La narrazione di un campionato, specialmente da parte dei protagonisti, è disseminata di frasi fatte. La squadra che soffre nei primi mesi è sempre pronta alla partita della svolta, mentre nel girone di ritorno si appresta a disputare tutte finali. Una competizione che si snoda su nove mesi è l’equivalente calcistico di una maratona, in cui anche le formazioni di vertice - quelle che poi arriveranno alla vittoria finale - vivono per forza di cose momenti di appannamento. Non sempre sono i campioni più attesi a dare l’impulso decisivo per ripartire: ripercorriamo alcune storie di campionati che hanno registrato una svolta per mano di chi, in un’ipotetica notte degli Oscar, avrebbe vinto i premi di miglior attore non protagonista nel film della corsa scudetto della propria squadra. Uomini rimasti a lungo nascosti nelle pieghe del campionato, salvo poi prendersi la scena in silenzio, andando a cambiare il corso della storia in una singola partita, provocando un cambio tattico o salendo in cattedra nei momenti decisivi.
1970-71, Inter campione d’Italia
Giovanni Invernizzi, l’ultimo subentrante vincente
Gli anni ’60 si chiudono con due grosse novità. Fiorentina e Cagliari hanno vinto gli ultimi due campionati e la Nazionale, reduce dall’iconico 4-3 alla Germania e dal secondo posto del Mondiale messicano, ha in Gigi Riva la sua stella più splendente. Il campionato che prende il via il 27 settembre del 1970, giorno della prima messa in onda di un programma rivoluzionario come Novantesimo Minuto, ha proprio nel Cagliari la principale favorita per la vittoria finale. Alla quarta giornata i sardi passeggiano in casa dell’Inter e Riva è il grande protagonista con una doppietta. Sulle pagine del Guerin Sportivo, Gianni Brera regala al numero 11 dei rossoblù il soprannome che ne segnerà la carriera: «Il Cagliari ha infilato e umiliato l’Inter a San Siro, davanti a oltre 70.000 spettatori. Se li è meritati Riva, che qui soprannomino Rombo di Tuono». Il campionato si ferma per dare spazio alle nazionali, durante Italia-Austria la tibia di Riva si spezza in due a causa di un intervento a centrocampo. Per i ragazzi di Scopigno è un colpo da ko, si riparte con un torneo senza padrone.
Gianni Brera conia il soprannome “Rombo di Tuono” dopo questo show del Cagliari a Milano contro l’Inter.
L’Inter non dà il minimo sentore di poter tornare nelle zone alte e perde 3-0 il derby alla quinta giornata. È una crisi partita da lontano, con la clamorosa eliminazione in Coppa Italia nel gironcino estivo contro due squadre di Serie B (Monza e Atalanta). Il tecnico Heriberto Herrera ha anche avuto tempo per ingaggiare un braccio di ferro con la società, riuscendo a estromettere dalla rosa Mario Corso (solo per un brevissimo periodo), Jair e Bedin.
La versione ufficiale è un invito al lavoro differenziato «per favorire la loro preparazione» ma Jair dice altro. «Ci avrebbe puniti perché abbiamo scherzato durante un allenamento». Pur di non lavorare con Herrera nel pomeriggio, i tre accettano di unirsi alla squadra che partecipa al campionato De Martino, torneo riservato ai club di Serie A che vogliono mettere in mostra i prodotti del vivaio e tenere in forma le riserve. «Io andrò via a novembre – è l’anatema di Bedin – ma Heriberto se ne andrà prima di me». Quando Ivanoe Fraizzoli, scottato dal ko nel derby, silura Herrera, la soluzione a portata di mano è nei tecnici delle squadre giovanili.
Gianni Invernizzi è il nuovo allenatore dell’Inter, Nereo Rocco saluta Herrera con una dichiarazione d’altri tempi: «Il mio dispiacere è acuito dal fatto che la causa del licenziamento è stata del mio Milan, che ha vinto il derby». Si respira un’aria pesante, da stagione già ai titoli di coda: «Siamo a un punto in cui non abbiamo nulla da perdere, dobbiamo ripartire da zero», analizza Sandro Mazzola, ritenuto uno dei registi occulti dell’esonero di Herrera. Il gruppo avrebbe preferito l’altro tecnico delle giovanili, Masiero, ma anche Invernizzi può andare bene. Il nuovo allenatore non è convinto, l’incarico inizialmente è ad interim. «Prisco continuava a dirmi che non avevo nulla da perdere. Mi feci mettere per iscritto che, in caso di esonero, sarei tornato nel ruolo da cui ero partito: allenatore della Primavera e responsabile del settore giovanile”. Jair e Bedin tornano con un ruolo di primo piano, l’Inter vince con il Torino e perde a Napoli, dominando. Invernizzi ha un’idea meravigliosa. «Ero in aereo e avevo vicino Facchetti, gli feci vedere una tabella, avevamo sette punti di distacco dal Milan. Giocando come a Napoli avremmo potuto vincere lo scudetto». Non è uomo da alchimie, ma un paio di aggiustamenti tattici si rivelano decisivi. Burgnich schierato libero al posto di Cella, con Bedin dirottato a destra e alternato al giovane Bellugi. Un esperimento reso possibile dalle straordinarie capacità atletiche di Facchetti, un treno chiamato a coprire meravigliosamente la corsia opposta.
La tabella viene mostrata a Fraizzoli da Mazzola e Facchetti già sull’aereo di ritorno da Napoli. «Figlioli miei, che fantasia avete». Sullo sfondo della rimonta nerazzurra, anche la figura di un religioso. «Si chiamava monsignor Spada – ha raccontato Sandro Mazzola – ed era il mio prete. Una sera, visto che Invernizzi aveva l’abitudine di riunirci a cena il venerdì sera, proposi di andare a trovarlo. Ci accolse e in confessione ci disse di dire tutto al Signore, se volevamo vincere. Vincemmo, e divenne il nostro confessore e il nostro talismano». A fine dicembre, dopo aver battuto la Juventus con i gol di Corso e Boninsegna, l’Inter è di nuovo in scia, a -1 dal Cagliari e -3 dalla coppia Milan-Napoli. Il Diavolo impone un ritmo devastante, la partita che cambia gli equilibri del campionato si gioca il 7 marzo del 1971: è il derby.
Corso si concede un’eccezione: per una volta, niente foglia morta.
Ora l’Inter è a -1 e perfeziona l’aggancio alla ventiduesima, battendo in rimonta il Napoli con una doppietta di Boninsegna, capocannoniere a fine stagione. All’intervallo, i nerazzurri sono sotto di un gol e di un uomo per l’espulsione di Burgnich. Mazzola racconta: «Finito il primo tempo mi dirigo nello spogliatoio dell’arbitro Gonella e lo aggredisco verbalmente, dicendogli che così saremmo usciti tutti fritti da San Siro: lui per l’arbitraggio, noi per aver perso partita e scudetto». Al rientro in campo, un rigore generoso rimette l’Inter in carreggiata, con Altafini che chiede la ripetizione del penalty per la rincorsa rallentata di Boninsegna prima della papera di Zoff per il 2-1. Il sorpasso arriva sette giorni più tardi, con il Varese che sbanca San Siro e i nerazzurri che vincono a Catania con un autogol di Bernardis.
Lo scudetto 1970-71 è l’unico trofeo vinto da Invernizzi come allenatore, bruciato sul traguardo della Coppa dei Campioni un anno più tardi dall’imbattibile Ajax prima delle dimissioni nella stagione 1972-73. «Avevo chiesto al presidente di prendere Clerici – avrebbe poi raccontato in una lunga intervista pubblicata sul sito dell’Inter – e mi comprarono Ghio, che colpì con un calcio l’arbitro durante la prima sfida con il Borussia. Il direttore di gara attribuì la colpa a Corso, squalificato per tutto il torneo». Invernizzi è venuto a mancare all’età di 73 anni, nel febbraio del 2005. Più o meno cinque anni dopo, il suo nome è tornato sulle prime pagine dei giornali: l’esaltante rimonta della Roma di Claudio Ranieri, strozzata poi da Pazzini, aveva reso necessario un lavoro di ricerca per scoprire l’ultimo allenatore ad aver vinto un campionato da subentrante.
1978-79, Milan campione d’Italia
De Vecchi, un derby per la stella
La stagione della stella si apre con una delusione di mercato. Il Milan del rampante Felice Colombo vuole un posto in prima fila, mette sul piatto 600 milioni di lire e i cartellini di Turone e Vincenzi. Ferlaino tira sul prezzo, vuole più soldi. Colombo, già svenatosi per far arrivare Novellino dal Perugia, non ne ha. Mister Miliardo resta a Napoli, il Milan ripiega su Chiodi. Il terzo e ultimo arrivo dell’estate 1979 è un cavallo di ritorno, un prodotto del vivaio reduce da un triennio a Monza a farsi le ossa. Walter De Vecchi deve far vedere a tutti di essere all’altezza di una grande squadra. Nils Liedholm è convinto che possa essere lo scudiero di Gianni Rivera, al suo ultimo anno da calciatore. Per la terminologia dell’epoca, De Vecchi è un mediano di spinta. A lui il compito di bilanciare un Milan che, secondo la stampa, rischia di essere troppo offensivo, tra Rivera, Novellino, Chiodi e un terzino di grande attitudine offensiva come Maldera. Liedholm ha inoltre deciso di lanciare un giovanissimo libero, Franco Baresi.
Presenze in Serie A prima della stagione 1978-79: una. Il Diavolo prende immediatamente il comando delle operazioni, lasciando però la vetta della classifica alla sesta della giornata dopo la sconfitta in casa della Juventus per 1-0. Più del gol di Bettega, lascia traccia l’entrata durissima di Marco Tardelli su Gianni Rivera direttamente dal calcio d’inizio.
«Tardelli ha cercato di spaccarmi una gamba ma non c’è riuscito. […] Se noi del Milan avessimo risposto, ci sarebbe scappato il morto», racconta Rivera ai cronisti della carta stampata a fine gara.
Lassù non c’è la Vecchia Signora, né il Vicenza di Paolo Rossi, arrivato secondo nella stagione precedente. Davanti a tutti c’è il Perugia di Ilario Castagner, che ha perso Amenta e Novellino per ragioni di mercato. La squadra è stata ripensata da un futuro pilastro milanista come Silvano Ramaccioni. Milan e Perugia vanno a braccetto, lo scontro diretto della decima giornata frutta agli umbri un punto preziosissimo a San Siro. Sette giorni più tardi arriva il primo gol di De Vecchi.
È una rete pesante, che sblocca dopo tre minuti il match con il Torino: destro rasoterra da fuori area, doppio palo e pallone che oltrepassa la linea. Il Milan torna quindi in testa da solo, anche se il Perugia non conosce sconfitta. Al giro di boa, presi per mano da Maldera, i rossoneri sono a +3 su Bagni e soci. L’ennesimo gioiello del terzino, ad Ascoli, vale il massimo vantaggio in classifica (+4). Alla ventiduesima c’è il derby di ritorno. I ragazzi di Liedholm ci arrivano in affanno, dopo un pari interno con la Juventus. L’Inter controlla la stracittadina e fino all’ottantesimo è avanti di due reti, pur avendo sprecato un calcio di rigore con Altobelli.
L’attacco del servizio di un maestro come Beppe Viola è come sempre folgorante. «Da questa sera, la stella del decimo scudetto milanista è più vicina. Lo stellone, invece, è già arrivato».
Con due destri da lontano, Walter De Vecchi sveste i panni del gregario e diventa il protagonista della giornata più importante del 1979 rossonero. È un ragazzo con la testa sulle spalle, studia legge, ma la doppietta nel derby scudetto gli permette qualche volo pindarico. «Questa grande giornata può significare l’addio all’università, anche se mi mancano una decina di esami e finirà che deciderò comunque di continuare. Il calcio mi dà la gloria, la laurea può offrirmi quel completamento sul piano umano che serve molto all’equilibrio di un atleta».
Il giovane De Vecchi ringrazia anche il veterano Capello, alla prima da titolare proprio nella stracittadina dopo aver rischiato più volte la cessione in estate e in autunno. «Voglio ringraziare Fabio, è stato assai scaltro a toccarmi la palla mentre gli avversari stavano ancora pensando alla barriera. Dopo il secondo gol, mi sentivo di fare cinque chilometri di corsa tanto ero folle di gioia». Respinto l’ultimo assalto del Perugia dei miracoli, prima squadra nella storia dei tornei a girone unico a chiudere il campionato senza sconfitte, al Milan basta la normale amministrazione per centrare il decimo scudetto. Walter De Vecchi, l’avvocato del Diavolo, è ancora un uomo rossonero. Lavora nel settore giovanile e probabilmente, ogni tanto, riguarda la Gazzetta dello Sport del 19 marzo del 1979 col sorriso sulle labbra.
1983-84, Juventus campione d’Italia
Beniamino Vignola, la normalità al potere
«Coniglio, perché non ti impegni?», ruggisce Antonio Sibilia a muso duro. Davanti ha un fantasista esile, che supera a stento il metro e settanta. C’è chi lo ha paragonato a Gianni Rivera, anche se forse più per la pettinatura - «Entrambi portavamo i capelli a spazzola» - che per l’effettiva somiglianza calcistica. Siamo nell’autunno del 1982 e Beniamino Vignola non si sottrae al confronto. «Se non le vado bene, mi dia i soldi che avanzo e mi ceda al miglior offerente». Il miglior offerente, nell’estate del 1983, è la Juventus. Su Vignola c’erano anche Napoli, Fiorentina e Sampdoria, ma «la Juve è un’altra cosa, il sogno di tutti». Arrivato dopo aver ricevuto i complimenti di Boniek e Platini, l’ex mezzala dell’Avellino porta in dote 17 gol nel triennio irpino.
Dichiara di voler prendere una laurea in giurisprudenza e ha dalla sua la passione per l’alta moda. Per la stampa arriva da riserva di lusso ma la stima di Platini incide sulle scelte del Trap, stuzzicato dall’idea di utilizzarlo saltuariamente anche come titolare. La Juve prende subito la vetta ma deve abbandonarla in fretta a causa delle due sconfitte consecutive con Torino e Sampdoria, guidata dall’ex Brady. La Roma, sedotta dal sogno Coppa dei Campioni, non ha l’autorità per recitare da dominatrice come fatto nell’anno precedente. Alla vigilia dello scontro diretto del dicembre ’83, in testa c’è spazio anche per il Verona, preludio al miracolo di Bagnoli della stagione successiva. La Juve soffre, va in svantaggio per una rasoiata di Conti e si rianima grazie alle giocate di Platini e all’ingresso di Vignola.
Nella prima parte di stagione, Vignola è spesso arma usata a gara in corso. Il suo ingresso non basta a piegare la Roma, che trova in extremis un capolavoro del “Santo bomber protettore” di Claudio Amendola in “Vacanze in America”, Roberto Pruzzo.
Beniamino si diploma in gol contro le grandi: prima l’Inter, poi il Milan. Quando Platini ribalta il derby di ritorno con una doppietta (ventunesima giornata), il faldone scudetto pare già riposto in alto nello scaffale: Juventus 32, Roma 27, Fiorentina, Torino e Verona 26. Ma Brady – ancora lui – e la rimonta del Verona riportano la Vecchia Signora con i piedi per terra. La Roma ne approfitta e torna a -2, la Fiorentina è a sole tre lunghezze. I giallorossi steccano ad Ascoli mentre due reti di Scirea rilanciano la Juve, il primo aprile è in programma lo scontro diretto con i viola.
Non c’è Michel Platini, e nel tunnel dove i bianconeri svolgono il riscaldamento prepartita si staglia la figura massiccia di Giampiero Galeazzi. Il giornalista fa presente a Tardelli l’importanza dell’assenza del francese, la risposta di Schizzo è lapidaria: «Gioca Vignola». Gli tocca la numero 10 di Le Roi, la indossa con la serenità di chi sa di avere i compagni dalla sua. Massaro si divora il gol che avrebbe dato un’altra faccia al campionato, la Juve va in forcing e guadagna un rigore pesantissimo al 90’. C’è chi aspetta Cabrini, chi immagina Rossi o Boniek. Ma sul dischetto va Vignola, «unica faccina da bimbo educato tra volti duri e tesi di gente che in campo aveva dato tutto», scrive Bruno Perucca sulle pagine de La Stampa.
Non sbaglia, eliminando la Fiorentina dalla corsa scudetto e poi andandosene in U-21, come se nulla fosse, per piegare l’Albania con un calcio di punizione. Un big match dietro l’altro per la Juventus, che vola all’Olimpico per il duello decisivo con la Roma. Lo 0-0 è vitale per tenere tre lunghezze di vantaggio sui giallorossi, qualche bianconero si vede già con lo scudetto sul petto. Ma dopo neanche un’ora di gioco nella ventisettesima giornata, il campionato sembra clamorosamente riaperto. La Roma sta passeggiando ad Avellino con i gol di Pruzzo e Cerezo, la Juve è sotto in casa contro l’Udinese, vittima di un inatteso uno-due siglato da Massimo Mauro e Zico dopo il pronto vantaggio siglato da Rossi.
Trapattoni, spalle al muro, lascia Boniek negli spogliatoi e inserisce Vignola all’intervallo. Mossa-scudetto.
Vignola, alzatosi dalla panchina, trova immediatamente il pareggio. L’Udinese non molla, ormai la Juve è aggrappata ai numeri della mezz’ala presa dall’Avellino in estate. Nel racconto di Carlo Nesti, «si sostituisce a Platini nel ruolo di primo attore», con la serpentina che vale vittoria e scudetto. Zico accusa l’arbitro - «Ci ha fatto perdere, ha sbagliato davvero molto: su di me c’era un rigore grosso e chiaro, Bonini mi ha messo giù» - mentre Vignola è l’eroe del giorno. «Il ruolo di staffettista era nei programmi, io non contesto nessuno», racconta negli spogliatoi.
A fine anno lo attende il servizio militare, poi il matrimonio con la fidanzata di una vita. Ma la stagione della Juventus ha ancora qualcosa da dire. Paolo Rossi, al 90’ della semifinale di ritorno con il Manchester United, ha spedito i suoi in finale di Coppa delle Coppe. Stavolta Trapattoni non ha dubbi, Vignola parte dall’inizio. A Basilea è lui ad aprire le marcature con un diagonale mancino delizioso. Il Porto pareggia a ridosso della mezz’ora con la complicità di un Tacconi al quale vengono anche sottratte 700.000 lire in albergo durante la finale. Il gol-vittoria arriva in chiusura di primo tempo, ispirato da un geniale lancio di Vignola per Boniek. Nel giorno in cui Enzo Tortora lancia la sua campagna elettorale per il Parlamento europeo, nel bel mezzo dell’assurda vicenda giudiziaria che lo ha visto protagonista, le prime pagine sono per il polacco e per Vignola. Oggi lavora con la moglie, vende cristalli per autoveicoli. «Ho fatto la mia parte, un pezzettino di storia della Juventus, e questo è un orgoglio che non finisce. Poi sono tornato una persona normale». La maglia gialla numero 7 indossata a Basilea non è più a casa sua, ma nel museo della Juve. «Quando vado a Torino faccio un salto e me la guardo. Ci sono persone che scattano una foto davanti al cimelio e poi me la mandano, e io sono felice».
1998-99, Milan campione d’Italia
Guly e Abbiati, in due per una svolta
Le nubi nere che si addensano nella mente di Sebastiano Rossi hanno improvvisamente la meglio su tutto il resto nel momento in cui Hidetoshi Nakata trasforma un rigore inutile al novantesimo di un ordinario Milan-Perugia. Il pallone entra in rete, Bucchi cerca di recuperarlo in fretta per provare un’improbabile rimonta nel finale, Rossi mette al tappeto il malcapitato centravanti con una mossa che avrebbe potuto fruttargli un buon contratto in WWE.
Per i portieri del Milan è stata una stagione difficile anche se siamo solamente alla diciassettesima di campionato. I giornali hanno abbandonato in fretta il carro di Jens Lehmann, trasportato a Milanello dalla Germania con l’aura del portiere appassionato di informatica. I dati immagazzinati sul computer non lo avevano aiutato granché contro l’uragano Batistuta, protagonista a San Siro alla terza di campionato. Mentre il tedesco perdeva fiducia e posto, tornava a splendere la stella di Rossi, con due rigori parati di fila tra Cagliari e Roma. Fino alla follia su Bucchi: con Seba che si dirige verso una squalifica di cinque giornate, non può nemmeno essere ripescato Lehmann, ceduto al Borussia Dortmund nel mercato di gennaio. «Non penso a diventare titolare adesso ma voglio dimostrare quanto valgo: essere il dodicesimo dopo la partenza di Lehmann è stata un’iniezione di fiducia», racconta Christian Abbiati, ventuno anni, alla Gazzetta dello Sport.
Zaccheroni si è voluto tutelare con l’arrivo di Frezzolini ma tocca al giovane del vivaio milanista difendere i pali rossoneri nelle cinque giornate di assenza di Rossi. Il Milan ha già iniziato a cambiare pelle, contro il Perugia è arrivato il primo gol in campionato di un altro elemento che ha vissuto i primi mesi in sordina. Ha un cognome chilometrico, per semplicità sulla maglia ha deciso di far scrivere Guly sopra al numero 24. Ha un passato da attaccante esterno, Zac ha deciso di reimpostarlo quarto di sinistra nel suo 3-4-3 ma ha ancora istinti da punta. «Ha frequentato un corso accelerato da centrocampista – dice il suo allenatore dopo il gol al Perugia – ma deve prendere più confidenza con il ruolo». Andres Guglielminpietro suona la chitarra («Ma soltanto a casa, è meglio per tutti»), ha passaporto italiano per una lontana discendenza piemontese e non è ancora entrato nel cuore dei milanisti: «Mi rilasso facendo un giro in centro, tanto non mi riconoscono». A Bologna, per il Milan, non inizia solamente il girone di ritorno, ma anche l’assalto a uno degli scudetti più insperati degli ultimi trent’anni.
Il pomeriggio in cui nasce lo scudetto milanista. Guly segna su indecisione di Antonioli, il 2-2 matura su un autogollonzo di Magoni, Abbiati salva sul colpo di testa di Andersson e N’Gotty decide la partita su punizione al 90’.
La seconda svolta è quella della ventesima giornata, e non soltanto perché la Fiorentina perde Batistuta per uno strappo nello scontro diretto contro il Diavolo. La Lazio galoppa in rimonta e si accinge a prendere la vetta, nello spogliatoio del Milan cresce la convinzione che il 3-4-3 non vada bene. Ne è convinto anche il padrone del vapore. «Berlusconi venne da me e mi disse che dovevo fare il 10, che tutte quelle palle alte per Bierhoff non erano il calcio che dovevamo praticare. Io risposi che non potevo entrare nel merito con l’allenatore», avrebbe svelato poi Zvonimir Boban. «Ricordo una partita in cui entrai e mi mise sulla destra, ma la prima palla che toccai fu sulla fascia sinistra, perché mi ero rotto di quel gioco assurdo. Mettere Weah a sinistra era un crimine.
Dopo questa partita, Costacurta e Albertini dissero a Zaccheroni che si poteva giocare così. Disse che andava bene, anche se non ci avrebbe portato da nessuna parte». La partita è proprio Fiorentina-Milan, in cui Zorro entra al 57’ al posto di Morfeo. La Lazio vola in testa alla ventiduesima, una settimana più tardi un colpo di testa di Paulo Sergio condanna il Milan alla sconfitta e al quarto posto in classifica. Il Diavolo zoppica, è a -7 quando torna all’Olimpico per affrontare la capolista. Finisce 0-0, fra le proteste biancocelesti per un gol annullato a Vieri dopo neanche un minuto di gioco. Si arriva all’11 aprile 1999, il giorno in cui il campionato rossonero si incanala definitivamente sui binari del tricolore. Il Parma prende a pallonate per un tempo la porta difesa da Abbiati, che non ha mai perso il posto da titolare nonostante la fine della squalifica di Rossi. Proprio il portiere sbaglia su un tiro-cross di Balbo, all’intervallo è 0-1 ma Maldini e Ganz firmano la rimonta. La Lazio si scioglie, nel posticipo serale perde il derby, la testa e l’intera difesa titolare (Negro-Nesta-Mihajlovic-Pancaro), squalificata in blocco alla vigilia della sfida con la Juventus che riapre i giochi, con l’unico sussulto italiano di Henry e una bella dose di complicità di Marchegiani. Restano cinque partite e un punto tra le due contendenti, il Milan pare prossimo a dire addio al sogno al termine di 95 minuti assurdi con la Sampdoria, che in dieci uomini gioca una partita leonina. Sul 2-2, in pieno recupero, Abbiati deve fare gli straordinari su Catè.
All’ultimo respiro, una girata di Ganz colpisce il polso di Castellini e cambia il destino di tre squadre: la Samp, che finirà in B, il Milan, a vele spiegate verso il tricolore, e la Lazio, ormai sull’orlo di una crisi di nervi che si concretizza a Firenze, alla penultima giornata. Vieri risponde a Batistuta ma non basta, il Diavolo è in testa all’ultima curva, forte anche di una vittoria cruciale a Torino contro la Juve. La fotografia di Boban e Weah mano nella mano è uno degli scatti simbolo degli anni ’90 rossoneri, rimane una partita da giocare. Lo stallo viene sbloccato dall’argentino col cognome chilometrico, che nel girone di ritorno ha imparato a presidiare l’intera fascia e che, a fine anno, tornerà a essere un esterno qualunque dopo sei mesi da re. Bierhoff raddoppia, Nakata accorcia su rigore. Ma Abbiati non è Rossi, resta calmo, risponde agli assalti di Rapajc. Per chiudere definitivamente il cerchio, deve entrare di nuovo in scena Bucchi. E lo fa, indovinando il miglior tiro della sua carriera. Abbiati, che aveva iniziato la stagione da terzo portiere, la finisce mettendo la punta delle dita sul pallone che vale uno scudetto. Il Milan dei gregari è campione d’Italia, il Perugia si salva grazie al risultato della Salernitana, la Lazio è beffata sul traguardo. Non sa che la permanenza in A degli umbri tornerà molto utile a distanza di dodici mesi.
1999-00, Lazio campione d’Italia
Diego Pablo Simeone, tutto in 45 giorni
«A otto giornate dalla fine, la Lazio abbandona la corsa scudetto», sentenzia Paolo Bargiggia nell’attacco del servizio per Controcampo. L’Hellas Verona ha appena piegato la resistenza, neanche troppo agguerrita, di una squadra partita per dare l’assalto al tricolore mancato un anno prima e ritrovatasi a nove punti dalla Juventus con otto giornate ancora da giocare. Per paradossale che possa sembrare, pare più alla portata la Champions League, anche se la squadra di Sven Goran Eriksson deve sbancare Stamford Bridge per accedere ai quarti di finale. Ci riesce, aiutata da una punizione fantascientifica di Sinisa Mihajlovic. Ma lo scudetto, quello no. Utopico anche solo pensarlo.
La fiammella la riaccende la doppietta di Shevchenko, la Juventus perde a San Siro mentre la Lazio, senza Nesta e Mihajlovic, fa suo il derby in rimonta. La squadra biancoceleste è profondamente diversa da quella che ha sfiorato il titolo un anno prima e ha vinto la Coppa delle Coppe. L’assetto iper offensivo, con la coppia Vieri-Salas e Mancini utilizzato addirittura da centrale di centrocampo nel 4-4-2, esperimento pensabile e realizzabile solo grazie alla stagione di grazia di Almeyda, è diventato pian piano un ricordo e non solo perché Vieri è stato ceduto all’Inter in cambio di 69 miliardi e Diego Pablo Simeone. Spesso titolare nella prima parte di stagione, l’argentino si è ritrovato gradualmente in fondo alla gerarchia di un centrocampo irripetibile per quantità e qualità, uscendo dal lotto dei titolari dopo il derby di andata, perso malamente dai suoi, durante il quale ha anche dovuto fare i conti con il particolarissimo concetto di pulizia del viso di Antonio Carlos Zago. Da qualche settimana, però, Eriksson ha deciso di tarare la sua Lazio sul 4-5-1. Conceição e Nedved sulle corsie, Almeyda e Simeone a far legna, Veron libero di tenere in mano le redini del gioco. È con questo assetto che i biancocelesti si presentano a Torino per lo scontro diretto che può cambiare il corso della Serie A 1999-00.
«La Lazio sa cosa vuol dire, si chiama “sindrome da rimonta”», è l’illuminato incipit di Alberto D’Aguanno. Per una definizione di eleganza applicata al gioco del calcio, torna utilissima l’inquadratura intorno al quarantesimo secondo del cross di Veron per il gol-partita.
La testa di Diego Pablo Simeone dà nuova luce al finale di stagione. La Lazio, distrutta per il triplo sforzo ravvicinato Chelsea-Roma-Juventus, cede di schianto a Valencia nell’andata dei quarti di Champions League, ma ora è il fronte scudetto a interessare. Il Cholo non aveva mai segnato in campionato, a meno di considerare suo un gol in Lazio-Milan, su corner di Mihajlovic e con pasticcio di Abbiati in uscita. Eriksson lo lascia in panchina contro Perugia – sudatissimo 1-0 firmato da Lombardo – e Fiorentina. A Firenze, ancora una volta, la Lazio rischia di bruciare un campionato. Batistuta riagguanta i biancocelesti con un missile su punizione al 90’, Valeria Cecchi Gori li omaggia con un sobrio gesto dell’ombrello in tribuna. La Juve torna a +5, Nesta e compagni sono anche fuori dalla Champions, il clima è elettrico. Simeone parte in panchina anche a Piacenza, entra al 57’, tre minuti più tardi segna il gol che sblocca lo stallo di una partita complicatissima e vara l’esultanza simbolo del finale di campionato laziale, indicando il numero 14 sulle spalle. Va a segno anche sette giorni più tardi, in una partita con il Venezia che dal pubblico sugli spalti viene vissuta marginalmente: l’orecchio è rivolto alla radiolina e alla doppietta di Cammarata alla Juventus. Con due giornate e soli due punti da recuperare, la Lazio va a Bologna mentre la Vecchia Signora ospita il Parma. Il boato del Dall’Ara al gol del vantaggio di Del Piero sull’altro campo non va giù ai biancocelesti in campo, arenati da fine primo tempo sull’1-1 dopo le reti di Conceição e Beppe Signori. Il capofila della rivolta è ancora una volta il Cholo. Segna sugli sviluppi di un calcio di punizione e mostra al pubblico rossoblù di avere i pantaloncini particolarmente pieni all’altezza del cavallo.
La Lazio vince, per qualche secondo pregusta l’aggancio ai bianconeri, ripresi da un colpo di testa di Cannavaro. Gol annullato dall’arbitro De Santis, capace di scatenare un vespaio non tanto per la decisione in sé, quanto per la dichiarazione rilasciata all’Ansa, smentita dai video delle televisioni. «Ho fischiato prima del colpo di testa di Cannavaro, per l’azione era conclusa lì», afferma sicuro il direttore di gara, ignorando le immagini che lo ritraggono con il fischietto in bocca solo dopo l’incornata del futuro Pallone d’Oro. Il danno è fatto, il Parma reclama con vigore un punto che a conti fatti lo avrebbe proiettato in Champions League, i tifosi della Lazio inscenano il funerale del calcio italiano nel prepartita di Lazio-Reggina, ignari dell’imminente temporale su Perugia.
L’epilogo del Curi, a distanza di diciotto anni, è ancora oggetto di polemiche: da un lato chi accusa Collina per l’eccessiva attesa durante l’intervallo, dall’altro chi ritiene le condizioni del campo perugino praticabili e la decisione del fischietto figlia delle polemiche della settimana precedente. In Lazio-Reggina, comunque, Simeone aveva messo la propria firma, la quinta nei quarantacinque giorni che hanno chiuso uno dei campionati più incredibili di sempre. Per festeggiare fino in fondo, come i 70.000 dell’Olimpico, ha dovuto aspettare più di un’ora, davanti a un tabellone incapace di mostrare il nome del reale marcatore di Perugia-Juventus (Cappioli invece di Calori) e a un mare biancoceleste fatto di persone, bandiere, lacrime e radioline. Altro che funerale.
2000-01, Roma campione d’Italia
Hidetoshi Nakata, tutto in una notte
«Alzati, Hide». Fabio Capello, per definizione, è un duro, uno che non ha paura. Ma i primi 45 minuti di Juventus-Roma devono avergli trasmesso almeno qualche sensazione negativa. Con un avvio da incubo nello scontro diretto che può valere una stagione, i giallorossi rischiano di mandare all’aria sette mesi giocati a un’intensità aliena, trascorsi perennemente in testa alla classifica. La Roma che si è messa in testa l’idea di scucire lo scudetto dalle maglie dei cugini della Lazio è nata in una devastante notte di Coppa Italia. La baby Atalanta di Vavassori chiede una mano al veterano Ganz per rifilare quattro gol ai giallorossi, il nuovo arrivato Walter Adrian Samuel buca clamorosamente in occasione del primo gol e c’è qualcuno che azzarda il nefasto paragone con Roberto Trotta, centrale fortemente voluto da Carlos Bianchi e rapidamente rispedito in Argentina. Mille tifosi attendono Totti e compagni a Trigoria, il clima è avvelenato. Si salvano in pochi, solo i primi a entrare. Tra le vittime più gettonate c’è il malcapitato Gurenko che scoppia in lacrime, volano ululati razzisti nei confronti di Cafu e Assunçao. Capitan Totti, davanti ai giornalisti, se la prende con le accuse post partita di Capello: «Non è piacevole sentire il proprio allenatore che scarica tutte le colpe sulla squadra. Siamo tutti sulla stessa barca». Nel frattempo, la foto dell’aggressione a Zebina fa il giro d’Europa.
Da quel giorno di ordinaria follia era scattata una scintilla. Dei tre grandi acquisti estivi, ai blocchi di partenza del campionato ne mancava uno: Emerson, andato ko a fine agosto. Restavano Samuel e Gabriel Omar Batistuta. Il girone d’andata dell’attaccante argentino era stato un manifesto del suo strapotere fisico e tecnico. Segnava in tutti i modi: di testa, cercando di amputare le mani ai portieri su punizione, di rapina, spezzando il cuore ai suoi ex tifosi, usando un palo del Rigamonti come uomo assist. La doppietta al Parma è forse il punto più alto della parabola di Batistuta in giallorosso: partita ribaltata con due gol-fotocopia e Roma campione d’inverno. Nel momento in cui l’organismo aveva iniziato a chiedere il conto di tanto sforzo, Capello sapeva di poter contare sulla soluzione pronta in panchina: Vincenzo Montella. Passo dopo passo, la Roma aveva preso il largo. E allora per quale motivo, dopo neanche un’ora di Juventus-Roma, il tecnico deve correre ai ripari? Dopo due campionati conclusi in rimonta, Don Fabio non vuole fare la fine di Eriksson prima e Ancelotti poi.
Anche perché a contendergli il tricolore c’è proprio Carletto, voglioso di dimostrare di aver imparato la lezione dell’anno precedente. La Vecchia Signora aveva sprecato diverse chance per rientrare a contatto: dal capolavoro di Baggio a tre minuti dal novantesimo fino all’altro 1-1 interno, con il Lecce del Sindaco Conticchio, degnissimo rappresentante di una nidiata di centrocampisti umili e amanti dell’inserimento in area molto in voga a cavallo tra i due millenni. Voci correlate: Giovanni Tedesco, Renato Olive. Allo scontro diretto, la Juventus arriva a -6, distacco più o meno costante da qualche settimana. La Lazio, in disperata rimonta agli ordini di Zoff dopo aver buttato tre mesi con un Eriksson già annunciato come futuro commissario tecnico dalla Football Association, si è portata addirittura a -4 nel pomeriggio. E dopo sei minuti di Juve-Roma, il punteggio è di 2-0: balletto di Zidane intorno a Cristiano Zanetti prima del cross per Del Piero, letale nello sfruttare l’uscita fuori tempo di Antonioli, e soluzione in prima persona del fuoriclasse francese. Capello, dopo aver già inserito Montella all’intervallo al posto di Delvecchio, si volta e in panchina vede gli occhi di Hidetoshi Nakata.
Sono lì a causa di un colpo di spugna della Corte Federale, che per cercare di attenuare lo scandalo dei passaporti falsi ha dato il via libera alla possibilità di schierare cinque extracomunitari. Per fargli spazio, Capello richiama in panchina un rabbuiato Totti. Lo spartito dell’incontro non cambia, con la Juventus in controllo. A undici minuti dalla fine, Tacchinardi è convinto di essere solo a centrocampo. Non ha sentito arrivare Nakata, che sembra spuntare da una botola. Gli porta via il pallone e guida il break, apparentemente complesso da portare fino in fondo: tre romanisti, cinque juventini. Ma i centrali bianconeri non escono e Hide capisce in fretta che il modo più rapido per portare il pallone dal suo piede fino alle spalle di van der Sar è tirare l’intramontabile scaldabagno sotto l’incrocio dei pali. Ancelotti si spaventa, con il cambio Conte-Del Piero dà ulteriore fiducia a una squadra che non vede l’ora di piazzare il colpo del ko. In uno scenario simile, il 2-2 vorrebbe dire scudetto romanista. Il più impaurito di tutti è van der Sar, che al novantesimo vede il numero 8 giallorosso caricare ancora il destro da fuori area. La non fortunatissima esperienza bianconera dell’olandese tocca il fondo quando prova a distendersi sulla sua sinistra. Il pallone resta lì, galleggia in aria tra il piedone di Montero e quello di Vincenzo Montella, che vale un campionato.
Capello rimane distaccato anche nell’attimo del delirio. Galbiati, suo vice storico, cerca di scuoterlo. Don Fabio pare quasi schifato.
A Hidetoshi Nakata, in fin dei conti, è bastata quella notte. Protagonista in un campionato da comprimario. Si è ritirato a 29 anni, essendo ancora il calciatore asiatico più famoso a livello mondiale. È stato testimonial di diverse aziende, ha investito in prima persona in una fondazione, disegna gioielli ed è un produttore di sakè. Ha smesso presto perché voleva vedere il mondo da Hidetoshi e non più da Nakata. «Quando ero calciatore ho viaggiato molto, ma ho visto solo hotel, stadi, aeroporti. Avevo voglia di partire da solo alla scoperta di paesi e popoli che mi affascinano, di vedere da me il mondo, non attraverso i giornali o la tv». Dichiara di non guardare il calcio, perché non lo ama. «Ancora non capisco come le persone possano essere tifose di calcio. Io non mi diverto a vedere nessuno sport». Nel marasma romano, e negli istanti più critici di uno scontro diretto decisivo, è perfettamente sensato che a far impazzire una tifoseria tra le più umorali del pianeta sia stato uno così.