Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Tutto Uruguay-Brasile minuto per minuto
08 lug 2024
08 lug 2024
Il quarto di finale della Copa América è stato importante per diversi motivi.
(copertina)
IMAGO / Agencia-MexSport
(copertina) IMAGO / Agencia-MexSport
Dark mode
(ON)

Quando l’arbitro argentino Darío Herrera ha fischiato il triplice fischio, Uruguay e Brasile erano già proiettate da una manciata di minuti alla prospettiva che a decidere l’accesso alla semifinale di Copa América – dove ad attendere l’una o l’altra c’era già la Colombia – sarebbero stati i calci di rigore. Subito dopo intorno alle panchine si creano i capannelli: è il momento di raccogliersi in concentrazione, di un’ultima arringa, di scegliere i tiratori.

Il drappello brasiliano è solido e impenetrabile. Qualcuno parla ai calciatori, ma quel qualcuno non è Dorival Junior. Al centro del gruppo c’è Lucas Silvestre, assistente (e contingentemente figlio) di Dorival Junior, e non l’allenatore in carica della Seleção, disorientato come Joe Biden, che cerca di affacciarsi come un Michael Scott qualsiasi – apparentemente indesiderato – durante una riunione tra dipendenti di The Office: magari per dire la sua. Magari semplicemente per capire cosa sta succedendo.

È una scena che è girata molto, sul web, e che non è eloquente soltanto di una presunta mancanza di leadership del tecnico, che pure sotto il fuoco incrociato – vedremo – si comporterà un po’ come il cagnoletto in quel famoso meme (qualcosa che va di moda, a quanto pare), ma anche e soprattutto di una specie di ammutinamento dei suoi stessi giocatori, un gesto un po’ arrogante o, almeno, una mancanza di rispetto che lo stesso Dorival minimizzerà dicendo «sono settimane che ci prepariamo a questa evenienza dei rigori, non c’era bisogno che parlassimo».

La scena è contundente anche perché, impietosamente, non regge il confronto invece con la riunione della Celeste, dove Marcelo Bielsa – autorevolissimo, concentratissimo – svetta al centro del suo gruppo, prende appunti, imprime direttive, avvolto da una coltre di benevolenza ecumenica che, se ci fossero banchi tutt’attorno, uno ad uno i giocatori della Celeste vi salirebbero su gridando «O Capitano, mio Capitano!».

La forza di Bielsa

Uruguay-Brasile non è stato soltanto il quarto di finale più prestigioso di questa Copa América, perché quella tra le due nazionali è una rivalità – una tradizione – che trascende le contingenze: è stato un clásico, con tutta l’aura che si porta dietro, per decidere il quale non sono bastati novanta minuti, e in fondo quei novanta minuti non erano neppure la parentesi più importante. Partite del genere, prima che sul campo, si vincono fuori, sul terreno da gioco della creazione dell’ambiente adatto, delle motivazioni propellenti.

Il Brasile, sotto questo punto di vista, ha sbagliato tutto ciò che si poteva sbagliare: Raphina, dopo la partita contro la Colombia, ha detto che «l’Uruguay evoca dei bei ricordi per la Seleção», il che significa che, fortunatamente per lui, nessuno gli ha mai fatto vedere questo filmato; poi (ed è per questo che credo nella naiveté, perché Raphinha ha avuto Bielsa come allenatore al Leeds e sa benissimo di cosa stiamo parlando) «so poco del loro tecnico, so che la squadra gioca bene ed è organizzata ma io penso a noi che stiamo crescendo». Andreas Pereira, nella conferenza stampa del giorno prima della partita, ha fatto un passettino in più sul sentiero dell’errore: «il nostro centrocampo è molto buono, giochiamo tutti in Premier, abbiamo una nazionale che in Uruguay se la sognano».

L’Uruguay, evidentemente, non aspettava altro: da un movimento calcistico fondato sulla rivalsa, sulla capacità di resistere in tempi duri ed affermarsi attraverso la sublimazione della forza di volontà, insomma: sulla garra, ci si poteva aspettare qualcosa di diverso?

Il concetto di percezione, di se stessi prima che dell’avversario, nelle fasi preparatorie di questa sfida è stato fondante. Da una parte c’era il Brasile che continuava a percepirsi superpotenza, ma che evidentemente superpotenza ha smesso di esserlo, e che in patria gode di un livello di gradimento bassissimo. Sebbene la provocazione di Ronaldinho – che aveva minacciato di non guardare neppure una partita di una squadra così orrenda – fosse solo, appunto, una provocazione (e gli argentini non hanno perso tempo a ricordargli quanto non si sia perso niente), i presupposti dai quali muoveva hanno dimostrato di essere più che mai evidenti. Critiche sono piovute da Cafù, che se l’è presa con la Premier League (al contrario di Pereira), dal centrocampista campione nel ‘70 Gerson, secondo il quale il centrocampo della Verdeoro è «spazzatura», per il quale il migliore è Paquetá che però vuole solo fare a botte «quindi vai a fare MMA» e per il quale, ancora, Danilo semplicemente «non sa giocare». Lo stesso Danilo che, subito dopo l’esordio con Costa Rica,se l’era presa con i propri tifosi, rei di non supportarlo abbastanza.

Dall’altra parte, invece, Bielsa ha saputo accendere, come si dice da quelle parti, una manija total, un entusiasmo sconsiderato dettato, semplicemente, da una fiducia in se stessi. Da una percezione di sé, e degli avversari, sempre rispettosa: pugnace, se necessario, ma mai sfacciata. Bielsa sapeva, quando ha assunto la carica di CT della Celeste, che a qualcuno non sarebbe andato giù: troppo argentino, troppo fuori dagli schemi, troppo ortodosse nelle sue credenze. Poi, dopo aver sconfitto Brasile e Argentina nelle qualificazioni europee, nel giro di un semestre è arrivato a dire che nonostante non avesse avuto tempo necessario per instillare le sue idee, la qualità e l’atteggiamento dei suoi giocatori, ecco: ci credeva.

Non è un caso allora che il primo gol che non c’è stato davvero, in Uruguay-Brasile, lo abbia segnato proprio lui, Bielsa, in conferenza stampa, quando non si è solo dimostrato estremamente consapevole, ma si è fatto addirittura pervadere dallo spirito di Eduardo Galeano regalando riflessioni molto più importanti di una sfida per la semifinale di una coppa.

La conferenza stampa prima del match è stata una masterclass. Bielsa, che per tutto il tempo è stato a testa bassa, a una particolare domanda di un giornalista brasiliano si è come illuminato: quella che è seguita è stata una lunga lectio magistralis che ha trasceso il calcio, in cui ha anche fotografato lo stato dell’arte di tutto il calcio continentale. «Cosa è successo al povero calcio sudamericano…», ha esordito. Il punto che sostiene Bielsa è che il business, che strappa prestissimo i calciatori sudamericani dal loro continente, finisce per reciderne i legami identitari, oltre che perpetuare le dinamiche di soggiogazione se non altro economica. «A diciassette anni se ne vanno Endrick, l’ala del Palmeiras (si riferisce a Estevão)... ed è un peccato che debba dirlo io, che non riceverò altro che critiche, ora».

Eduardo Galeano, in Chiuso per calcio, scrive: "Il Sud non vende solo braccia, ma anche gambe, gambe d’oro, ai grandi centri stranieri della società dei consumi; i giocatori fanno la conoscenza l’uno dell’altro in aereo. Solo un terzo gioca nel proprio paese; i due terzi restanti sono emigrati".

L’accusa di Bielsa – ancora più entusiasmante se si considera che l’ha lanciata dagli Stati Uniti, nel bel mezzo di una Copa altamente spettacolarizzata – è che il calcio abbia smesso di essere «proprietà popolare». Che i poveri abbiano poca possibilità di accesso alla felicità, perché non dispongono di denaro per comprarla, la felicità. E il calcio è una delle poche cose che mettono tutti in un rapporto «orizzontale». Il grande merito di Bielsa, qui, è stato quello di sprimacciare l’attualità per allargarla, ingrandirla, renderla visibile in un contesto macroscopico, per poi riportarla alla situazione contingente.

Orizzontale, comunque, alla fine si è rivelato anche il rapporto gerarchico tra i suoi e il Brasile, e a partire da questo assunto – da nessuna supposta inferiorità – si è giocato il passaggio del turno.

Com'è andata la partita?

La partita si è tradotta in 95 minuti pervasi da una tensione perenne, una chat di Whatsapp riprodotta a velocità 2x in cui, ogni due messaggi, aleggiava la sensazione che potesse finire in rissa. Se confidando nel genius loci qualcuno ha immaginato che potesse essere sfarzosa e piena di eccessi come una nottata nella Las Vegas Strip si è dovuto presto ricredere. È stato uno scontro farraginoso, a tratti violento, pieno di sudamericanità nel senso charrúa, in cui il metronomo sono stati i falli (41 totali, 26 degli uruguaiani, il numero più alto registrato in una partita di Copa América negli ultimi dieci anni).

Una partita che sembrava una qualsiasi notte tossica a Las Vegas, di quelle che poi all’indomani ti risvegli pieno di lividi anche se non ricordi, precisamente, con chi hai fatto a botte.

Dorival Junior ha lanciato, tra i titolari, Endrick, mettendo sulle spalle di un ragazzo che dovrebbe stare a fare le occupazioni al liceo il peso di trascinare il Brasile. Una mossa che in patria in molti gli chiedevano (Juca Kfouri, uno dei più quotati giornalisti, aveva scritto che "Dorival ha creato una squadra burocratica, in cui non fa mai niente di azzardato, tipo far giocare Endrick").

I risultati sono stati piuttosto modesti: pur rimanendo in campo per tutta la partita (Dorival ha preferito sostituire Raphinha e Rodrygo, ma non lui) è stato abbastanza confusionario, è stato preso di mira da Araujo prima (anticipazione di quello che lo aspetta al Superclásico?) e da Giménez poi (prendetela come un crash test prima di sbarcare in Liga), ha messo a segno un solo tiro (dopo un bello smarcamento spalle alla porta) e un solo passaggio. Sì, esattamente quel passaggio, quello del calcio d’inizio.

Non che l’Uruguay abbia giocato meglio, anzi. Nei primi venti minuti le catene laterali si sono messe in moto solo a tratti, il gioco si è troppo spesso mosso nella zona centrale e che Darwin Núñez non fosse in serata lo si è capito abbastanza presto.

L’xG di 0,90 dell’Uruguay è tutto qua.

L’Uruguay di Bielsa ha semplicemente deciso di fare l’Uruguay e basta, difendendosi strenuamente con un Ugarte aristocratico in rottura e un Valverde instancabile, lasciando al Brasile il possesso di palla e rompendo il gioco con una sequela infinita di falli di fronte alla quale il Brasile, che proprio non riusciva a tirarsi fuori da quella vertigine, ha realizzato di trovarsi in campo contro due avversari: l’Uruguay e l’ombra di se stesso, incapace di spostare l’equilibrio del gioco a suo favore.

Il solo tiro in porta della Celeste è comunque stato più pericoloso dei tre del Brasile (quello di Endrick e due di Raphinha), in un mare malmostoso di imprecisioni (la percentuale di accuratezza dei passaggi a fine partita è stata del 71,9%) in cui il Brasile non è stato in grado di imporsi neppure quando si è trovato in superiorità numerica per più di un quarto d’ora dopo l’espulsione di Nández. A questo punto Bielsa ha sostituito Darwin con De Arrascaeta, aveva già inserito Bentancur per De la Cruz, ha cercato di difendersi chiedendo ai giocatori tecnici inseriti di fare circolazione di palla, trascinandosi con sofferenza, à la uruguaya, fino ai rigori. Rigori che erano stati fatali alla Celeste, peraltro, nelle ultime due edizioni della Copa América, decretandone l’eliminazione.

Fondamentale, in fin dei conti, è stata la prestazione di Valverde. Quel tipo di giocatore che quando c’è da asserragliarsi si asserraglia, che non si tira mai indietro, che è sempre pronto a riorganizzare il gioco mettendoci il cervello, prendendosi la responsabilità. Lo ha fatto per tutta la partita, e anche quando si è trattato di incamminarsi verso il dischetto per primo. Erano diciotto anni che il primo rigore di una sfida ai rigori dell’Uruguay non lo tirasse uno tra Cavani, Forlán o Suárez: una linea genealogica nella quale "el pájaro" non ha avuto tentennamenti nell’inserirsi, portando a compimento il suo compito.

Nelle mistiche dei calci di rigore, i personaggi inattesi sono all’ordine del giorno, nel bene e nel male. Il primo tiro dagli undici metri dei brasiliani è toccato a Eder Militão, che Sergio Rochet ha neutralizzato con personalità, un po’ come aveva fatto anche in partita su Raphinha. Il portiere uruguayano è subito diventato una specie di cosplayer del "Dibu" Martinez, ma con meno estetica fanfarona, anzi al contrario forte anche di una serie di approfondimenti che c’è da intendere siano figli della meticolosità di Bielsa.

Al turno successivo si sono presentati Rodrigo Bentancur e Andreas Pereira, entrambi a segno. Pereira, nella conferenza stampa del giorno prima della partita, si era reso protagonista dell’uscita infelice su come «una nazionale come la nostra in Uruguay se la sognano». Luis Suárez, a fine partita, gli manderà a dire che bisogna parlare con rispetto, perché in fondo al Flamengo Pereira non era che la riserva di Georgian De Arrascaeta. Il cui passaggio al Flamengo, a sua volta, sotto Dorival, non deve essere stato scintillante in termini di rapporti personali a giudicare da come ha evitato il tecnico prima di calciare – in maniera coatta, ma efficace – il suo rigore.

A questo punto siamo sul 3-1. Il momento che può rivelarsi decisivo è quello in cui il neojuventino Douglas Luiz calcia il suo rigore, con una rincorsa neymeresque molto in voga tra i brasiliani, sul palo, mettendo Giménez nella condizione di segnare e chiudere la sfida. Alisson, però, ha respinto il tiro del centrale dell’Atlético, e Martinelli ha rimesso in corsa i suoi, anche se l’abbrivio preso dalla gara era però ormai evidente, negli occhi tanto degli uruguayani quanto dei brasiliani, quando sul dischetto si è presentato Manuel Ugarte.

Dorival Junior ha detto che la Seleção, nonostante l’eliminazione, ha messo in mostra in questa Copa América più aspetti positivi che negativi. Magari non è la maniera migliore di rassicurare i propri tifosi quando sei peraltro attualmente sesto nelle qualificazioni ai Mondiali e fuori dai Giochi Olimpici, ma certo è che il Brasile, con Dorival, ammesso che continuino a considerarlo il loro tecnico, ha trovato una quadra, dalla cintola in giù, che lascia ben sperare sul futuro, sempre a patto che si sistemino le cose davanti, o che – molto più prosaicamente – il calcio più allegro del mondo torni ad essere allegro.

Ugarte, dalla sua, il rigore più importante – finora – della sua carriera non l’ha di certo sbagliato.

L’ha tirato alla sinistra di Alisson, sul lato dove batte il cuore. Che nonostante tutto, nonostante Bielsa, continua ancora ad essere la scintilla che accende quel meccanismo di visione e poesia che è il calcio uruguaiano.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura