglia, comprare una macchina, guardare le partite in tv, organizzare il barbecue la domenica; oppure continuare a credere nel basket scommettendo su un futuro incerto. C.C., che all’epoca era già abbastanza sveglio per capire che senza disciplina il confine tra un sogno e un’illusione può essere molto sottile, scelse una via di mezzo: entrò all’Air Force Academy, diventando uno dei primi studenti della storia di Merrillville a frequentare un’accademia militare. Avrebbe giocato a basket, ma avrebbe anche posto le basi per una carriera sicura lontano dal parquet se le cose fossero andate storte.

He stole the ball

L’infanzia e l’adolescenza passate tra East Chicago e Merrillville hanno lasciato a Popovich in eredità una serie di valori guida—l’etica del lavoro, il senso di lealtà, il rispetto, l’umiltà di imparare dagli altri—che in futuro sarebbero diventati i suoi strumenti per valutare i giocatori (ovverosia gli uomini) e capire quali fossero adatti alle sue idee umane e cestistiche. Quei valori sono tuttora i pilastri su cui si fondano i San Antonio Spurs. Oggi chi entra nell’ufficio di Popovich trova una sedia, un tavolo, una lampada e, appesa su una delle pareti, una fotografia di John Havlicek. Tempo fa un giornalista ha chiesto a Popovich perché tra tutte le persone da cui poteva trarre ispirazione avesse scelto proprio l’ex giocatore dei Boston Celtics. Perché non Bill Metcalf, per esempio, per ricordare a sé stesso il valore dei fallimenti? O perché non George Gervin, che ha giocato per i San Antonio Spurs ed è stato uno dei più grandi di tutti i tempi? Lui ha risposto con una frase ambigua che non potrebbe essere più popovichiana: «Se non riesci a capirlo da solo, allora non posso aiutarti». In realtà non è difficile immaginare perché Pop si porti dietro la fotografia di Havlicek da più di trent’anni (era nel suo ufficio ai tempi in cui allenava la squadra del college di Pomona, in California), e perché voglia che i suoi giocatori la vedano ogni volta che entrano nel suo ufficio.

Dal punto di vista umano si riconosce nella storia dell’ex stella di Boston. Anche Havlicek viene da una famiglia di immigrati arrivati dall’Europa dell’est: suo padre era cecoslovacco e sua madre, come la madre di Popovich, era di origini croate, e anche loro si erano stabiliti nel Midwest, solo un po’ più a est, in Ohio. Havlicek è nato a Martins Ferry, una cittadina di 15.000 abitanti che a metà del Novecento non doveva essere molto diversa dalla Merrillville in cui è cresciuto Popovich. Come giocatore, Havlicek è stato un’ala piccola completa e versatile, uno dei migliori della storia in quel ruolo. Arrivò ai Celtics nel 1962, rivitalizzando una squadra vecchia che era ormai così abituata a vincere da rischiare di perdere gli stimoli. “Hondo”, come veniva chiamato per via della sua somiglianza con John Wayne nell’omonimo film del 1953, era un giocatore efficace su entrambi i lati del campo: ha chiuso la carriera con più di 20 punti a partita in stagione regolare e 22 nei playoff, venendo nominato per cinque volte nel miglior quintetto difensivo della lega. Ha vinto 8 titoli NBA tra il 1963 e il 1976. Era disciplinato, tenace e altruista, ma è stato anche un innovatore: fu il primo grande giocatore a entrare dalla panchina a partita in corso, creando di fatto il ruolo del sesto uomo. La sua carriera è indissolubilmente legata agli ultimi secondi di gara 7 delle finali di conference del 1965.

«He stole the ball, he stole the ball, Johnny Havlicek stole the ball!».

Molto probabilmente Popovich vede in John Havlicek il giocatore che da giovane sognava di diventare, e come allenatore lo considera l’esempio a cui i suoi giocatori dovrebbero ispirarsi. Quattro anni fa, dopo trent’anni di ricerche, sembra che Pop abbia finalmente trovato il suo Havlicek: le statistiche di Kawhi Leonard degli ultime due anni e mezzo somigliano in modo impressionante a quelle dell’ex stella dei Celtics. Come Havlicek a Boston cinquant’anni fa, Leonard ha trasmesso nuova linfa vitale a una squadra logora, e senza dubbio non esiste un giocatore più popovichiano—disciplinato, tenace, altruista, silenzioso, riservato—che possa prendere in mano la dinastia Spurs una volta finita l’era di Tim Duncan.

L’inventore della globalizzazione

Se l’Indiana l’aveva trasformato in un uomo, il periodo all’Air Force Academy—e quello successivo a girare il mondo come ufficiale d’intelligence—servirono invece ad allargare i suoi orizzonti. Trovare informazioni su Popovich è già un lavoro difficile in partenza, figurarsi fare luce sul periodo in cui è stato una spia durante la Guerra Fredda. Ma è facile immaginare che per un ragazzo introverso che fino a quel momento aveva sempre vissuto tra le quattro mura dell’Indiana, trasferirsi in Colorado per frequentare l’accademia e poi visitare l’Unione Sovietica, l’America Latina e il Medio Oriente abbia stravolto la sua visione del mondo—e anche del basket.

All’accademia diventò il miglior marcatore durante il suo anno da senior. In quel periodo non perse i contatti con Merrillville: ogni estate andava a bussare alla porta di casa di Jim Vermillion, suo ex assistente allenatore al liceo, e lo costringeva a farsi aprire la porta della palestra per andarsi ad allenare mentre il resto della squadra era in vacanza. Vermillion lo accompagnava in palestra e se ne stava a bordo campo a guardare Popovich che si autoinfliggeva allenamenti massacranti: «Niente palla, solo movimenti difensivi e tutto da solo. Dedizione pura». Nel 1970 Pop si diplomò in studi sovietici e diventò a tutti gli effetti un ufficiale dell’aeronautica. Come primo incarico fu mandato a Sunnyvale, nella Silicon Valley, nell’ambito di un progetto top secret che riguardava la supervisione dei progetti spaziali dell’esercito. Poi, nel 1972, fu nominato capitano della squadra delle forze armate che sarebbe andata in Unione Sovietica per giocare il campionato dell'Amateur Athletic Union. Popovich e compagni arrivarono a Mosca ad aprile di quell’anno, quando gli Stati Uniti erano ancora impantanati in Vietnam e la diffidenza reciproca tra Washington e Mosca era ai massimi storici. I racconti di Popovich su quei giorni ricordano le scene degli allenamenti di Rocky Balboa in Rocky IV: «Ovunque andassi, ogni volta che mi guardavo intorno vedevo un tizio che mi seguiva, a prescindere da dove fossi diretto: nella mia stanza d’albergo, nella sala da pranzo dell’hotel, per strada». A Praga i borsoni di tutti i giocatori furono perquisiti: qualcuno aveva portato una copia di Playboy, che fu immediatamente confiscata. Popovich e compagni giocarono anche a Kiev, a Vilnius, a Tiblisi e a Tallin.

L’incarico successivo portò il 24enne ufficiale Popovich a Diyarbakir, nella Turchia orientale a pochi chilometri dal confine siriano. Ultimamente la città è ricomparsa sulle cronache internazionali dopo essere stata invasa dai jihadisti dello Stato islamico e per un attentato durante una manifestazione filocurda che ha causato quattro morti, ma durante la Guerra Fredda era uno degli avamposti più importanti usati della NATO per tenere d’occhio il Medio Oriente e vigilare sui sistemi missilistici sovietici. Popovich ha raccontato che mentre scendeva le scale dell’aereo che l’aveva portato alla base si vide correre incontro un uomo in divisa che non aveva mai visto prima: «Urlava dalla gioia e mi abbracciava. Non capivo cosa stesse succedendo. Poi ho capito che era il tenente che stavo per sostituire». Pensò che non doveva essere un buon segno, ma non ci mise molto ad abituarsi alla nuova situazione. «Durante il mio anno a Diyarbakir ho avuto la possibilità di conoscere le persone più ospitali e disponibili del mondo». Le regole della base vietavano ai militari di socializzare con la gente del posto, ma per Popovich l’idea di immergersi in un mondo così diverso dal suo era troppo stimolante per lasciarsela sfuggire ubbidendo agli ordini. «Ogni volta che andavo al mercato c’era qualcuno che mi invitava nel suo negozio, a bere un tè, a volte mi invitavano anche a casa per cena. Una volta accettai l’invito di un uomo anziano. Siamo andati nella sua piccola casa e una volta entrati mi sono accorto che non c’era neanche un mobile. I suoi figli stavano giocando sul tappeto. Non dimenticherò mai l’ospitalità di quella famiglia così povera».

È facile intuire l’influenza che queste esperienze hanno avuto sul modo in cui i San Antonio Spurs sono stati costruiti. Popovich fu assunto come assistente allenatore alla fine del 1988, subito dopo le Olimpiadi di Seoul, a cui gli Stati Uniti si erano presentati con una squadra imbottita di giocatori universitari e si erano dovuti accontentare del bronzo dietro Unione Sovietica e Jugoslavia. Meno di un anno dopo il muro di Berlino sarebbe crollato e si cominciava a intravedere un mondo diverso, aperto e interconnesso, dove avrebbero prosperato quelli capaci di vedere oltre i confini nazionali. Nella NBA Popovich fu uno dei primi a capirlo, e appena arrivato agli Spurs cercò di convincere la società a rafforzare il settore dello scouting internazionale.

A dire il vero la sua prima scommessa da assistente allenatore fu un totale disastro. Verso la fine del 1989 convinse Larry Brown, suo coach e mentore, a mettere sotto contratto Zarko Paspalj, un’ala piccola jugoslava con un grande tiro, un fisico fuori dalla norma e ottime prospettive di crescita. Ma aveva anche una passione sfrenata per la pizza e le sigarette, e poi nessuno gli aveva mai veramente spiegato che nel basket bisogna anche difendere. Oggi Popovich non prenderebbe nemmeno in considerazione l’idea di avere in squadra un giocatore del genere, ma all’epoca era più ingenuo, forse più “umano”, e continuò a credere in Paspalj al punto da attribuire al pregiudizio di Larry Brown verso i giocatori non statunitensi la colpa delle scarse apparizioni del giocatore jugoslavo sul parquet. Credeva così tanto in Paspalj che per un periodo gli diede ospitalità in casa sua. Lo portò anche da un dottore russo che a quanto si diceva era in grado di curare la dipendenza dal fumo con l’ipnosi. Usciti dall’ufficio del medico, Popovich accompagnò il suo protetto, che ancora non parlava una parola di inglese, a prendere un taxi; si avvicinò al finestrino per dare le indicazioni al tassista, poi si girò verso Paspalj, e mentre il taxi partiva fece in tempo a vedere che il ragazzo si stava accendendo una sigaretta.

Nonostante quell’incidente di percorso, negli anni ‘90 gli Spurs pescarono sempre più spesso—e quasi sempre con grande soddisfazione—da altri campionati. La scelta era la diretta conseguenza della mentalità dell’allenatore, ma era anche una risposta pragmatica al fatto che, tolti i colpi di fortuna del 1988 e del 1997, San Antonio non ha mai potuto aspettarsi molto dal Draft. Per puntellare la squadra Pop aveva bisogno di giocatori che fossero maturi dal punto di vista umano e già pronti a livello tecnico. Ed era logico che lo sguardo cadesse sui giocatori di campionati europei e sudamericani, dove l’attenzione si concentra fin da subito sui fondamentali e sul lavoro di squadra e dove i giocatori giovani vengono subito gettati nella mischia. Tiago Splitter, che ha giocato negli Spurs fino all’anno scorso, ha firmato il suo primo contratto da professionista a 15 anni. Tony Parker ha esordito nella Serie A francese a 17 anni e Marco Belinelli in quella italiana a 16—età in cui i giocatori di liceo statunitensi, a meno che non si chiamano LeBron James o Kevin Garnett, hanno davanti ancora almeno quattro o cinque anni prima di entrare in NBA. Manu Ginobili ha lasciato l’Argentina per trasferirsi in un altro continente a 21 anni, la stessa età in cui Popovich si è diplomato all’Air Force Academy e ha cominciato a girare il mondo. Agli Spurs il bagaglio umano conta almeno quanto quello tecnico. E la scrupolosa attenzione che Popovich dedica a capire le caratteristiche umane dei suoi giocatori—o aspiranti tali—è quello che ha permesso agli Spurs di creare squadre compatte e mature, capaci di restare con i piedi per terra dopo una vittoria e soprattutto rimbalzare dopo una sconfitta, anche quella più dolorosa.

È solo un gioco

Su YouTube c’è un’intervista a Popovich fatta da Fabricio Oberto, il centro argentino che ha giocato per gli Spurs tra il 2005 e il 2009. In realtà più che un’intervista è una rimpatriata per ricordare e celebrare i vecchi tempi. Oberto mostra la riverenza e la devozione di un ex studente che torna dal suo professore per ringraziarlo di avergli insegnato tanto, e Popovich sembra a suo agio mentre racconta qualche vecchio aneddoto (Duncan che è stanco di mangiare nei ristoranti italiani, Oberto che segna il canestro più brutto di tutti i tempi) e tira fuori qualche massima da spogliatoio (tra cui il celeberrimo Jacob Riis: «Colpisci la pietra cento volte e per cento volte non succede nulla, poi la colpisci per la 101.esima volta e la pietra si apre». Morale: prima o poi gli sforzi pagano). Verso la fine Oberto chiede al suo ex allenatore di scegliere un personaggio con cui gli piacerebbe chiacchierare per un’ora. Pop ci pensa per qualche secondo, poi dice: «Be’, in realtà purtroppo non è più possibile perché è morto, ma sarebbe sicuramente Christopher Hitchens». Il filmato non mostra la reazione di Oberto, ma è probabile che sia rimasto sorpreso come è successo al sottoscritto.

L’intervista completa.

Hitchens è stato un giornalista, saggista e commentatore britannico. Era un autore prolifico, versatile e molto controverso: ha scritto decine di saggi e centinaia di articoli e niente che non abbia dato vita a dibattiti accesi o fatto arrabbiare qualcuno. Ha lasciato una riserva infinita di citazioni e opinioni scomode su molti argomenti, soprattutto sulla religione (tra cui: Madre Teresa è la «più grande minaccia per la pace nel mondo» e «la religione ha il potere di convincere persone buone a fare cose cattive»). Ma soprattutto—e forse è quello che Popovich apprezza maggiormente di lui—era un uomo appassionato, avido nell’inseguire i suoi interessi, sarcastico, mai disposto a scusarsi per le sue idee e a farsi intrappolare in schemi e comportamenti imposti dall’esterno. A ripensarci la risposta di Pop a Oberto non è poi così sorprendente: in fondo i valori guida di Hitchens erano gli stessi che lui si è sforzato di coltivare in ogni fase della sua vita, ed è quello che ha cercato di trasmettere a tutti i giocatori che ha allenato. Valori che, misti a una fede incondizionata nella disciplina e alla convinzione che in una squadra il rigore sia fondamentale per realizzare un’idea—la sua—lo rendono l’allenatore più abrasivo che esista.

Negli Spurs esiste un modo di dire—creato dallo stesso Popovich—per definire la situazione in cui l’allenatore annienta psicologicamente un giocatore di fronte ai suoi compagni: «Go Serbian». «Non è piacevole», ha confidato Kurt Thomas. «Ti fa sentire completamente sgonfio, e depresso», ha detto Avery Johnson. E Sean Elliott: «Se giochi per lui a lungo, prima o poi vieni demolito, non importa come ti chiami. Può succedere in partita, durante la proiezione dei filmati, in allenamento». Non importa come ti chiami. Popovich ha riversato la sua rabbia balcanica su David Robinson, su Tim Duncan, su Manu Ginobili, forse più di tutti su Tony Parker—che poco dopo essere arrivato fu trattato così male da Pop da pensare seriamente di fare le valigie e tornarsene in Francia. Popovich goes serbian semplicemente perché vuole capire su chi può fare affidamento. Superata la prova, con il tempo i giocatori lo capiscono, lo accettano e alla fine non vorrebbero giocare per nessun altro allenatore.

E questo forse è il motivo profondo per cui gli Spurs non muoiono mai—neanche quando perdono il titolo come l’hanno perso nel 2013—ed è quello che li rende diversi da qualsiasi altra grande squadra del passato. Non credo che Pat Riley e Phil Jackson potessero permettersi di annichilire Kareem Abdul Jabbar o Michael Jordan o Kobe Bryant, se non accettano la prospettiva di ritrovarsi senza lavoro. Jackson ha addirittura scritto che era costretto a sfogarsi su Horace Grant quando voleva mandare un messaggio a Jordan e Pippen.

Ma l’errore più grande che si possa fare quando si parla di Pop, e la cosa più sorprendente che si scopre cercando di comprenderlo, è pensare che sia ossessionato dal basket. Quello che succede sul terreno di gioco, gli schemi, i blocchi, le spaziature, gli allenamenti, le vittorie, i titoli, le disfatte, sono un aspetto fondamentale della sua vita—ma acquistano un senso solo all’interno di una visione del mondo molto più ampia. Probabilmente è questo il motivo per Pop può arrivare al campo e tra un allenamento e l’altro chiedere ad Aron Baynes e a Patty Mills degli incendi che hanno colpito i boschi dell’Australia, interessarsi con Ginobili della situazione politica argentina e interpellare Tony Parker sui vini che si producono nella Beaujolais.

Quattro anni fa, durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali statunitensi, Popovich distribuì a ognuno dei giocatori una copia in DVD dell’ultimo dibattito elettorale. I non statunitensi provarono a obiettare che non potendo votare avrebbero dovuto essere esentati. Ma Pop fu irremovibile e tutti furono costretti a sorbirsi due ore di Barack Obama e Mitt Romney che parlavano di riforma sanitaria, riduzione delle tasse e strategie sul Medio Oriente. Sean Marks, che è stato direttore delle basketball operations e oggi è assistente allenatore (e che manco a dirlo è neozelandese) ha spiegato meglio di chiunque altro il senso di tutto questo: «In una squadra così multiculturale i giocatori sono costretti a comunicare, ad andare a cena, a raccontarsi le loro storie. Così imparano per esempio che l’Australia e la Nuova Zelanda sono due paesi diversi. E questo dà a Popovich la possibilità di instaurare un dialogo con ognuno di loro. E di lanciargli un messaggio: "La vita è molto più grande del basket"».

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