Scrivere di Larry Bird è una sfida ricca di insidie. Evitare in corso d’opera le pericolose trappole della retorica sportivo/sentimentale è un’impresa rusticana. Si rende quindi necessario un approccio diverso, un po’ rudimentale, ma estremamente realista. La prima parola che viene in mente per descriverlo è povera di appeal, ma sincera come il suo approccio alle cose della vita: ossimoro.
Un ossimoro, secondo i libri, consiste nell’unione sintattica tra due termini contraddittori pronti a convergere in una medesima entità. L’effetto che si ottiene è quello di un paradosso apparente, come ad esempio “lucida follia”. Larry non è un brutto anatroccolo diventato un cigno. Parliamo piuttosto del più incantevole brutto cigno che abbia mai solcato un parquet, preferibilmente quello incrociato e dai rimbalzi irregolari dell’original Boston Garden. Anche l’occhio in fondo, reclama la sua parte.
È un dovere storico/sportivo e un obbligo squisitamente morale spiegare a un 20enne che conosce la NBA contemporanea, globale e facilmente accessibile, la genesi della sua lega cestistica di riferimento. Larry Bird, attraverso la sua rivalità con Magic Johnson, ha cambiato ogni cosa, facendo idealmente da leva per sollevare il mondo della palla a spicchi giusto in tempo per traghettarlo fuori dal suo periodo più buio, terminando il suo cupo Medioevo. L’impatto di Bird sul rinascimento morale e tecnico di uno dei brand più celebri del mondo è comparabile a quello del miglior Leonardo da Vinci. Il fatto che nessuno abbia immaginato o pubblicato una stampa dell’uomo vitruviano con le fattezze del numero 33 è un atto di semplice scortesia. Palese irriconoscenza.
The Hick from French Lick
Siamo alla fine degli anni ‘70. La NBA ha appena assorbito la ABA—lega povera di risorse finanziarie, ma ricca di idee, poi copiate e celebrate ancora oggi—ma non se la passa certamente bene. Le superstar erano ignote alla stragrande maggioranza del paese e il "prodotto" era povero, assolutamente di nicchia, ben poco appetibile e ancor meno vendibile. Le finali vengono trasmesse in differita, l'audience non è neanche misurabile, i soldi sono quello che sono: pochi e mal distribuiti. Seguire lo sviluppo della stagione regolare è un’avventura che richiede un impegno comparabile a quello dell’adepto di una setta, magari priva di un santone col gas nervino, ma lo stesso molto esigente.
Ci sono voci tutt'altro che trascurabili che parlano di un gruppo di giocatori assiduamente intenti a sballi di natura chimica. L’approccio in campo di numerosi protagonisti è parassitario. In una America ancora turbata dalle tensioni sociali e dal progressivo approssimarsi dei diritti civili, molti esponenti della “middle class” storcono il naso davanti a un campionato considerato troppo “afro”. Insomma, si cerca affannosamente un centro di gravità permanente, senza successo.
Serve assolutamente una scossa e questa possono darla solo nuovi personaggi, freschi e positivi. Meglio se più d'uno, meglio ancora se si riuscisse a mettere in piedi una rivalità. Certo, se poi in questa lega a fortissima matrice black si riuscisse anche a proporre un giocatore credibile di pelle bianca, allora sarebbe il massimo.
Neanche a farlo apposta, la partita che cambia la storia della NBA… non è una partita NBA, bensì la famosissima finale NCAA di Salt Lake City del 1979, quando Michigan State regola agevolmente Indiana State. Questa la fredda cronaca. In realtà quella partita è il primo episodio di una interminabile serie di sfide tra Earvin "Magic" Johnson e un ragazzotto biondo dell'Indiana, che ha preso un'università di dimensioni risibili con zero storia cestistica e zero prestigio e l’ha trascinata di peso alla partita più importante del sistema universitario nazionale.
Fate conto di aver stralciato i confini della realtà del basket conosciuto fino a quel momento. Siamo all’impresa da film sportivo. Larry ha 22 anni e mezzo, avrà detto in pubblico sì e no un centinaio di parole (quasi tutte di malavoglia), ma in realtà ha alle spalle una vita con la quale si potrebbero riempire un paio di biografie. Da dove viene questo lungagnone pallido, subito associato a un moderno Tom Sawyer, che all'osservatore distratto appare lento, sgraziato e così lontano dagli standard atletici d'eccellenza, ma che sul parquet dimostra di saper fare tutto quello che serve per portare a casa le partite?
Uno così può nascere solo nel Midwest rurale e povero, quello dei contadinotti che di giorno lavorano e la sera si divertono a tirare nel canestro appeso sul muro del cortile. E la sera diventa notte e la notte diventa mattina. Larry non ha nulla di originale in questo. Famiglia numerosa, papà e mamma che si spaccano la schiena per sfamare i sei figli e loro stessi, in quest’ordine. Una vita aspra e dura come solo a French Lick, Indiana, può essere.
A complicare lo scenario ci sono anche i demoni di papà Joe, reduce della guerra di Corea, che di notte gli mordono l'anima e di giorno lo avvicinano alla bottiglia. La situazione non è sostenibile e mamma Georgia—pietra angolare della famiglia e pazienza se questo significa fare due-tre lavori per tirar su i giovani Bird—decide che è meglio separarsi da quell'uomo generoso, ma problematico. Larry invece non se ne stacca mai realmente, ma quei demoni non danno tregua e un brutto giorno è un fucile a porre fine all’esistenza fin troppo tormentata di Claude Joseph “Joe” Bird.
Larry può reagire in un solo modo, l’unico che conosce: tirando dritto per la sua strada. Se sei nato nell'Indiana, c'è un solo modo per emergere davvero, ed è diventare un giocatore di basket. Larry all'inizio non è niente di che, i suoi fratelli più grandi lo sculacciano senza pietà. Ma lui, dopo le umiliazioni, invece di tornare a casa con loro si ferma al campetto. Tira, e poi tira, e poi tira ancora. Comincia a provare il piacere fisico di chi si accorge che il lavoro sul campo lo rende un giocatore migliore. E diventa bravo, dannatamente bravo. Il talento cresce di pari passo all’etica del lavoro.
Nel giro di un paio di stagioni quello che era uno dei tanti componenti della squadra della Spring Valley High School diventa di gran lunga il miglior giocatore. E finalmente la Dea Bendata restituisce qualcosa ai Bird, sotto forma di centimetri di altezza: nel suo anno da senior a French Lick ha già passato i due metri, e per tutto lo Stato comincia a circolare la voce di questo giocatore totale che ammassa cifre insensate. Larry, a fine anni ‘70, gioca cinque ruoli con eguale efficacia.
Quando ti affermi come talento cestistico in uno Stato come l’Indiana, che approccia la pallacanestro come una religione, il percorso è già tracciato di fronte a te: sei destinato a Bloomington per giocare a Indiana University, alla corte di Bobby Knight—che deve ancora iniziare a lanciare sedie in campo e per il momento si limita a essere uno dei migliori allenatori del college basket. Larry sarà quindi un Hoosier, diventando orgoglio dei Bird e di tutta la comunità di French Lick.
Nel campus di Indiana University, grande quanto una città, Bird si sente ben presto un estraneo. Non familiarizza con nessuno e non riesce a integrarsi per via del suo carattere timido e schivo. Dopo meno di un mese abbandona l’università e torna a French Lick. Mamma Georgia non accetta di buon grado la decisione del figlio, perché vede svanire d'incanto la possibilità di avere successo, sia dal punto di vista sportivo che accademico.
Per alcune settimane non rivolgerà una parola a Larry—il quale, per la verità, non se ne dà troppo peso e, visto che non è il caso di starsene con le mani in mano, si mette a lavorare per la municipalità locale, guidando anche il camion della nettezza urbana. Quella nuova vita semplice, lontana dai riflettori e in compagnia di persone che conosce da anni, in fondo gli piace. Forse ha anche accantonato l'idea di diventare un giocatore. Ma il mondo del basket, fortunatamente, non è ancora pronto a rinunciare.
L’arma segreta del college basket
Bill Hodges è assistente allenatore a Indiana State, un piccolo college sito a Terre Haute, cittadina di 60mila anime decisamente più a misura di Bird. A Bill non manca certo la costanza e prende come un fatto personale la missione di convincere Larry a riconsiderare il basket. Bird non è minimamente interessato e allora Hodges ronza attorno a tutti i familiari, adottando la tattica dello sfinimento. Stanco di questa specie di stalker, Larry cede: dapprima decide di sedersi a un tavolo per parlarne e poi finalmente sceglie di iscriversi a ISU.
Naturalmente il primo anno è quello del “redshirt" (chi cambia college non può giocare per la prima stagione), ma durante gli allenamenti i presenti capiscono subito che i mesi sul furgone della spazzatura non hanno scalfito questo diamante grezzo. Non resta che attendere l'autunno del 1976 per rivedere quel biondone dinoccolato in canotta. Nel frattempo, Hodges viene promosso a capo allenatore.
Indiana State è inserita nella Missouri Valley Conference, un gruppo di cenerentole con pochissima esposizione. Ma i numeri di Bird cominciano a fare capolino sui taccuini degli addetti ai lavori. Il primo anno è da 32.8 punti e 13 rimbalzi, con una comparsata al NIT. Nel secondo “scende” a 30 & 11 perché il livello degli avversari si alza, ma contestualmente ISU comincia a entrare nei ranking nazionali, sempre e soprattutto grazie al biondo.
Sports Illustrated lo mette addirittura in copertina con il titolo: "College Basketball's Secret Weapon". Ancora non possiamo saperlo, ma l'immagine di Bird e di due cheerleader con il dito davanti alla bocca diventerà un classico e vanterà anche qualche imitazione (Doug McDermott di Creighton, college guarda caso della stessa conference di Indiana State, è l'esempio più recente).
Il terzo anno di gioco, l’ultimo dei quattro al college, è leggendario. Ma nel frattempo è successo qualcosa—qualcosa di nessun significato immediato, ma di enorme impatto per il futuro del figlio dell'Indiana. Il plenipotenziario dei Boston Celtics, Red Auerbach, ha deciso di investire su di lui la sesta scelta assoluta del Draft 1978. Auerbach sa già che Bird vuole fare anche l'ultimo anno al college, ma questo non lo scoraggia: un tentativo per convincerlo a passare pro sin da subito lo fa e anche se viene prevedibilmente respinto con perdite, trascorre l'intera stagione 1978-79 nella surreale condizione di vedere una delle peggiori edizioni dei Celtics ogni epoca mentre il suo futuro rookie impazza in NCAA.
Già, perché il biondo ormai è una delle star più riconoscibili del panorama universitario americano, ma nessuno può immaginare quello che succederà durante la stagione. Bird gioca a livelli paranormali, fa tutto quello che serve alla sua squadra per vincere e di fatto respinge ripetutamente la sconfitta al mittente, mantenendo imbattuta Indiana State per le prime 33 gare. Il college di Terre Haute, che inizia la stagione lontano dalle teste di serie, scala progressivamente i ranking fino a issarsi in vetta a febbraio. Non mollerà più quella posizione neanche dopo la sconfitta in finale contro Michigan State—squadra con più tradizione, più cultura cestistica, roster più profondo e, soprattutto, l'unico giocatore in grado di guardare negli occhi Larry e di sostenerne lo sguardo.
Su questa partita è stato scritto anche un libro, When March Went Mad di Seth Davis.
Magic Johnson in quella finale gioca meglio di Bird, si appoggia a compagni migliori e si porta a casa il trofeo. A Larry non restano che i premi individuali, una consolazione che certamente non lo appaga. Ma è già ora di pensare a diventare un giocatore professionista, di andare a vedere cosa sono questi Boston Celtics, una franchigia della quale non sa granché.
Intervallo
Un aneddoto che definisca il soggetto? Provate con questo. Estate 1979, anticamera della stagione da rookie. Larry (per una volta) non è al campetto a scaldare mani e retina, ma si sta divertendo con gli amici in una partita di softball. Palla bassa, e l’esterno più alto presente al campo si lancia per recuperare la pallina. Qualcosa però non va per il verso giusto e la mano destra finisce sotto il corpo. Quando riemerge, la scena è agghiacciante: il dito indice è completamente lussato, in una posizione innaturale e particolarmente dolorosa. Naturalmente stiamo parlando di Larry Bird, un mammifero particolare. Il primo pensiero non è al dolore, ma al fatto che la destra è la mano con cui tira e con cui ha appena firmato il contratto più alto della storia NBA per un rookie (5 anni a 3.25 milioni di dollari). Dato che deve ancora giocare una partita, i cavoli potrebbero farsi assai amari.
Bird decide di non dire nulla a nessuno, meno che mai ad Auerbach. Nel silenzio dei suoi pensieri, contempla anche la possibilità di diventare completamente mancino. Dopo qualche giorno, smaltito il dolore dell’infortunio, va al campetto e si rende conto che il dito, che esteticamente fa schifo, non gli impedisce una meccanica accettabile e dei risultati decenti per il suo personalissimo standard, pur continuando a lavorare sulla sinistra per il resto della carriera.
Morale della favola: i bene informati affermano con cognizione di causa che il Larry Bird al college è il tiratore puro più forte della storia. Quello dei pro, solamente un tiratore straordinario. Solamente.
Mappatura cestistica
A questo punto della sua esistenza, Larry Bird è già stato uno straordinario giocatore di college, e ci sono ottime probabilità che avrà una buona, forse ottima carriera tra i pro. Ma Larry ha qualcosa dentro che lo rende un animale diverso dagli altri: ci sono alcune parole, alcuni concetti che scorrono nel suo DNA, c’è qualcosa che lo separa del resto del gruppo.
A volerne fare una mappatura cestistica, Larry non è propriamente un Talento Naturale e Madre Natura non ha di certo scialacquato in esplosività e velocità quando ha creato il biondo. Quello che non gli viene donato in “mezzi atletici”, però, gli viene donato sottoforma di 208 centimetri di scheletro, che in questo sport male non fanno, e soprattutto in dosi più che generose nella scatola cranica. Bird gioca la partita come se il suo cervello l'avesse registrata un paio di giorni prima: sa molto bene quello che succede attorno a lui e, soprattutto, quello che succederà un paio di secondi dopo. Ha occhi ovunque, istinti mai visti, e delle mani che trasformano in realtà quello che la testa ha appena realizzato. Giocare contro di lui, come scriveranno o diranno autorevoli commentatori, trasforma il basket in una partita di scacchi.
Tutto quello che sa, tutto quello che fa sul campo da basket, non è però caduto dal cielo, ma è frutto di ore e ore di allenamento, a partire da quando i suoi fratelli più grandi e i suoi compagni di liceo avevano facilmente la meglio su di lui al campetto e in palestra. Bird non cerca alibi, non accampa scuse: quello che non sa fare, lo prova e lo riprova. Il suo talento più grande è la capacità di provare piacere fisico nell'allenarsi e nel migliorare. E quando diventerà il più bravo del gruppo, invece di sedersi sulla cima della montagna e osservare compiaciuto quanto ottenuto, lavorerà ancora di più, sempre sotto gli occhi dei compagni, che quando vedono il "maschio alfa" tirare il gruppo, non potranno fare altro che seguirne le orme. E questo vale a qualsiasi livello.
Bird è un giocatore totale, sia in senso statistico che nella percezione più istintiva del gioco. Ridefinisce il concetto di ala piccola, trasformandolo di volta in volta in un playmaker aggiunto con doti di passatore straordinarie, in un rimbalzista feroce e—contrariamente a quanto si pensa—in un difensore velenosissimo, sia sulla palla che sull'uomo. Tutto questo nel corpo di uno dei più incredibili realizzatori di tutti i tempi, capace di crivellare la retina senza soluzione di continuità, da qualsiasi posizione.
Quel meraviglioso meccanismo cerebrale che lo rende un giocatore fuori da ogni rotta conosciuta può contare su una qualità supplementare che lo distacca nettamente dalla concorrenza: quando il cronometro sta per scadere, il rendimento sale ancora di un gradino, come il colpo di reni di un velocista sul traguardo. I suoi celebri tiri da fuori—temuti come la peste dai difensori avversari—non hanno sempre percentuali stratosferiche nel corso delle partite (anche perché prende meno di due triple a partita in carriera), ma diventano misteriosamente letali a tempo quasi scaduto.
Il timido trash talker
Nella vita di tutti i giorni Larry è un timido, condizione che probabilmente gli deriva dalle origini e dalle difficoltà nelle quali è nato e cresciuto. Detesta i riflettori e concede interviste con lo stesso piacere con il quale un condannato affronta l'ultimo tratto prima del patibolo. Timido però non significa titubante, o peggio ancora remissivo. Bird è perfettamente conscio delle proprie capacità: i primi mesi di carriera NBA gli servono capire se il suo livello di basket è sufficiente per la lega di quel tempo, ma quando si accorge che i Celtics pendono dalle sue labbra (prima tecnicamente, poi anche emotivamente), apre il gas e non si ferma più. Prima prende il controllo dello spogliatoio— e lo fa con l'esempio e le prodezze sul campo—, poi inizia a governare le partite, gli avversari, i giochi, i time out, tutto.
Il suo trash talking diventa un marchio di fabbrica: esistono aneddoti famosissimi secondo i quali Bird non si fa problemi a sfidare chiunque, salvo poi mantenere con i fatti i proclami appena annunciati. Anche chi non lo ha mai visto giocare "live" credo sappia di quella volta nella quale, prima della gara del tiro da tre punti di un All-Star Weekend, entrò nello spogliatoio domandando ai suoi avversari chi fosse intenzionato ad arrivare secondo quella sera (inutile dire che poi vinse). O di quando spiegò al suo avversario, un giovane e fisicatissimo Xavier McDaniel, dove avrebbe preso la palla e cosa ne avrebbe fatto prima di scagliare il tiro per vincere la gara. Cosa che puntualmente accadde, esattamente come preannunciato. Roba da mandare via di testa tifosi e avversari, per motivi diametralmente opposti.
Maestro del trash talking… e del mantenere quello che promette.
La questione razziale
Parlando della sua ascesa all’interno della lega, è inevitabile citare la questione razziale. Quando arriva nella NBA, la percezione degli spettatori è che ci si trovi di fronte a un grandissimo giocatore bianco da contrapporre alle star di colore. "The Great White Hope" è stato un jingle utilizzatissimo nella boxe di quegli anni, quando nel mondo dei pesi massimi dominati da Ali, Foreman e Frazier, ogni tanto gli organizzatori solleticavano istinti e portafogli dei riccastri finanziatori—non necessariamente paladini dell'integrazione razziale—con pugili bianchi di belle speranze, il cui deretano finiva inevitabilmente appoggiato al ring al primo match di rilievo. È probabile che qualcuno abbia provato lo stesso stratagemma con Larry, contrapponendolo a Magic, a Jabbar, a Julius Erving. Ma con lui non attacca.
Bird non si è mai riconosciuto in questo cliché, neanche quando, nel pieno della carriera, una star come Isiah Thomas ha provato a buttarla sul razziale durante le finali di Conference del 1987 (a dire il vero, più una battuta infelice che un vero e proprio commento serio). Il colore della pelle non lo ha mai interessato: l’unica cosa che gli interessa è avere compagni che capiscano il suo gioco, siano essi pallidi del Minnesota come Kevin McHale o querce d'ebano della Louisiana come “The Chief” Robert Parish. Bianco o nero proprio non gli sembra un argomento interessante e non ha alcun problema a smorzare sul nascere la polemica, facendo fare a Thomas una figura perfino peggiore della famosa rimessa in campo culminata con "Now there’s a steal by Bird!”, momento che deciderà una serie e manderà i Celtics all'ultima finale della sua splendida carriera.
Se vi serve un’azione che definisca la carriera, questa è la scelta più facile.
Padrone del Boston Garden
Infine, è d’obbligo parlare della sua leadership e della mentalità vincente. Bird avrebbe fatto grandi cose ovunque, ma è assai probabile che l'aver sviluppato tutta la sua carriera in una realtà storicamente vincente come i Boston Celtics abbia avuto un impatto enorme sulla sua figura. Larry arriva in un momento molto difficile, con una squadra in totale ricostruzione, ma Red Auerbach è stato coinvolto in tutti i primi 13 titoli a Boston e sa molto bene quello che serve per tornare in alto.
Su Bird ha scommesso fortissimo, scegliendolo nel 1978 pur sapendo perfettamente che non lo avrebbe avuto subito a disposizione. Un azzardo che paga subito dividendi clamorosi il primo anno, con il più grosso miglioramento in una stagione di quei tempi. Il resto lo fa una magata nel Draft del 1980, quando scambia la prima scelta assoluta (l'unica della storia dei Celtics) con Parish e McHale, che formeranno l'asse portante di un decennio, con 5 finali delle quali 3 vinte.
Ma tutto questo sarebbe stato impossibile senza Bird, che guida la squadra, detta i tempi, indica la strada. Diventa presenza fissa nel primo quintetto All-NBA, si trasforma progressivamente da “miglior giocatore bianco” a candidato stabile a MVP della lega. Vince il premio nel 1984, lo bissa nel 1985, ma considera questi onori come un corollario all’unica cosa che conta: i titoli NBA.
Il primo arriva presto, al suo secondo anno. Deve poi attendere l’ultima recita di Doctor J, ma nel 1984 si ripresenta e rivince, dimostrando di essere uno dei fari della lega. È completamente integrato nella Boston Mistique, quella che rende invincibili tutti i biancoverdi che arrivano in finale, meglio se dall’altra parte del campo ci sono gli odiati Los Angeles Lakers.
Quell’anno però sembra essere finalmente giunto il momento della rivincita di Hollywood su Bean Town, perché Magic, Kareem e Worthy sono effettivamente più forti e più talentuosi. Bird però ha altri piani e dopo una pesante sconfitta in gara-3 (2-1 Lakers) mette i suoi spalle al muro, accusandoli di aver giocato come un branco di “fighette”.
La risposta sul campo la dà Kevin McHale, che incravatta un Rambis lanciato a canestro per un fallo che oggi costerebbe 4-5 partite e svariate migliaia di pezzi in verde. Altra epoca.
Gli splendidi aironi del Forum vengono trascinati sul terreno preferito di Larry e dei suoi bisonti in verde e la serie cambia. Ma non ci sono solo le botte, altrimenti sarebbero buoni tutti. I Celtics cominciano ad andare a rimbalzo in attacco in quattro, contestando e inaridendo la fonte primaria dello Showtime, vale a dire i rimbalzi e le aperture in contropiede. La guerra della cavalleria diventa lotta di trincea, e il basket-champagne tipico della West Coast lascia spazio alle lotte in area tipiche della Atlantic. Il resto lo fa gara-7 al Garden, un’arena dove, tra verità e leggenda, i Celtics si prendono tutti i vantaggi, leciti e non, del fattore campo.
L’anno dopo i Lakers sono forti come l’anno precedente, ma hanno aggiunto la rabbia accumulata dopo la sconfitta in finale. Il risultato sarà mandare i Celtics nella storia, ma dalla parte meno gradita dal loro condottiero con il 33. Dopo avere preso un’epica ripassata in gara-1 (148-116, meglio noto come Memorial Day Massacre), i gialloviola si aggrappano al vecchio totem Kareem e in sei partite prendono la storia, i precedenti, la Boston Mistique e la statistica che MAI i Celtics avevano perso una gara decisiva in casa etc., e ne fanno allegramente carta straccia.
In gara-6, i 14.980 del Garden devono perfino vedere Mr. Gancio Cielo uscire dal parquet incrociato con il ditone in alto. I Lakers per la prima volta battono i Celtics in Finale NBA.
Come la prende Larry? Male, probabilmente malissimo. Ma anche stavolta saprà reagire, e caricherà la molla per un altro salto di qualità, l’ultimo. Quello definitivo.
1986: l’allineamento dei pianeti
Una volta al giorno la luna si allinea con la Terra, provocando le maree. Un paio di volte al mese ci si mette anche il sole, e allora la marea si fa un po' più pronunciata. Con frequenze sempre decrescenti, ogni tanto si allineano svariati pianeti, e di solito la cosa interessa prevalentemente aspiranti profeti di sventura, pronti a raccontarci di come il pianeta verrà inghiottito da chissà quale fine.
Nel 1986 il Pianeta Celtics si allinea con sé stesso e produce una delle stagioni più assurdamente irripetibili che la lega con il logo di Jerry West abbia mai visto. Quando ci sei dentro, nella storia, puoi anche non rendertene conto. Ma con il passare degli anni si è capito che quel Brunello di Montalcino del 1986 della Cantina Auerbach merita un delirio di superlativi, nonché un posto di prestigio nella personalissima cantina di ogni cultore di Bacco.
Ma cosa succede di tanto eclatante nella stagione di grazia 1985-86? I Celtics sono reduci dalla sconfitta del 1985 e fin qui non ci sarebbe granché di cui strapparsi le vesti. Ma se sei la franchigia più vincente dello sport americano, ti nutri di personalissime leggende, di primati invalicabili, di un senso di invincibilità che permea tutte le pagine del tuo diario. Bird, MVP delle ultime due stagioni, si mette in testa che forse non basta, che probablmente deve lavorare di più. Chiariamo che sull'etica lavorativa siamo da tempo sul podio della lega, ma ciò nonostante si presenta al training camp ancora più tirato a lucido. Da lì in poi inaugura una mostruosa routine prepartita che prevede la presenza al campo 3 ore prima della gara e un sistema di allenamento che avrebbe fatto la gioia di un istruttore dei marines. Non dice nulla, non chiede nulla ai compagni, ma l'impatto su di essi è devastante. Se il miglior giocatore della tua squadra—e il migliore del pianeta in quel momento—lavora più di tutti per essere pronto alla gara, nessuno può permettersi di fare meno.
A proposito di compagni: Auerbach ha tirato i dadi e ha pensato che il gioco valesse la candela. Ha scambiato Cedric Maxwell per tale William Theodore Walton III, meglio noto come Bill, californiano-della-California, uno che avrebbe potuto essere un bassista di grido in qualche band della Baia (tipo i Grateful Dead, di cui è fan numero 1), ma la mamma lo aveva fatto un filino troppo alto per gli strumenti, i tour bus e le coccole delle groupies. Oltre alla stazza, gli aveva applicato delle mani esagerate per gestire la palla, sia nel gesto di tirare che nel fondamentale del dividerla con gli altri bambini in canotta uguale alla sua. Superstella a UCLA, Padreterno del gioco a Portland, era stato vicino ad abbandonare i progetti di diventare uno dei più forti centri della storia a causa di una sequenza impressionante di problemi fisici a un piede.
Nel 1985 stava benino ai Clippers, aveva giocato 67 partite di regular (suo record personale in quel momento) viaggiando a 10 punti e 9 rimbalzi a sera. La domanda dei fan in biancoverde era: valeva davvero la pena sacrificare un ottimo giocatore, amato dal pubblico, efficace, per un ex supercampione sul viale del tramonto e con un asterisco grande così alla voce "stato di salute"? La risposta dovrebbe essere solo "In Red we trust": Walton esce dal pino per 78 gare di regular season (in due parte in quintetto) e si inserisce nei meccanismi della macchina biancoverde come meglio sarebbe impossibile fare.
Ma come giocano questi Celtics? Facciamo un paragone con il baseball dell'epoca. A Boston ci sono i Red Sox, che fanno tanta strada (non vinceranno, perché Babe Ruth sarà anche morto, ma è ancora incavolato con loro) e la fanno soprattutto grazie a un lanciatore di nome Roger Clemens. Ha un lancio solo e siccome lo chiamano "Rocket" avete capito che non fa partire margherite dal braccio. Ecco, i Celtics sono un lanciatore che ha una fastball tra le prime 5 della storia, una palla curva tra le prime 3 e probabilmente la cutter di Mariano Rivera, ovvero la migliore che si sia mai vista. Ogni volta che giochi contro quei Celtics, sulla lavagna l’assistente allenatore avversario scrive più o meno questo: «Si passano la palla come nessuno».
I Celtics passano magnificamente la palla. Bird, che è classificato come ala piccola, in realtà è una point-forward e, senza tanti giri di parole, il miglior passatore di sempre per quel ruolo. Poi c'è il play istituzionale, Dennis Johnson, che conosce certamente l'arte dello smazzamento e che ha spesso intese telepatiche con il 33. Aggiungete a questo set di mani quelle di Walton, il miglior centro passatore della storia. Un vero schiaffo alla miseria.
Se guardate i filmati dell'epoca, ci sono azioni in cui gli avversari sono letteralmente inceneriti da una sorta di torello cestistico, che si conclude con facili sottomano o tiri presi con l’avversario più vicino a un paio di fusi orari. Nella democrazia ateniese della gestione della boccia, si può serenamente "sopportare" uno come Kevin McHale, che spesso e volentieri è deputato a finalizzare ciò che gli capita in mano.
Rimbalzi e contropiede
I Celtics controllano sistematicamente i tabelloni. Parish e McHale sono eccellenti rimbalzisti e, quando uno dei due si siede, entra Walton che ne tira giù 9 in 24 minuti di utilizzo. Poi c'è sempre il biondo che si diletta nell'arte e anche lui si iscrive con quasi 10 a sera.
Quando prendono il rimbalzo, parte la 4x100. Le apparenze ingannano: sulla carta sono tutti trentenni o più, non c’è alcun atleta di livello, ma la palla corre per loro e creano una marea di contropiedi. Se non ti accoppi in fretta senti solo il vento di quella specie di attaccapanni con la testa che è McHale, che è il più svelto di tutti a correre i 28 metri e chiudere in appoggio, perchè McHale è un rimorchio che va più veloce della motrice e Ainge, DJ e Larry lo trovano con 2-3 passaggi al massimo.
In seconda battuta poi arriva anche "The Chief", che taglia deciso a canestro. Con le mani che ci sono a disposizione, con la difesa a zona che è vietata dal regolamento e contingenta flottaggi e raddoppi, un tagliante per due punti comodi lo si trova in ciabatte e infradito. In alternativa, ci sono sempre i tiri dai 5 metri di cui sopra. In quella stagione Ainge (sopra il 50% dal campo), ma anche Wedman (47%) e Sichting (un assurdo 57%) che si alzano dalla panchina, sono delle sentenze.
Il gioco in post
Siamo negli anni ‘80. Chamberlain e Russell non ci sono più da tempo, ma la lega è piena di grandi big men e la prima regola è di dare la palla dentro, perché la legge non scritta della NBA dice che se non coinvolgi i lunghi in attacco, loro non ti aiuteranno in difesa. Inoltre è proibito difendere a zona, quindi i raddoppi sono regimentati—e farlo contro gente che pesca l’uomo libero così agevolmente è spesso autodistruttivo.
Nei Celtics in post basso ci vanno praticamente tutti (tranne Danny Ainge, che non ha la carrozzeria per farlo) e sono tutti tremendamente efficaci. Palla a McHale e parte un arsenale di finte in post che non ha precedenti, con i difensori che non sanno più che pesci pigliare. Post a "The Chief", che ha un tiro in sospensione poco ortodosso, ma assolutamente da onorare. Dentro da Walton, che pesca tutti i taglianti di questo mondo e anche quelli di qualche pianeta sconosciuto. E poi c'è il magistero di Larry Bird, che è una specie di compilation dei precedenti. Quando mai li ritrovi quattro così nella stessa squadra?
3-point shootout
Il tiro da 3 è stato introdotto da pochi anni, lo si usa in maniera parsimoniosa, si è appena inventata la gara all'All-Star Weekend e pare che sia stata vinta da un tizio dei Celtics, che non si è neanche tolto la sopramaglia durante i primi turni e pare ne abbia messi 11 di fila in finale, più un tiro di tabella con il pallone colorato.
Bird non ama particolarmente la regola del tiro con punto supplementare, ma con il passare della carriera sa adattarsi benino e riconosce subito l'effetto dirompente di una tripla segnata con la partita in bilico. In una squadra con quella circolazione di palla, le opportunità non mancano. Il resto lo fa la sua altezza e la sua meccanica di tiro. Da 2.08 può tirare piedi per terra senza sforzo. Inoltre porta la palla quasi dietro la testa, sulla sua destra, e l'effetto catapulta gli dà un raggio di tiro praticamente infinito, consentendogli anche un'evoluzione personalissima dello "step back jumper" che gli consente di creare ulteriore separazione dal difensore.
Non ortodosso, ma tremendamente efficace.
In caso di finali tirati, palla a Larry
Questo non è uno schema e nemmeno credo che coach KC Jones l’abbia mai disegnato. Tanto non serviva. Nel “clutch”, Bird pretende di avere la palla. Non necessariamente per tirare, ma per creare, perché da sempre fa solo e soltanto quello che serve per vincere. Le statistiche, specie le sue personali, sono insignificanti. Con queste premesse, tutti i compagni sanno che l’arancia è nelle mani migliori e che potrebbe anche toccare anche a loro chiudere, se Larry decidesse che quella è la soluzione migliore per portare a casa il referto buono. Questa, più di ogni altra cosa, è leadership.
Il risultato di tutti questi fattori è una cavalcata trionfale. 67 vittorie con 15 sconfitte, tra cui spicca un curioso 40-1 casalingo. 15-3 nei playoff, 3-0 a Chicago (nonostante in gara-2 «Dio si sia travestito da Jordan»—parole e musica del 33—e ne abbia messi 63), 4-1 ad Atlanta e 4-0 a Milwaukee in Finale di Conference. Ma a impressionare è soprattutto la sensazione di superiorità, la capacità di controllare la gara e, prima o poi, metterla in ghiaccio con parziali come quello che vedete.
Ecco come viene trattata una squadra giovane, atletica, niente affatto sprovveduta dal punto di vista difensivo come gli Atlanta Hawks dell’epoca.
Il resto lo fa il fato. L’apparentemente scontato remake con i Lakers non va in scena perché gli Houston Rockets si arroccano attorno a Olajuwon e Sampson, novelle Twin Towers, e sorprendono i gialloviola in cinque gare, presentandosi al gran ballo. Ma il divario di esperienza e di forza, soprattutto mentale, è evidente: i Celtics sono intoccabili in casa, vincono a Houston in gara-4 e chiudono la pratica in sei gare. Larry Bird è ovunque, il suo marchio su questi playoff è indelebile: li chiude con tre triple doppie, di cui due in finale.
Gara-6 è una di quelle per cui vale la pena prendere il DVD e metterlo in luogo sicuro. Bird chiude con 29 punti, 11 rimbalzi e 12 assist (e all'intervallo è 16+8+8), ma a fare la differenza è l'atteggiamento: il miglior giocatore di quella stagione gioca la gara decisiva come posseduto; in attacco resta lucido mentre in difesa aiuta su qualunque cosa si muova, recupera, tocca, devia, sporca. A pochi secondi dalla fine coach KC Jones svuota la panca, ma lascia a Larry l'onore dell'ultimo a uscire, consentendo all'intero Garden di intonare il canto preferito "Lar-ry, Lar-ry, Lar-ry".
MVP della stagione, MVP delle finali, MVP di tutto. È il momento più alto della sua carriera. Qualche anno dopo, a Bill Simmons dice: «Avrei dovuto smettere in quel momento».
Gara-6, quella del titolo. Larry in difesa gioca free safety. Batte Olajuwon in una palla a 2 (!) e in attacco fate voi.
Il posto nella Storia
Senza i picchi statistici di un Wilt Chamberlain, senza il senso di invincibilità di un Russell o di un Michael Jordan, Larry Bird è a pieno titolo nel ristrettissimo novero delle figure che hanno contribuito a far salire di livello la NBA, a renderla una cosa infinitamente più grande di quello che era. Lui e il suo "gemello" Magic Johnson hanno preso una lega allo sfascio e l'hanno traghettata, attraverso anni di sfide epiche e indimenticabili, verso vette inimmaginabili, consegnandola a Jordan pronta per diventare il prodotto di grande successo che è esploso negli anni ‘90.
Il riconoscimento più grande gli è arrivato a pochi mesi dalla chiusura della carriera, quando è diventato membro del Dream Team del 1992, la più grande squadra sportiva mai assemblata. Non c'è alcun dubbio che quel Bird non fosse in grado di dare a quella Nazionale il contributo che lui stesso avrebbe voluto dare: stiamo parlando di un giocatore di 35 anni con la schiena di un 60enne, che nell'ultima stagione aveva giocato 45 partite e che in certi giorni necessitava di 6 ore di fisioterapia per essere messo in condizione di reggersi in piedi. Per i suoi tifosi fu un autentico supplizio vederlo spesso accanto alla panchina, sdraiato, mentre i compagni andavano a 200 all'ora e trituravano gli avversari. Ma tutti quanti furono felici di avere anche quel Larry Bird, per il rispetto che meritava un giocatore unico.
Rimpianti? Qualcuno c'è. Prima di tutto il fatto che la sua carriera sia stata breve e, per certi aspetti, sia finita molto prima dell'effettivo ritiro. Dopo la stagione 1987-88, Bird dovrà fermarsi per un intero anno a causa di due speroni ossei che gli martoriavano entrambi i tendini d'Achille. E poi la schiena, che comincia a tormentarlo e lo costringe dapprima a una delicata operazione nel 1991 e poi al ritiro definitivo nell'agosto del ‘92, dopo i Giochi di Barcellona. È possibile che anni di giocate al limite, di tuffi per recuperare il pallone sacrificando il proprio corpo, abbiano alla fine presentato il conto sul suo fisico. Larry ha raccontato di quando Artis Gilmore, veterano ai Bulls, suggerì al giovane Bird di preservare il proprio fisico evitando di lanciarsi su qualsiasi cosa si muovesse sul parquet. «Lì per lì gli ho detto che era un pazzo e che quello era il mio stile di gioco. Non ho rimpianti, ma col tempo ho capito il senso del suo consiglio».
Ciò nonostante, è stato bellissimo seguire il percorso di questo fuoriclasse, soprattutto dall’Italia attraverso le telecronache di Dan Peterson. In quei tempi i giovani appassionati di basket si dividevano tra i fan dello Showtime gialloviola e i seguaci del Pride bostoniano. Le opportunità di seguire la NBA erano molto meno di oggi (una partita a settimana, un paio per i playoff, le finali in differita di un giorno) e questo forse ha contribuito a dare a questi campioni un alone di leggenda nostrano.
Ma se qualche clone di Magic si affaccia ogni tanto nella lega, uno specimen come quello del numero 33 era e resta sostanzialmente irripetibile. Per stessa ammissione del grande rivale, non ci sarà mai più un altro Larry Bird. Proprio per questo il suo mito va curato, preservato e lasciato in dote ai più giovani. O ricordato agli inguaribili sentimentali. La Monna Lisa dei giocatori NBA merita un posto speciale anche in compagnia di tanti capolavori, esattamente come succede al Louvre.