Quando il 14 agosto del 1977 sul maxischermo del Giants Stadium, New Jersey, sono apparse quelle cinque cifre, Sette Sette (punto) Sei Nove Uno, e quella scritta, poi, Record of Attendance, Steve Ross deve aver lanciato uno sguardo al campo, dove i suoi Cosmos stavano calpestando allegramente i Fort Lauderdale Strikers (quella partita sarebbe finita 8-3). Deve aver pensato che era fatta, finalmente, il calcio era entrato nei cuori yankee ed era tutto merito suo. Steve Ross era il CEO della Warner Time, un tycoon, come si dice. Fino a dieci anni prima, di calcio non sapeva molto, anzi: quasi niente, però conosceva i mercati. Sapeva distinguere un affare da un flop, un target appetibile da uno che invece no, sapeva come oliare i meccanismi dell’industria dell’intrattenimento. E poi aveva i soldi. Quelli veri.
Ross aveva fondato i New York Cosmos come fossero un giocattolo da mettere nelle mani dei fratelli Ertegün subito dopo aver inglobato nella Warner la loro Atlantic Records, diciamo come fosse una mezza specie di ricompensa. Era il 1970. Avevano dato alla squadra quel nome, Cosmos, perché l'entità sportiva più conosciuta, famosa e autorevole nella Grande Mela del tempo erano i Mets, i Metropolitans, compagine di baseball protagonista nel 1969 di una stagione perfetta. Ma il calcio, secondo le intenzioni di Ross, doveva superare ogni limite conosciuto. Se la gloria era Metropolitana, bisognava erigerla al livello Cosmopolita.
In quei primi anni di vita i Cosmos fecero la spola tra lo Yankee Stadium nel Bronx, dove calpestavano la stessa erba che avevano calpestato Babe Ruth e Joe Di Maggio, e l'Hofstra Stadium a Hempstead. Ma la classe non si trasmette per osmosi dall’erba agli scarpini. A indossare le maglie giallo e verdi erano perlopiù studenti universitari. Il centravanti e indiscusso MVP si chiamava Randy Horton. Kenneth Howard Randolph Horton detto “Randy”. Nel docufilm Once in a lifetime (The Extraordinary story of the New York Cosmos) sembra un Kareem Abdul-Jabbar quarantenne, ripulito e infilato controvoglia nei vestiti di Bill Cosby quando mette i panni di Cliff Robinson (al minuto 16'40'' lo si vede insaccare con una palomita pregevole). Horton agli albori degli anni ’70 studiava alla Rutgers University, e nel tempo libero dai libri lavorava al Jungle Habitat, un parco a tema nel New Jersey, proprietà della Warner. Non si capisce bene se giocare coi Cosmos fosse una postilla del suo contratto con il Jungle Habitat o viceversa. Nel ’72 fu capocannoniere del campionato. Rifiutò pure di trasferirsi ai Queens Park Rangers. Il calcio non era la sua priorità.
Una locandina con Randy Horton.
Il fatto è che in quegli anni parlare di calcio e fare calcio negli States era questione tutta pionieristica, principalmente secondaria, la priorità di nessuno. La NASL (North American Soccer League) era nata nel 1967 dalla fusione di due leghe: la United Soccer Association e la National Professional Soccer League. Nella stagione inaugurale le squadre in competizione erano diciassette; solo trenta i giocatori nordamericani. Il livello (di gioco e competitività) era poco più che amatoriale, gli stadi sempre vuoti. Nel 1969, solo cinque delle diciassette squadre confermarono l’adesione alla NASL. Ma non era l’aspetto agonistico che interessava a Ross quando iscrisse i Cosmos alla lega nel 1971. Sapeva che quello sport senza interruzioni, così denso di significanze per gli spettatori d’oltreoceano, che laggiù faceva uscire pazzi milioni di persone, non era cosa per gli americani. Lo spettacolo, di preciso, dov’è che era? I lustrini? Le cheerleaders? Per alzare l'asticella bisognava innescare un interesse che facesse da volano per le presenze negli stadi. La sua visione era limpida: telecamere che inquadravano l’uomo della strada, mentre varcava i tornelli d’ingresso dopo una fila estenuante e selvaggia, dire: «I’ve never seen a footbal game in my life, ma ora voglio farlo e sono qui a pagare sette dollari per i Cosmos». Cinquantamila spettatori sono cinquantamila obiettivi di marketing (oltre al fatto che sette per cinquantamila per venti ventidue ventiquattro sono già un bel po’ di grana). Merchandising. Infrastrutture. Contratti televisivi e pubblicitari. Ross aveva una visione, un obiettivo e i mezzi. Ross aveva la consapevolezza che le montagne russe, prima di prendere a fare dei gran giri vertiginosi, hanno bisogno in partenza di un’accelerazione impressionante.
Nel 1975 i Cosmos ingaggiarono Pelé, che aveva appena annunciato il suo ritiro dal Santos. Quello di Pelé, prima che il nome di uno dei più grandi calciatori viventi, era un brand da appiccicare su palloni, cartelloni pubblicitari di bevande analcoliche, anche sul dorso di un'acqua di colonia. Per convincerlo ci fu bisogno di sedare una bagarre politica con il governo brasiliano che non voleva farlo giocare per un club straniero – ci volle il coinvolgimento del segretario di stato Kissinger –, di tanti soldi e di una frase, una frase come quella che sussurrò Toye, scrittore e consigliere di Ross, capace di trasformare un Pelé TMA (Titubante Ma Allettato) in un Pelé FFC (Fortemente Fortissimamente Convinto): «Se vai alla Juventus [si parlava di un interessamento della società italiana] potrai vincere un campionato, una coppa; se vieni ai Cosmos, conquisterai una nazione intera». In effetti però ci vollero soprattutto tanti soldi, un contratto multimilionario pieno di cavilli giudiziari - fatto di tanti sotto contratti, addirittura uno da recording artist con la Atlantic Records - che permettesse ai Cosmos, anzi alla Warner, anzi a Ross di possedere Edson Arantes do Nascimento detto Pelé (con la formula “lock, stock and barrel”: tutto, ma proprio tutto, suo).
Toye e Ross non avevano dubbi su cosa significasse l’ingaggio di Pelé. Alla presentazione ufficiale, al Club 21 sulla 52a, “O Rei” venne messo in mostra davanti a trecento giornalisti in una sala chiamata La Sala Della Caccia. Il suo esordio - era il 15 giugno del ’75 - venne trasmesso in diretta dalla CBS; a seguirlo c’erano i broadcast di ventidue paesi. Gli inservienti del Downing Stadium, che tornava a vivere un certo fasto dopo aver fatto da teatro ai trial olimpionici di Jesse Owens nel 1936 e che si trovava a Randall’s Island, un’isoletta dell’East River tra Brooklyn e Manhattan, avevano dipinto di verde gli angoli diserbati del rettangolo di gioco, per dare alle telecamere un maggiore effetto di compattezza. Negli stessi giorni, Ross ingaggiava Dustin Hoffman per farlo recitare in Tutti gli uomini del presidente.
A Steve Ross va riconosciuto il merito di aver forgiato in quella fucina (Stati Uniti anni ’70), un saldo e coriaceo legame tra calcio e cultura pop ben prima che tale assioma venisse mandato a memoria. Il pubblico americano aveva bisogno di specchiarsi nel calcio come al cinema. Paillettes, ingaggi milionari, protagonismo portato all’estremo. Nella NASL - Cosmos in testa, e a seguire tutti gli altri - nessuno puntava ad avere una squadra. L’aspetto tecnico era irrilevante. Erano le individualità a spiccare, proprio per il loro essere un po’ star di Hollywood senza Hollywood intorno, ma con quattro pali e due traverse. Quando nel 1975, a un incontro dei Jets, il pubblico si disinteressò alla partita per accogliere Pelé che aveva fatto capolino sulle gradinate, Ross deve aver pensato che quella era la strada giusta da percorrere. Che a lui non restava che occuparsi del casting e i giocattori avrebbero fatto il resto. Ross aveva scoperto e dato il suo nome al nesso tra calcio e showbiz. I Cosmos divennero presto l’asset della Warner più in vista.
Il debutto di Pelé con la maglia dei Cosmos.
Giorgio Chinaglia venne ingaggiato nel 1976. «Era italiano, parlava un inglese originale, con uno strano accento gallese, segnava un sacco ed era bello. Eccole le sue cose positive», dice di lui Toye in un’intervista a metà di Once in a lifetyme. A Chinaglia non fecero un contratto discografico, nonostante se lo meritasse forse più di Pelé. Chinaglia era perfetto per il calcio americano; più per Ross che per i compagni di squadra e l’allenatore, a dirla tutta. Aveva un ego smisurato - «se non hai ego non andrai lontano», afferma nel docufilm, laconico. Il presidente lo ammirava ai limiti dell’idolatria. Ne indossava i pantaloncini griffati col numero nove durante i party a bordo piscina. Gli offriva i sigari migliori. Un mito che aveva trovato un mito cui votarsi. Indossare la stessa maglia di Pelé non metteva affatto in soggezione "Long John": era un Robert Redford in un film in cui recita pure Dustin Hoffman. Che è sempre Dustin Hoffman. Ma lui è pur sempre Robert Redford. Questione di personalità. (Sembra che in riposta al rimprovero di provare sempre il tiro in porta anziché l’assist, Chinaglia abbia urlato in faccia a “O Rei”: «Se Chinaglia tira da quella posizione è perché Chinaglia è convinto che Chinaglia possa far gol da quella posizione», parlando di se stesso in terza persona.)
E dopo Chinaglia venne Beckenbauer, fresco campione del mondo. E dopo Beckenbauer il brasiliano Carlos Alberto, e così via - in un effetto domino che si propagava dalla East Coast alla West Coast - trovarono un lauto presente nella NASL Gordon Banks, Geoffrey Hurst, Bobby Moore. Eusébio, Rodney Marsh. George Best.
Shep Messing, il portiere celebre per esser stato allontanato dai Cosmos dopo aver posato nudo per un magazine nel '74 - sarebbe poi stato reintegrato solo sotto consiglio di Pelé -, in una frase condensa, secondo me, tutta la verità sull’appeal esercitato dai Cosmos: «Eravamo internazionali, eravamo europei, eravamo fighi, eravamo americani del Bronx, eravamo tutto per tutti». E continua: «Eravamo più grandi degli Yankees e dei Giants. Avevamo i nostri tavoli riservati nei migliori club. Ma non eravamo più decadenti di quanto non lo siano i calciatori oggi».
Ogni città li reclamava. Loro giravano in tour quanto e più dei Rolling Stones. Andy Warhol dipinse Pelé. Lo Studio 54 aveva un tavolo riservato per loro ogni lunedì sera. Attori e cantanti presero a frequentare il Giants Stadium, gli spogliatoi, i tunnel che portavano in campo. Quello che era nato come un circo Barnum di provincia si era pian piano trasformato in un Cirque du Soleil a tre, cinque, dieci piste. A nessuno sembrava possibile che il tendone sarebbe mai potuto crollare. Un giorno l’allenatore Bradley avvicinò uno degli agenti della vigilanza poco prima di un match. Erano negli spogliatoi, che - come ogni volta che i Cosmos giocavano in casa - erano gremiti di persone. «Vedi quel ragazzo laggiù», gli disse: «Quello secco secco coi jeans e la magliettina bianca, quello coi capelli tutti scarruffati, quello col volto scavato laggiù che sembra un drogato, lo vedi quello. Fallo uscire, allontanalo». Era Mick Jagger.
Tutto questo, col calcio, certo c’entrava poco. Infatti i Cosmos non erano una squadra di soccer: all’apice della loro esistenza erano diventati qualcosa di più. Erano un hype.
Pelé con Mick Jagger.
Adesso, se avete avuto la sventura di assistere a uno di quei corsi di Marketing for Dummies, vi avranno senz’altro propinato la storiella del Ciclo Di Vita Del Prodotto (CLP): Introduzione, Sviluppo, Maturità e Declino (question marks, star, cash cow, dog). Nella fase di Introduzione, il massimamente possibile rende ogni Costo altissimo, specie quelli di Investimento e Ingresso nel Mercato. Ne risulta un’appetibilità stratosferica per gli investitori. Un’arietta fresca di Grandi Opportunità. Tanti piccoli punti interrogativi pronti a farsi stirare per esclamativizzarsi.
Nella fase di Crescita le vendite aumentano. I consumatori vengono fidelizzati. Ci si deve differenziare dai concorrenti, che nel frattempo si presentano come veri e propri competitors. I profitti raggiungono il picco massimo, prima di cominciare a calare lentamente.
Ma è la fase di Maturità quella più interessante e imprevedibile. Può durare un tempo lunghissimo, o un niente. Decenni, se il brand è forte. Annate, se non lo è. I consumatori, che conoscono ormai bene il prodotto, si fanno molto esigenti e s’atteggiano da gran conoscitori. Non puoi più raccontargli le storielle. Se sei bravo, puoi mungere la mucca e ricavarne ruscelli di grana.
Dieci anni dopo la sua fondazione, la NASL sembrava una lega in salute: forse il soccer stava davvero diventando uno sport americano. Poteva ora contare su ventiquattro squadre, il suo picco d’adesioni. La media degli spettatori era paragonabile a quella di un piccolo stadio di provincia italiano. La metà dei match in programma aveva copertura televisiva assicurata. Phil Woosnam, il commissionario della NASL, in un’intervista rilasciata a Sports Illustrated, prima che la stagione 1978 iniziasse, dichiarava: «Il calcio è l’unico sport professionistico in crescita. [...] C’è un bilanciamento tra le squadre più forti, e chi ha soldi da investire, e vuole farlo in maniera furba e intelligente, li sta investendo nel calcio». Elton John aveva acquistato una quota dei Los Angeles Aztecs; dietro i Jacksonville Tea Men c’era la Thomas J. Lipton Inc.; i Memphis Rogues avevano instaurato una solida collaborazione con McDonald’s, e i Washington Dips erano proprietà della Madison Square Garden Corporation. Rick Wakeman degli Yes, Peter Frampton e Paul Simon, il Simon di Simon & Garfunkel, avevano acquistato la franchigia per i Philadelphia Fury - regalandogli vieppiù un logo e delle maglie niente male. Nel 1978 avere una squadra di calcio che partecipasse alla NASL era a un tempo il lasciapassare per l’élite finanziaria, una vetrina, una dimostrazione di forza: significava avere le possibilità di sedersi al tavolo dei potenti, economicamente parlando. Era un passaporto per la coolness. E poi i numeri suggerivano che il calcio era un buon investimento. C’era questa mucca ben pasciuta che chiedeva solo d’essere munta.
Il soccer americano credeva già un po’ di più nei propri mezzi. Aveva inventato delle varianti che lo rendessero digeribile e avvincente alla Weltanschauung yankee: in caso di parità era stata introdotta la regola del Sudden Death, quindici minuti da giocarsi finché qualcuno non avesse posto fine all’agonia - un minigame che ha fatto da ispirazione per il successivo Golden Goal della Fifa. Se al termine dei quindici minuti di accanimento terapeutico nessuno l’avesse buttata dentro c’erano gli shootout, rigori in movimento la cui memoria, oltre che nei dintorni di Toronto e Dallas, si perpetua oggi solo a Bari o Reggio Emilia o dovunque venga organizzato il Trofeo Birra Moretti. Sebbene la stagione 1978 nascesse orfana di Pelé, che aveva annunciato il suo ritiro subito dopo aver vinto l’ultimo titolo coi Cosmos, nessuno credeva che le sorti della NASL fossero così vincolate a quelle del suo ambasciatore. «Il 1978 sarà l’annata che determinerà se il calcio professionistico può diventare uno dei grandi sport americani. L’impressione è che lo diventerà», scrive il New Yorker, «perché c’è già un grande rumor: Henry Kissinger sarà nominato presidente della Lega».
Pelé, Chinaglia e uno stadio pieno.
A questo punto della storia entra in gioco James William Guercio detto Jim. Guercio, ma in americano il giochino non funziona poi così bene, era uno che pensava di vederci lungo. Nel corso della sua carriera, fulminante e imprevedibile, aveva dimostrato di avere un bel senso per gli affari, un talento per la musica, gusti estetici esigenti. A vent’anni, agli inizi dei ’70, aveva scritto alcuni testi per Frank Zappa; poi aveva conosciuto dei musicisti che avevano un gruppo chiamato The Big Thing e aveva accettato di produrli e seguirli come manager: nel giro di qualche anno li aveva trasformati nei The Chicago Transit Authority (poi abbreviato in Chicago) producendo undici dei loro dischi, molti dei quali grandi successi commerciali e di critica. Guidato dalle sue sapienti strategie un altro gruppo, i Blood, Sweat and Tears, vinse un Grammy per il miglior album dell’anno. La sua fidanzata si chiamava Lucy Angle, era una modella discretamente famosa - e decisamente bella, a guardar delle foto, che ti viene da pensare fin troppo per le sue possibilità. Nel ’73 l’aveva fatta recitare in un film che s’era preso lo sfizio di dirigere, Electra Glide in Blue: la sua paga come regista era stata di un dollaro. Nel cast aveva coinvolto un po’ tutte le sue conoscenze dell’epoca, Chicago al completo primi tra tutti. Ma soprattutto, Guercio era il proprietario del Caribou Studio, uno studio di registrazione a Nederland, Colorado, sulle Rocky Mountains, nel quale - oltre ai Chicago - registrarono dei dischi gente come Emerson Lake & Palmer, gli Earth Wind & Fire, Rod Stewart, i Beach Boys. Elton John, per dire, al Caribou registrò quella versione di Lucy in the sky with diamonds con John Lennon ai cori.
Nel ’78 Guercio, a trentatré anni, ne aveva piene le tasche della musica. Un litigio furioso coi Chicago aveva determinato il suo allontanamento - pochi giorni dopo il leader del gruppo, Terry Kath, sarebbe morto per un colpo di pistola partitogli accidentalmente. Però voleva rimanere nel mondo dello showbiz, sedersi al tavolo dei potenti, dimostrare che Jim Guercio qualsiasi cosa si mettesse a fare era un successo. Così, insieme a Booth Gardner, che due anni prima aveva già tentato l’avventura calcistica con la comproprietà dei Tacoma Tides, decisero di comprare una delle quattro nuove franchigie deliberate per la NASL. Fu così che nacquero i Caribous of Colorado, di stanza a Denver, Mile High Stadium. «Guercio s’è innamorato del calcio dalla prima partita che ha visto», ancora il New York Times: «E ne ha già viste ben sei».
Per guidare la squadra, la coppia di proprietari scelse Dave Clements. Il nordirlandese si era trasferito negli States dopo una carriera modesta in Inghilterra tra Coventry City e Everton. Era stato ingaggiato dai Cosmos, nei quali aveva giocato durante le stagioni trionfali del ’76 e ’77. Era in campo nella partita d’addio di Pelé. Nel 1978 decise di accettare la sfida della compagine del Colorado e l’incarico pionieristico di allenatore in campo. Se uso il termine pionieristico è perché i Caribous of Colorado, all’era dei pionieri, non provavano vergogna di rimandare sotto molti aspetti. Se oggi i CoC sono largamente googlati è principalmente per via dei dieci secondi di stupita e ironica ammirazione che genera la visione della loro divisa di gioco. Evidentemente lo scopo dei proprietari, e del poliedrico illustratore di copertine di dischi Gary Nichamin che era stato scelto come outfit designer, era quello di condensare in una maglia elementi che ricreassero lo spirito dei rodeo, della Storia, della presenza nelle vallate delle Rocky Mountains dei pellirosse. Ne uscì fuori una delle peggiori divise di gioco di sempre, ispirata a quella particolare camicia da mandriano chiamata yoke, color carne nella parte inferiore, bianca nella parte alta (sulla quale era cucito il numero affiancato da un caribù con tanto di palla tra le corna). Poi c’è la fila di frange che girava tutt’attorno il petto che ricorda molto da vicino i vestimenti d’una star della country music. Completavano il capolavoro dei pantaloncini di satin neri. «La divisa sarà decisamente intrigante», dichiarava lo stesso Nichamin al New Yorker. L’uniforme di rappresentanza, poi, neppure a parlarne: un giubbotto di satin marrone, logo sulle spalle, corredato da un ten-gallon hat a falda larghissima. Qualcosa di terribile. (Gary Nichamin risponde così a chi lo accusa d’aver ideato una maglia decisamente troppo mattacchiona.)
La rosa dei Caribous.
La rosa, fotografata nel suo insieme, genera a un tempo spavento e ammirazione. Abbatte il senso del ridicolo, lo conduce a un livello superiore. Jim Guercio (nella foto sopra è il primo da sinistra, visibilmente sovrappeso) non ha abbandonato i suoi leggendari occhiali a montatura enorme, né l’ottimismo del boaster. Louie Nanchoff, il numero dieci, era al suo primo anno da calciatore pro (qualche anno dopo “Nacho”, insieme al fratello George si sarebbe fatto in quattro per far qualificare la Nazionale Olimpica ai giochi di Mosca del 1980, che però il presidente Carter deciderà di boicottare). Come difensore centrale giocava Matt Bahr. Matt era il figlio di Walter Bahr, in campo nel 1950 in quella storica partita dei Mondiali brasiliani in cui gli USA sconfissero l’Inghilterra. A Matt piaceva il calcio, ma anche il football americano, sport nel quale s’era distinto negli anni universitari. Aveva delle innate skills da place kicker.
La stella incontrastata della squadra era Jomo Sono. Il sudafricano, dopo una stagione nei Cosmos (un po’ il VISA dei calciatori importati in Nordamerica), aveva accettato la sfida di Guercio e Gardner con grande convinzione. Finì per essere il capocannoniere - 8 reti - di una stagione che definire fallimentare è eufemistico. Ultimi classificati nella Central Division della National Conference, 8 vittorie su 30 match, imbattuto - e francamente imbattibile - record negativo della NASL. C’è un video molto raro dei Caribous in azione. Si tratta di una partita contro i Chicago Sting - che indossano delle magliettine gialle e nere da Calabroni - giocata a Denver il 25 giugno 1978. Gli spalti sono praticamente vuoti: lo stadio Mile High aveva una capienza di settantamila spettatori, ce ne saranno sì e no seimila. Uno ogni dieci seggiolini. Desolante. Nell’area di rigore dei Caribous si intravvede la base quattro del diamante di baseball. Negli Sting gioca Dick Advocaat. Le frange delle maglie si agitano assecondando i movimenti dei giocatori in corsa come sussulti ipnotici.
I Caribous of Colorado si sciolsero dopo una sola stagione. La franchigia venne venduta ad Atlanta, dove risorsero gli Chiefs. Certe volte non basta trovarsi una mucca piena di grana nel ranch. Bisogna pure esser sicuri d’aver capito per bene la lezione su com’è che si fa, a mungerla.
Girando nel web si scopre che Mike Grueber, un collezionista che vive in Michigan e possedeva la più grande collezione di maglie da gioco della NASL - più di 200, raccolte in sette anni - quando nel 2005 ha deciso di venderle una per una, la maglia dei Caribous of Colorado gli ha fruttato 2000 dollari. «I giocatori la odiavano, i tifosi la odiavano, nessuno poteva vederle. Erano la cosa più strana che si fosse mai vista. Ma avercene, ne avrei facilmente vendute più d’una, trent’anni dopo.»
La NASL si è sciolta nel 1985 dichiarando fallimento per insostenibilità dei costi: ingaggi troppo elevati, introiti troppo ridotti. Venticinque anni dopo, nel 2009, è stata riesumata. Oggi è considerata la seconda divisione della Lega professionistica statunitense sebbene non esista un meccanismo che regoli le promozioni alla (o retrocessioni dalla) Major League of Soccer, la Prima Divisione. Vi competono otto squadre, molte delle quali hanno raccolto l’eredità delle vecchie partecipanti alla NASL più vintage, come i Tampa Bay Rowdies o gli stessi New York Cosmos, che con Pelé come presidente onorario, Éric Cantona come direttore tecnico e Cobi Jones nello staff sperano di rinverdire i vecchi gloriosi fasti. C'è anche Alessandro Noselli, classe 1980, ex Sassuolo, nel ruolodi “Long John” Chinaglia.
Bei tempi: Pelé col presidente Ford.
Bonus
Randy Horton, il primo bomber dei Cosmos, è da quindici anni deputato del Parlamento di Bermuda, l'isola che gli ha dato i natali. Ha ricoperto le cariche di Ministro dello Sport e degli Affari della Comunità, Ministro dell'Educazione, Ministro della Pubblica Sicurezza. L'8 febbraio 2013 è stato eletto all'unanimità Speaker della House of Assembly.
Jomo Sono ha fondato, al suo ritorno a Johannesburg, una squadra che ha chiamato Jomo Cosmos. Lo stemma della società è praticamente quello dei Cosmos di New York. Svolge al contempo il ruolo di presidente e allenatore. Ha guidato la Nazionale dei Bafana Bafana ai Mondiali del 2002 in Giappone e Corea del Sud.
James William Guercio detto Jim ha continuato l’attività di produttore musicale fin quando il Caribou Ranch non è stato divorato dalle fiamme, in circostanze poco chiare, da un incendio nel 1985. Successivamente si è dedicato all’allevamento di mandrie in Colorado e Minnesota, alla gestione di immobili, all’esplorazione e sfruttamento di giacimenti di petrolio e gas. A fine anni ’80 ha acquistato il canale via cavo CMT, Country Music Television. Vive ancora con la moglie Lucy Angle. È proprietario di una delle più grandi collezioni di lettere e documenti del Generale George Custer. Ha appena messo in vendita uno dei suoi ranch in Montana, una proprietà di 32.000 acri. Un vero affare, casomai v’avanzassero 25 milioni di dollari.
Matt Bahr, dopo due anni spesi giocando al soccer, decise di tentare fortuna nel football. Giocò per i Pittsburgh Steelers, i San Francisco 49ers, i Cleveland Browns prima di approdare ai New York Giants. Disputò il XXV Super Bowl, giocato il 27 Gennaio 1991 a Tampa, Florida. L’inno della cerimonia d’apertura fu cantato da Whitney Houston, le stelle dell’halftime show erano i New Kids on the Block. Gli Stati Uniti erano impegnati nella Guerra del Golfo. Bahr segnò il punto decisivo, quello che regalò la vittoria ai Giants per 20 a 19, con un calcio piazzato all’ultimo quarto.
Steve Ross a inizio anni ’80, in seguito a un’OPA di Rupert Murdoch che ha fatto precipitare molti asset della Warner Time, si è visto costretto a vendere, oltre all’Atari, anche la sussidiaria che controllava i New York Cosmos: la Global Soccer Inc., che venne acquistata da Giorgio Chinaglia. È morto nel 1992, due anni prima che il vero calcio sbarcasse in America con il Mondiale.
Randy Horton, il primo bomber dei Cosmos.