Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Il trionfo del brutal tennis
16 set 2013
L'iperatletismo di Nadal e Djoković e l'evoluzione del tennis: gli ultimi Open consacrano un tipo di tennis che privilegia la forza e mostra i limiti dell'estro di tennisti come Gasquet e Wawrinka, mentre Serena Williams continua a riscrivere la Storia e a Flavia Pennetta, Camila Giorgi e Roberta Vinci rimangono scampoli di gloria.
(articolo)
11 min
Dark mode
(ON)

L’Arthur Ashe Stadium degli US Open ha una capienza di 22.547 posti, cosa che ne fa lo stadio di tennis più grande del mondo, in grado di accogliere circa 8.000 spettatori in più di ognuno dei campi centrali degli altri tre tornei del Grande Slam. Il rapporto proporzionale tra la superficie di gioco e gli spalti è quasi grottesco, il campo che appare minuscolo e che sta lì circondato, o meglio assediato da quelle muraglie di seggiolini, settori e scalinate con cui si è guadagnato il soprannome di "Catino di Flushing Meadows", di memoria clerici-tommasiana. E l'Arthur Ashe dà proprio la sensazione di contenere un qualcosa, una sostanza viva che ribolle, fermenta. Lo si percepisce dalle infinite griglie che delimitano le tribune, quasi un sistema di drenaggio per far scorrere le ondate, dalla costante agitazione della materia contenuta, visto che in qualsiasi fase di una partita, se guardate attentamente, scoverete su in alto nelle ultime file lontanissime gente che cammina, sale, scende, se ne va, anche nel bel mezzo di uno scambio. E poi c'è il vento onnipresente, fortissimo, una turbolenza che sembra creata dallo stesso avvallamento dello stadio, dentro quella specie di canyon chiuso da tutti i lati. L'anno scorso nella semifinale tra David Ferrer e Novak Djoković c'era un vento talmente forte che Ferrer si è portato via il primo set comodamente, trovandosi di fronte un avversario completamente annientato dalle folate, che sembravano dare qualcosa in più al suo gioco. A un certo punto l'arbitro ha sospeso la partita e invitato gli spettatori a lasciare lo stadio, a causa del probabile avvicinarsi di un tornado: vista in tv la situazione era ridicola, il vento si percepiva a malapena, splendeva il sole. Il giorno dopo, tornati in campo con un clima più mite, Djoković ha vinto facilmente.

Mentre le altri grandi arene tennistiche sono state concepite per celebrare le gesta che si svolgono sul campo, l'Arthur Ashe sembra un luogo in cui l'atleta viene offerto al pubblico, dato in pasto alla folla più grande possibile in una massimizzazione dell'evento sportivo molto americana. La stessa deriva che per anni ha permesso l'aberrazione delle semifinali maschili disputate solo 24 ore prima della finale, infilando a sandwich la finale femminile tra le due semi maschili per creare quello che è stato chiamato il "Super Saturday". C'è qualcosa di gladiatorio nel vincere gli US Open, per il modo in cui si svolge il torneo, la superficie e il punto della stagione in cui arriva, passate le forche caudine della terra europea e a epilogo della stagione del cemento americano. Non sarà quindi un caso che l'edizione appena conclusa ha avuto in entrambe le finali di singolare lo scontro tra le teste di serie n.1 e n. 2 dei tabelloni, una celebrazione del survival of the fittest che ben si addice al torneo newyorkese. Dunque Serena Williams e Rafael Nadal, lei che vince il diciassettesimo major a quasi 32 anni (e senza rivali che facciano pensare non possa vincerne ancora quattro o cinque almeno), lui che è rientrato solo a febbraio dopo essere stato 7 mesi fuori e che in stagione ha vinto 10 tornei, 2 slam, 60 partite perdendone solo 3, imbattuto sul cemento, giunto a 13 slam, a solo 4 dal record assoluto di Roger Federer, il tutto a 27 anni.

Il Rovescio di Richard Gasquet.

Un'edizione grigia, dove l'evento traumatico avrebbe potuto essere l'eliminazione di Federer agli ottavi, ma tutti già si aspettavano di vederlo soccombere, quindi la sconfitta con Tommy Robredo (contro cui aveva un 10-0 negli head-to-head) ha avuto giusto il sapore della banale conferma di quel che tutti già pensavano; sono caduti tutti i giovani, presto, senza dare l'illusione neanche per un paio di turni di poter togliere il titolo a uno tra Murray, Djoković o Nadal (che con Federer hanno vinto 34 degli ultimi 35 majors). Calma quasi piatta fino ai 4-5 giorni finali del torneo, con la qualificazione alle semi di due artisti minori come Richard Gasquet e Stanislas Wawrinka, due underachiever quasi sempre belli ma inutili quando messi di fronte ai più forti. E lì è successo che Gasquet, il "cœur de lion" specializzato in match persi al quinto set quando non doveva assolutamente perderli, e Wawrinka, lo svizzero il cui nome in un articolo compare sempre seguito dal concetto "vissuto all'ombra di Federer", è successo che tutti e due per un quarto di finale hanno mostrato la possibilità di qualcosa di diverso: Gasquet è andato due set a zero contro David Ferrer, numero 4 regolarista asfissiante, si è ovviamente fatto recuperare ma poi ha vinto 6-2 al quinto, riuscendo per una volta a imporre la regola della qualità superiore del gioco, intesa come nobiltà di esecuzione dei colpi. Il francese è famoso per il suo rovescio a una mano wagneriano, dalla preparazione enfatica seguita da un impatto e una conclusione del movimento di un'ampiezza narcisista, colpo anacronistico che per fronteggiare le velocità e i rimbalzi moderni richiede una complessità di movimenti la cui ripetizione esatta per decine e decine di volte risulta poi estenuante. Gasquet ha quindi scalato la montagna solo per trovarsi di fronte Nadal, che lo ha dismesso come avrebbe fatto anche con Ferrer: velocemente. Unico sprazzo del francese è stato avergli tolto il servizio una volta, la prima in più di 80 turni di servizio di Nadal, a risalire alle semifinali del torneo precedente; oltre ovviamente a un profluvio di stizzosi rovesci vincenti, la consolazione del pensare "io questo lo so fare e tu no".

Wawrinka invece è più solido, meno vanesio, e accanto a un altrettanto epifanico rovescio porta con sé tutto un gioco più aggressivo e efficace, che gli ha permesso di portare Djoković al quinto set della loro semifinale, per poi semplicemente non farcela più. Si è spinto al 2-1 nel quinto, ci ha messo 20 minuti per vincere quel terzo gioco, poi ha solo resistito per non perdere male, cedendo con un onorevole 6-4.

Un turno di servizio complicato.

«Li hai visti i cinquantaquattro colpi?», mi chiede al telefono la voce di un amico, e io all'inizio non capisco. È martedì mattina, dopo qualche secondo mi rendo conto che si riferisce a uno momento della finale tra Nadal e Djoković della notte prima, uno scambio estenuante lungo circa due minuti. Come un'opera cinematografica, un instantclassic sportivo, I Cinquantaquattro Colpi fa subito il giro del web, elogiato in ogni articolo sul match, caricato su YouTube da decine e decine di utenti, ripreso dalle colonnine destre delle amenità dei quotidiani di tutto il mondo. Ma lo scambio in fondo non è stato un capolavoro estetico: conservativo per la maggior parte dei colpi, inchiodato a fondocampo, tranne che per due o tre accelerazioni di Nadal che Djoković assorbe e rispedisce al mittente, conclusosi ingloriosamente con un rovescio molto profondo del serbo che finisce tra i piedi di Nadal, che ormai fuori posizione può solo ingobbirsi per scodellare un colpo debole in rete. I primi due set della finale sembravano aver mantenuto la promessa dell'epic che viene sempre preteso dalle partite tra i due, le maratone, i cinque set, le sei ore, tutte le aberrazioni iperagonistiche generate dal confronto tra due giocatori che sanno difendere e attaccare (da fondocampo) come praticamente nessun altro.

I Cinquantaquattro Colpi.

«Ai miei tempi uno che correva tanto era [Michael] Chang», aveva detto Agassi a inizio stagione, a Melbourne, riflettendo sull'evoluzione tecnica e atletica del tennis moderno. Con il Roland Garros vinto a 17 anni nel 1989, Chang ha rappresentato la vittoria di Davide contro i Golia del power tennis nascente (Ivan Lendl, ad esempio). «Poi è arrivato Lleyton Hewitt, e se mollavi la pressione anche solo su una palla, lui veniva in avanti e prendeva il controllo dello scambio. Ecco che diventa un problema non riuscire a tenere l'avversario in difesa. Ma poi arriva qualcuno come Djoković, che si muove molto meglio di quanto Hewitt sia mai riuscito a fare, e lui non ha neanche bisogno di prendere in mano il punto, perché riesce a vincere anche mentre sta difendendo, con un solo colpo.» Ecco la strada che ha portato al tennis giocato dal serbo e da Nadal, l'abbraccio mortale in cui finiscono quando si scontrano: entrambi aggrediscono il campo ma riescono anche a coprirlo oltre le umane capacità di chiunque altro, e in questa spirale di attacco e difesa si portano spesso a degli estremi agonistici inediti, per i quali non basta più il termine power tennis, ormai così anni '90, ma risulta più consono brutal tennis.

Nadal e Djoković al picco dell'intensità agonistica sembrano incatenati l'uno all'altro, come se un filo invisibile li legasse durante gli scambi e una forza a loro estranea li scaraventasse ogni volta sulla palla dell'avversario, costretti a un colpo in più, a un recupero in più, a un'altra corsa. Così è apparsa per un paio di set la finale a New York, il consueto muro contro muro, quel logoramento pugilistico concesso solo alle loro abilità superiori. Poi Djoković si è lentamente spento, ha sbagliato sempre di più, ha forzato nei momenti sbagliati per accorciare lo scambio, e l'emorragia di punti è proseguita fino al 6-1 del quarto set conclusivo. Chi non si è mostrato umano in nessun momento è stato Nadal, se non quando le telecamere lo hanno ripreso singhiozzare faccia a terra sdraiato sul campo dopo la vittoria, il primo piano del volto nascosto nelle braccia, il polso che sfoggia l'orologio Richard Mille da 690.000 $ con cui è solito giocare. Dove può arrivare a questo punto non è dato saperlo: ha ormai preso possesso del motore di questo sport, pensionato l'immaginario retrò dell'elogio del bello e dello stile, il feticcio del colpo che era rimasto tutto sulle spalle di Federer; ha sostituito tutto con un agonismo logorante, una separazione totale tra estetica del movimento ed efficacia del colpo (Nadal tira passanti incrociati balistici piegato su se stesso come in preda a una colica renale) e soprattutto ha alzato lo standard della competizione fisica oltre ogni limite conosciuto in precedenza. La vita atletica del tennista si è spostata in avanti, non esistono under-20 nei primi 100 del mondo, ormai ridotti a cuccioli dinoccolati, aumentano i giocatori che arrivano all'apice della propria carriera attorno ai trent'anni: nella semifinale contro Djoković, Wawrinka ha espresso momenti di tennis luminosissimo, indisturbato dal dover tirare cinque vincenti di seguito perché Djoković recuperava l'impossibile, ma poi nel quinto ha finito le energie, e la stanchezza ha minato la sua lucidità quanto basta per perdere la capacità di esecuzione di un rovescio lungolinea da due metri dietro il fondo, e sul quale Djoković non deve poter arrivare. I colpi di Djoković e Nadal sono fatti di un altro tipo di eccellenza, non è più la fusione di velocità e piazzamento di un Pete Sampras, è diventata una questione di peso, di profondità e rotazione, sono colpi che cadono sul campo come sassi.

Una nuova definizione del gioco all-court.

Così sia nel singolare maschile che femminile la forza, la determinazione e la resistenza hanno prevalso sull'incostanza dell'estro e dell'avventurismo tattico, una selezione della specie che ha proceduto a eliminare le variabili inaffidabili che non rispondessero pienamente ai requisiti dell'harder, better, faster, stronger. Sono rimasti solo episodi sullo sfondo, storie personali, piccole glorie che non lasceranno tracce da qui a qualche mese: Flavia Pennetta che arriva fino alle semifinali usando ogni grammo della sua intelligenza tattica, l'esperienza e la lucidità di trattare la palla nel modo giusto al momento giusto, alleggerendola e appesantendola a seconda degli spazi creati sul campo, fino a quando non si è scontrata con Viktoryja Azarenka, e non ha trovato risposte a quella diversa velocità, forza, capacità di vincere; Camila Giorgi, che supera il tennis narcotico dell'ex numero 1 Caroline Wozniacki cercando di usare ogni palla a disposizione per provare a creare qualcosa, come se l'avversaria fosse solo un ostacolo alla sua voglia di tentare colpi e la partita si vincesse non facendo punti, ma centrando determinati punti del campo, come bersagli (dopo la vittoria le hanno chiesto la sua strategia: «Quando mi arriva la palla cerco solo di mandarla negli angoli»); Roberta Vinci, che ha poi battuto Camila andando a rete ogni due punti e con quel suo rovescio con il taglio sotto, che toglie peso alla palla e impedisce all'avversaria di ingabbiare lo scambio nella pura accumulazione cinetica e nelle forze centrifughe tipiche del tennis femminile moderno; Hewitt stesso, ormai veterano pieno di cicatrici che prima batte del Potro in cinque set e poi sull'orlo dei quarti di finale perde sempre all'ultimo set, dopo aver servito per il match; infine Wawrinka e Gasquet, gli eroi delle semifinali, come due auto d'epoca sportive che si schiantano contro dei SUV, inchiodati sull'orlo delle loro capacità e messi di fronte a un'opposizione che i loro strumenti sofisticati probabilmente mai potranno sconfiggere.

La stagione in fondo adesso è conclusa, ma come ogni anno resterà stranamente in vita: ci saranno partite per altri due mesi e si andrà in Asia a incassare lauti assegni da ricchi tornei con gli spalti mezzi vuoti, tra Bangkok, Tokyo e Shanghai. Poi si andrà nell'Europa invernale a giocare nei palazzetti una manciata di tornei dall'atmosfera prenatalizia, settimane dove eroi minori si prenderanno qualche soddisfazione alle spalle dei tiranni distratti, sgonfiati dalle imprese dell'estate; si assegnerà la Coppa Davis ma nessuno neanche saprà chi ha vinto, per poi concludere finalmente la stagione con i Masters di fine anno, o qualsiasi nome si voglia dare ai tornei tra i migliori otto giocatori dell'anno. L'unico evento significativo all'orizzonte è che Nadal quasi sicuramente tornerà a essere il numero 1 del mondo: tre anni dopo l'ultima volta che ha chiuso la stagione in vetta, diventerà l'unico giocatore ad aver mai riconquistato la posizione a fine anno dopo un intervallo così lungo. «È l'evoluzione del gioco, e qualcosa mi dice che non finirà qui», concludeva Agassi in quel di gennaio. «La storia dimostra che non c'è un punto di arrivo, che più o meno ogni cinque anni comincia una nuova fase. E chissà come sarà quando un Michael Jordan deciderà di giocare a tennis.»

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura