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Il fulminante US Open di Emma Raducanu
13 set 2021
Una finale storica.
(articolo)
12 min
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In uno sport in cui la prevedibilità arriva a sfociare nel fatalismo, coltiviamo l’illusione che niente possa più arrivare a sorprenderci. All’improvviso, però, l’impensabile arriva a rompere quell’illusione, nuove facce occupano il nostro campo visuale, nuove storie alimentano il nostro immaginario, e il tennis sembra d’improvviso una cosa nuova. Di colpo, tutta quella prevedibilità, tutto quell’accumulo di già noto, sembra trovare un senso nella sua rottura, e noi ci ritroviamo senza parole. Siamo rimasti senza parole di fronte alla gioventù, alla magia, alla portentosa vitalità di Emma Raudcanu e Leylah Fernandez. Le guardiamo affrontarsi nella finale femminile degli US Open, la prima tra due teenager dal 1999, ed è difficile realizzare quello che sta succedendo. È difficile forse anche per loro, immerse in un sogno, cercando di giocare e di non pensare, perché le due cose sono spesso in contraddizione. Finché Emma Raducanu, forse per la prima volta, commette l’errore di guardarsi da fuori.

Ha 18 anni, è avanti 6-4, 5-3 nella finale degli US Open e deve servire per il match. Se tutto andrà bene, in massimo cinque minuti sarà tutto finito. Nel game precedente però ha già avuto due match point sul servizio della sua avversaria. Se sul primo non avrebbe potuto fare di meglio, nel secondo un dritto d’attacco facile si è fermato a rete, il braccio tutto indolenzito di paura. Mentre il pubblico gridava d’eccitazione, lei ha provato a non ascoltare e ha preso a muovere le braccia in su e in giù, nel tentativo di sciogliere la tensione. Fernandez ha tenuto il servizio, è una lottatrice e contro di lei non può permettersi di dare nulla per scontato. Tutto ciò che vuole se lo deve prendere.

Sono tre settimane che Emma Raducanu gioca un tennis celestiale, un tennis così incredibile che sembra uno scherzo, e ci è riuscita ripetendosi quel motto che avvicina i tennisti ai pazzi: «Un punto alla volta, devo pensare solo un punto alla volta». Ora però non ci riesce; lancia la pallina per la prima di servizio, ed è un lancio sbagliato, troppo vicino al corpo. È troppo tesa. Infine serve, una prima esterna sul rovescio di Fernandez, le torna una palla moscia ma alta, su cui è difficile spingere. Lo scambio ricomincia senza inerzia e poco dopo Fernandez riesce a tirare un dritto vincente lungolinea. Due minuti dopo siamo sul 30-30 e la partita è in bilico fra il Championship point per Raducanu e il break point per Fernandez.

Cercata con un rovescio stretto incrociato, Raducanu sembra volerla finire lì. Si avventa sulla palla e colpisce un dritto forte e incrociato, un tiro che coglie in leggero controtempo la sua avversaria. Fernandez però ha una rapidità eccezionale e si rimette in asse, non si limita a colpire la palla ma la spinge lungolinea di rovescio. Un contro-vincente con fortissime Nadal-vibes, che Fernandez per tutto il torneo ha colpito come fosse la cosa più naturale al mondo. Raducanu dovrebbe semplicemente lasciar andare quella palla e accettare, ma è la finale degli US Open e siamo 30-30; ci si getta con la generosità autolesionista dei 18 anni, e dimenticandosi di camminare su una superficie ruvida e inospitale, percorre l’ultimo mezzo metro che la separa dalla palla con il ginocchio sinistro infilato a terra come la punta di un compasso.

Mentre scivola lascia a terra una riga bianca che da casa ci fa storcere la bocca. Sul suo recupero Fernandez tira un dritto vincente e guadagna la palla break, stringe il pugno e guarda al suo angolo esagitato fino alla follia. Il suo preparatore, sua madre, sua sorella che da tutta la partita la invita a sorridere, arrabbiatissima, e lei, allora, sorride. Dall’altra parte Raducanu è piegata e ha un ginocchio sanguinante. Niente di grave ma c’è sangue che scorre e il gioco deve fermarsi; un medico deve entrare, medicarle la ferita e applicare un cerotto. Tre minuti massimo, ma in un momento del genere possono cambiare tutto.

Fernandez aveva l’inerzia dalla propria parte e di fronte la possibilità di rientrare in partita. Ora Raducanu avrà il tempo di fermarsi e riorganizzare i pensieri; mentre il medico la manipola, ha gli occhi persi nel vuoto, a ricercare quel tipo di calma dispersa nel cosmo che aiuta a giocare meglio. Dall’altra parte Leylah Fernandez, in collasso nervoso, sta litigando con un’ufficiale di gara; secondo lei avrebbero dovuto aspettare la fine del game per l’intervento, ma è il regolamento.

Rientrano in campo e la partita è finita. Fernandez commette subito un errore non forzato, poi ha un’altra palla break, su cui tira un lob troppo corto: Raducanu si arrampica senza riuscire a smashare, ma colpisce comunque una traiettoria abbastanza strana e stretta da risultare vincente. Poi tira due prime contro-intuitive: da destra centrale verso il dritto di Fernandez; da sinistra esterna sempre sul dritto di Fernandez. L’ordine opposto che aveva scelto per tutta la partita. La prima le concede un rovescio d’attacco comodo, la seconda è direttamente un ace. Sentiamo il rumore sordo della racchetta gettata a terra, e poi la vediamo stesa con le mani sul volto.

Ha 18 anni e quello è appena il secondo Slam a cui partecipa. Ha giocato 10 partite, ha vinto 10 partite; ha giocato 20 set, ha vinto 20 set. Solo Mariam Bolkvadze è riuscita a vincere più di 4 game in un singolo set contro di lei. Aveva il biglietto aereo prenotato per la fine delle qualificazioni, lo ha dovuto disdire; aveva l’iscrizione a un torneo da 60 mila dollari per la scorsa settimana, l’ha dovuta cancellare.

È la prima tennista di sempre, tra uomini e donne, a vincere uno Slam da qualificata. Glielo ripetono, mentre ha la coppa in mano e un assegno da due milioni e mezzo in tasca. Ad applaudirla ci sono Oprah Winfrey, Adam Silver, Steve Nash, Tim Henman, e poi, soprattutto, Virginia Wade, ultima britannica a vincere gli US Open, nel 1968, e Billie Jean King, che le consegna la coppa. La leggenda del tennis ha scritto che è «meraviglioso vedere questa generazione vivere il nostro sogno».

Lei sorride, come sempre: non si direbbe umana, se non avesse passato queste due settimane ad alleggerire le circostanze a forza di sorrisi e gentilezza. È un talento molto inglese, e le appartiene. In un momento in cui si discute del diritto di non parlare alla stampa dei tennisti, lei rimbalzava tra un’intervista e l’altra sempre allegra e rilassata, determinata a rendere tutto ciò che la circonda un po’ più piacevole.

Dopo aver abbracciato Leylah Fernandez, rientra in campo per prendersi l’estasi del pubblico, saluta lieve con la mano e fa quel sorriso suo, quello in cui incassa un po’ la testa nelle spalle, come se non potesse smettere di stupirsi di sé stessa, senza però perdere un minimo di consapevolezza di dove è. Ride come una ragazzina che ha fatto qualcosa di straordinario, ma in cuor suo sembra sapere che non è lì per caso né per una fiaba: è lì perché ha un talento eccezionale.

L’avevamo vista a Wimbledon per la prima volta, vestita di bianco con una visiera molto anni 90 sopra i capelli corvini. Era entrata con una wild-card e, immersa nell’entusiasmo febbrile che gli inglesi riservano ai propri sportivi, aveva battuto Diatchenko, Vondrusova e Cirstea senza perdere un set, sempre portandosi la mano alla bocca e sgranando gli occhi. Poi con Tomljanovic si era ritirata sotto 4-6, 0-3, le mancava il respiro, ad altezze in cui l’aria è rarefatta e manca l’ossigeno. Non era pronta e ci chiedevamo quanta strada le mancasse per esserlo.

Prima degli US Open ha giocato altri tre tornei, senza vincerne alcuno: perdendo una volta al primo turno contro Zang e una in finale contro Clara Tauson, giovane prodigio che, a differenza sua, è un po’ che seguiamo da lontano. Poi è arrivata agli US Open e ha vinto senza che le avversarie riuscissero nemmeno ad avvicinarsi al suo livello di gioco. Era numero 338 del mondo prima di Wimbledon, è numero 23 da oggi. C’è da diventare matti a vedere come gioca: la fluidità di tutti i suoi colpi, l’intensità mentale che riesce a mantenere al servizio, la leggerezza con cui si muove per il campo. Ha il talento per le cose che nel tennis sono l’essenza dietro la superficie: il posizionamento sempre aggressivo, il footwork rapido e lieve, il senso d’anticipo con cui taglia le traiettorie. Non c’è niente di superfluo e affettato nel suo gioco.

Le copertine sono tutte per lei, ma non dobbiamo dimenticare Leylah Fernandez, autrice di un torneo altrettanto eccezionale, non all’insegna del dominio ma della lotta. Dalla sua parte di tabellone, Raducanu ha sfruttato l’eliminazione più sorprendente, quella della numero uno Ashleigh Barty, e prima della finale le avversarie più forti che ha sconfitto sono state Maria Sakkari e Belinda Bencic: numero undici, ma da considerare almeno top-3 per momento di forma (doppia medaglia olimpica a Tokyo, oro nel singolare e argento nel doppio).

In confronto a quello fatto da Fernandez è stata una passeggiata. Mentre sugli spalti si moltiplicavano le foglie d’acero, la canadese ha sconfitto tre top-5 - Svitolina, Sabalenka, Osaka - e una plurivincitrice Slam come Angelique Kerber. Lo ha fatto in partite epiche, tutte finite al terzo set, e dalla qualità tennistica impossibile da descrivere. Sono state soprattutto le partite di Fernandez a rendere questi US Open femminili uno dei più bei tornei di tennis dell’ultimo decennio. In ciascuna di queste sfide Fernandez è andata molto vicina a perdere, ed è poi riuscita a trovare l’energia e la lucidità per recuperare situazioni compromesse. Nei momenti decisivi dei match è sempre sembrata lei la veterana: quella più capace di aumentare l’intensità mentale, il livello di gioco, di pescare colpi vincenti inattesi.

Contro Osaka pensavamo fosse soprattutto colpa di un’avversaria mai così fragile, ma oggi siamo costretti a rimettere in prospettiva quella partita. Contro Sabalenka, ha trascinato al burnout definitivo un’avversaria già incline all’autosabotaggio. Sabalenka che gioca un tennis tutto suo, disinteressato alla presenza di un altro essere umano dall’altra parte della rete, preoccupata solo di tirare più forte possibile nell’angolo di campo più occulto. Fernandez l’ha lasciata fare, e poi ha messo in mostra un talento difensivo ferreo, che ha costretto la bielorussa a colpire una volta di più, una volta ancora, fino ad andare in cortocircuito.

Durante la premiazione Raducanu ha detto di sperare di affrontare Fernandez ancora in tante partite e in tante finali, dando voce ai nostri pensieri. La loro finale, nonostante sia finita in due set apparentemente senza storia, ha espresso un livello di gioco altissimo e mozzafiato. Si sono contestate il servizio fin dai primi game, game da 4 o 5 palle break e da 5-10 minuti. Pensavamo che una delle due potesse spezzarsi e lasciarsi andare, e pensavamo che potesse farlo Fernandez. Raducanu è entrata in campo affilata (l’esperienza è davvero un valore?), e con le sensazioni perfette sulla palla, ha cominciato a colpire forte da tutti i lati e ci siamo chiesti quanto avrebbe retto la canadese. Ha sofferto molto, ha perso, ma non si è mai lasciata andare, ha lottato fino alla fine.

Il loro contrasto di stili ha generato scambi esteticamente complessi che abbiamo ancora tutti negli occhi. Raducanu ha dei colpi più puliti e penetranti, è devastante nei cambi di ritmo lungolinea di dritto e nelle risposte incrociate di rovescio: forse il singolo colpo del match, quello con cui ha ottenuto punti distruttivi nell’economia del punteggio. Fernandez ha qualche vincente in meno nelle corde, ha un timing e una pulizia inferiore, ma al contempo ha un gioco più vario e profondo, che forse ha ancora bisogno di tempo per raggiungere la massima efficienza. Ha compiuto 19 anni durante il torneo, il suo corpo deve ancora finire di formarsi. Il gioco di Raducanu è già tatticamente molto maturo: tira forte, ma lasciandosi sempre un certo margine di sicurezza; ama le risposte forti, centrali e profonde, un colpo percentuale di grande efficacia.

Mentalmente però sembrano entrambe di un altro pianeta. Con una concentrazione più astratta Raducanu, più capace di raggiungere quella condizione mentale in cui i colpi filano via da soli; con un’intensità più battagliera Fernandez, capace di esaltarsi nei risvolti più sporchi della partita. Alla fine del suo discorso la canadese ha chiesto di poter dire un’ultima cosa: «Spero di essere forte e resistente come lo sono stati i newyorkesi negli ultimi vent’anni».

La loro rivalità, nel caso, sarebbe anche quella tra due grandi personalità già carismatiche a neanche vent'anni. È difficile ignorare il loro background familiare. Vengono entrambe da famiglie di migranti. Fernandez da genitori emigrati in Canada dall'Ecuador, ha un rapporto molto stretto con suo padre, un ex calciatore trasferitosi a Montreal, che in questa settimana l'ha avvisata: «La fama è traditrice». Raducanu è nata in Canada e si è trasferita a Londra quando aveva due anni; ha madre cinese e padre rumeno, è cresciuta col mito di Li Na e Simona Halep. Dice che sua madre le ha insegnato il valore della disciplina e del lavoro. Vestita elegante, ha poi girato un messaggio di saluti ai tifosi cinesi in un mandarino fluente. Potevamo immaginarlo, ma è stata una sorpresa. È già finita fotografata su Vogue: è giovane, bella e gioca benissimo a tennis. Parla le due lingue più diffuse al mondo e potrebbe penetrare un mercato - quello asiatico - rimasto piuttosto tiepido al fascino di questo sport, anche nella sua epoca d'oro. Oggi l'atleta più pagata al mondo è Naomi Osaka, anche lei con origini asiatiche e capace di interpretare una figura giovane e di rottura molto apprezzata negli Stati Uniti, e in generale più contemporanea. Raducanu però potrebbe riuscire ad attirare sponsor più tradizionali, rispetto a Beats per esempio, e per capire il potenziale economico di quel mondo nel tennis basterebbe guardare il conto in banca di Federer.

Il commento di Judy Murray rileva una verità banale ma profonda: lo sport femminile, più di quello maschile, è una storia di esempi ed eredità.

Per Raducanu sono arrivati anche i complimenti della Regina, che è sicura del fatto che lei e Leylah Fernandez ispireranno la futura generazione di tenniste. La quantità di record battuti da Raducanu è impossibile da ricostruire. Si tratta, semplicemente, di una delle imprese sportive più incredibili degli ultimi anni. Il record più impressionante, forse, è che si tratta della giocatrice che ha avuto bisogno di meno tentativi di partecipazione agli Slam per vincerne uno. Bianca Andreescu, una delle ultime giovani capaci di un exploit, agli US Open del 2019, era comunque alla sua quarta partecipazione Slam. Dopo quella vittoria, Andreescu è finita in una lunga spirale di infortuni e sofferenza, e oggi i più perfidi considerano quella vittoria estemporanea.

Nel contesto un po’ instabile del circuito femminile, c’è sempre qualcuno pronto a sminuire le grandi prestazioni delle giovani. Come Bouchard, come Andreescu, come Swiatek, ci sarà sempre qualcuno ad aspettare con cinismo il loro fallimento, desiderosi di smascherare il bluff di Emma Raducanu e Leylah Fernandez. Ma insomma, chi se ne frega, peggio per loro.

A questa partita ripenseremo tra cinque, dieci, o venti anni. Speriamo che la ricorderemo come l’inizio di qualcosa di grande.

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