In un summit sulla proprietà intellettuale tenutosi a Miami nel marzo di quest’anno il presidente della Liga, Javier Tebas, si è avventurato in una razionale e misurata analisi delle forme di contrasto alla diffusione della pirateria calcistica: «Se uno cerca su Google ‘voglio comprare cocaina’ o ‘sesso con minori’ non viene visualizzato nulla. Ma se digita 'calcio gratis', allora sì».
I dirigenti delle società calcistiche di numerosi Paesi europei, refrattari anche alla sola ipotesi di tentare un’autocritica, ormai da molto tempo hanno deciso di attribuire tutti i problemi del calcio e delle loro leghe al comportamento dei cosiddetti “pirati”. Una categoria di persone talmente bieca e pericolosa da poter essere paragonata serenamente, come fatto da Tebas, a pedofili o spacciatori, e che naturalmente ricomprende, senza alcuna distinzione, chi diffonde illegalmente i contenuti e chi ne fruisce, chi lo fa gratuitamente e chi lo fa ritraendone un guadagno e/o pagando un corrispettivo.
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Si tratta di una posizione esasperata e non supportata dalla realtà: stando alle più recenti analisi commissionate e realizzate dalle stesse associazioni del settore (per esempio la recente Indagine Fapav-Ipsos sulla pirateria audiovisiva in Italia, commissionata proprio da Fapav, la Federazione per la Tutela delle Industrie dei Contenuti Audiovisivi e Multimediali), la stima del fatturato potenzialmente perso da tutti i titolari italiani di diritti audiovisivi per eventi sportivi di qualsiasi tipo, a causa della fruizione illegale di tali contenuti, si attesta a 285 milioni di euro.
Un numero che complessivamente non è da sottovalutare ma, per quanto riguarda il calcio, non è alla fine così impressionante, considerato che: la Lega Serie A per la stagione 2024/25 percepisce 958 milioni di euro di diritti TV tra campionato e coppe; si tratta dei potenziali corrispettivi perduti da tutti gli operatori italiani in relazione a tutti gli sport trasmessi a pagamento, non solo dal “calcio italiano”; non è affatto scontato che tutti gli attuali utilizzatori abusivi, in assenza di opzioni illegali, si abbonerebbero immediatamente e automaticamente alle pay tv e molti di questi forse si limiterebbero a rinunciare.
In ogni caso il contrasto alla pirateria digitale, che resta necessario e legittimo, potrebbe al massimo migliorare marginalmente i conti dei titolari dei diritti audiovisivi (ed eventualmente, a cascata, del “sistema calcio” nel suo complesso), nell’ordine di una grandezza di una manciata di punti percentuali, ma non potrebbe mai avere gli effetti salvifici e miracolosi che gli si vorrebbero attribuire.
Oggi questo concetto rimane però estraneo al dibattito pubblico e alle dichiarazioni ufficiali dei protagonisti del settore, che continuano a presentare la “pirateria” come un problema che il nostro ordinamento deve affrontare a tutti i costi, con priorità assoluta e con tutti i mezzi necessari, ancorché draconiani.
IL QUADRO GIURIDICO
È in questo contesto che è intervenuta la recente “Legge Antipirateria” (Legge 14 luglio 2023, n. 93, Disposizioni per la prevenzione e la repressione della diffusione illecita di contenuti tutelati dal diritto d'autore mediante le reti di comunicazione elettronica), approvata dal Parlamento all’unanimità, sia alla Camera che al Senato; con conseguente aggiornamento al Regolamento dell’AGCOM, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (“Regolamento Allegato A alla Delibera n. 680/13/CONS del 12 dicembre 2013 in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica e procedure attuative”).
L’innovazione più appariscente di questo nuovo quadro normativo è il “Piracy Shield”, tradotto nel linguaggio dei nostri media nazionali come “piattaforma anti-pezzotto”: un sistema informatico di proprietà di AGCOM, entrato in funzione a inizio anno, con cui il titolare dei diritti, quando rileva una trasmissione illegale di una partita di calcio, apre una segnalazione (“ticket”) sulla piattaforma, indicando l’indirizzo IP di origine della trasmissione. Ricevuta la segnalazione, AGCOM, tramite la piattaforma, intima automaticamente ai fornitori di servizi di bloccare tutti gli IP che sono stati segnalati, entro un termine ristrettissimo di soli 30 minuti, a pena di gravi sanzioni.
Gli aspetti problematici di questo meccanismo sono molteplici. Già l’idea stessa di mettere alla base della progettazione del Piracy Shield gli indirizzi IP riflette una concezione della rete arcaica e superata. Gli indirizzi IP, così come le strade di una città, sono infatti un numero finito e limitato, e per venire incontro all’aumento della domanda, così come nelle città si è iniziato a costruire palazzi che contenessero un numero maggiore di abitazioni nell’ambito dello stesso indirizzo, in rete si è iniziato ad assegnare a ciascun indirizzo IP una molteplicità di singoli accessi, o “nodi”, in un numero variabile da centinaia a decine di migliaia per ciascun indirizzo. È facile intuire che, nel momento in cui una trasmissione piratata proviene da un qualsiasi nodo di un determinato IP, e nella piattaforma viene segnalato solamente l’IP generico, il provvedimento che ne consegue finisce per bloccare tutti i nodi collegati a quell’indirizzo: anche quelli che non hanno la benché minima conoscenza, e figuriamoci la responsabilità, del fatto che un altro utilizzatore dell’IP abbia realizzato una trasmissione illegale.
Non è un caso che nel primo anno di funzionamento della piattaforma ci sono stati molteplici casi eclatanti di siti bloccati, a causa dell’oscuramento del loro IP, che non avevano nulla a che vedere con la pirateria online, tra cui Google Drive, CloudFlare (un servizio di hosting utilizzato da milioni di siti web), Zenlayer (un fornitore di servizi Cloud), e Imperva (una società di cyber-security).
Un altro problema risiede nel fatto che in realtà il blocco di un IP non è un problema insormontabile per il “pirata” di turno, che in qualche minuto rinuncerà all’IP bloccato e se ne farà assegnare un altro: i disagi dell’oscuramento verranno ribaltati sugli altri fruitori di quell’IP, presenti ma anche futuri, perché è possibile che qualche altro utilizzatore della rete richieda l’assegnazione di un nuovo IP, si veda assegnare uno di quelli oscurati, e lo scopra solo al momento di utilizzarlo; anche casi del genere sono stati segnalati e documentati.
Oltre a quelli tecnici, non mancano nemmeno problemi giuridici. A dispetto delle rassicurazioni, il sistema è totalmente automatizzato e privo di qualsiasi controllo o filtro, sia preventivo che successivo: Piracy Shield, ricevuto il “j’accuse” del titolare dei diritti, trasmette il provvedimento inibitorio in automatico; il fornitore di servizi internet, che non ha la possibilità di effettuare delle serie e approfondite verifiche in soli 30 minuti, a sua volta si limita ad effettuare l’oscuramento in automatico di tutti gli IP che gli vengono segnalati, preferendo comprensibilmente mettersi al riparo dalle sanzioni invece che tutelare gli interessi degli altri utenti.
La fallibilità di questo meccanismo appare evidente, in filigrana, anche alla stessa AGCOM, che ha annunciato di aver creato, insieme all’Autorità per la Cybersicurezza Nazionale (ACN), una white list di IP identificati come strategici e che non possono essere oggetto di blocco tramite Piracy Shield (secondo Wired, ad oggi la lista sarebbe popolata da ben undicimila identificativi).
L'OPPOSIZIONE
Nonostante le criticità siano molte, le uniche voci che si sono alzate contro questo sistema sono quelle di alcuni esperti di tecnologie digitali, che nessuno a livello istituzionale ha neppure degnato di una risposta. L’unica, encomiabile eccezione in ambito pubblico è stata Elisa Giomi, Commissaria AGCOM e Professoressa Associata di sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università Roma 3, che ha tentato di esprimere motivate e argomentate critiche, ricevendo in tutta risposta diffide e contestazioni.
Assoprovider, Associazione Provider Indipendenti, ha tentato di affrontare la questione in via giudiziaria, inserendola all’interno di un più ampio contenzioso incardinato davanti al TAR del Lazio sin dal 2018, non limitandosi a sottolineare le criticità tecniche e giuridiche dell’intera architrave giuridica che lo supporta, ma sollevando anche ulteriori problematiche.
Secondo la tesi di Assoprovider, infatti, ci sarebbe anche da considerare un tema di conflitto di interessi, derivante dal fatto che la piattaforma sarebbe stata sviluppata da SP TECH, start-up legata allo Studio Legale Previti su incarico della Lega Calcio, e da quest’ultima donata ad AGCOM, con un atto che nel giudizio amministrativo è stato definito “non pubblicato né conosciuto e non conoscibile”, salvo però mantenere in favore di SP TECH un contratto di manutenzione annuale.
L’esito di quel contenzioso, allo stato attuale, è risultato del tutto favorevole alle tesi dell’AGCOM e delle associazioni dei titolari dei diritti d’autore: con una sentenza di fine gennaio, infatti, il TAR ha respinto integralmente il ricorso, ritenendolo infondato in tutti i suoi aspetti, compresi quelli legati al conflitto di interessi. Secondo il tribunale amministrativo la nuova disciplina del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica rappresenta infatti un corretto bilanciamento tra i diversi diritti in gioco, tutelando la libertà di espressione, di manifestazione del pensiero e di accesso alla cultura e ad internet.
Una ulteriore mazzata alle tesi di chi si opponeva al sistema è arrivata dalle modifiche alla piattaforma nazionale antipirateria introdotte dagli emendamenti, proposti da tre parlamentari della coalizione di governo (e segnatamente Forza Italia e Fratelli d'Italia), inseriti nel c.d. Decreto Legge Omnibus del 9 agosto 2024. Sembrava intravvedersi un minimo segnale di speranza e ravvedimento nel fatto che, con tali modifiche, il blocco degli indirizzi IP a seguito dell’intervento di Piracy Shield è stato trasformato da definitivo in temporaneo, fissando in sei mesi il limite di oscuramento: una determinazione di buonsenso, per evitare l’inutilità di bloccare in eterno un IP, sottraendolo alla collettività, e che il “pirata” di turno non avrebbe naturalmente mai più usato nella sua vita. Di contro, però, gli interessati hanno ora la facoltà di bloccare un indirizzo IP non solo se “univocamente” destinato ad attività illecite, come previsto dalla normativa precedente, ma anche se tale utilizzo illecito è meramente “prevalente”: un’ulteriore estensione dei poteri di inibizione concessi ai titolari dei diritti, e uno strumento ulteriore di protezione contro eventuali lamentele per il blocco di contenuti legittimi all’interno dello stesso indirizzo IP.
E QUINDI È UN REATO?
In questo quadro, nonostante il costante aggravamento delle sanzioni previste dall’evoluzione normativa di questi ultimi anni, è intervenuto, come nell’opera di Brecht, un giudice: non da Berlino ma da Lecce.
Roberta Maggio, Giudice Onorario della Seconda Sezione del Tribunale Penale di Lecce, nell’ambito di un procedimento a carico di una pluralità di soggetti che avevano sottoscritto abbonamenti pirata per accedere illegalmente a una pluralità di pay-tv, ha infatti chiarito che chi utilizzi questo tipo di sistemi senza aver partecipato alla loro produzione e immissione in circolazione, senza scopo di lucro, e senza trasmetterli in pubblico, ma solo per meri scopi di natura personale, non è sanzionabile penalmente, e può essere soggetto tuttalpiù alla sanzione amministrativa di 154 euro prevista dalla legge sul diritto d’autore (Legge del 22/04/1941 n. 633).
Bisogna ricordare che soggiace comunque alla sanzione maggiorata fino a cinquemila euro, ai sensi dello stesso articolo, chi si rende colpevole dello stesso comportamento ma è recidivo, o in modo più “grave per la quantità delle violazioni” (seppur senza indicazioni più precise e numericamente dettagliate di cosa configurerebbe questa “quantità” di fruizioni abusive tale da rendere “grave” l’infrazione). Inoltre resta comunque sanzionabile ai sensi del ben più severo art. 171 octies (che è un reato, e prevede la reclusione fino a tre anni e una sanzione fino a 25mila euro) chi non si limiti ad utilizzare servizi online, ma si munisca di strumenti e hardware fisici.
Si spera comunque che la sentenza di Lecce possa rappresentare un barlume, ancorché fioco e incerto, utile a riportare un minimo di razionalità in un argomento che è diventato esasperato e parossistico, e a ricondurre tutta la discussione su ambito più ragionevole.
La lotta alla pirateria digitale è semplicemente un tema di legittima tutela di diritti economici privati (nei limiti dei danni patrimoniali che effettivamente ne possono conseguire ai soggetti interessati): non è un problema di necessaria difesa di un fondamento del nostro ordine sociale, non è una emergenza nazionale, e non è meritevole di un intervento sanzionatorio pubblico istantaneo e draconiano.
Potrebbe anche essere utile in tal senso ispirarsi all’esperienza di altri stati europei, come ad esempio la Germania, dove, a dispetto dei luoghi comuni sul formalismo e sul burocratismo teutonico, la tutela contro i “pirati” della rete è stata sostanzialmente “privatizzata”. Al di là delle normative generali, analoghe a quelle italiane, sin dal 2006 è stata infatti concessa a società e studi legali specializzati ed autorizzati la facoltà di monitorare i siti di streaming e file sharing, e ottenere dai Service Provider l’identificato specifico dei soggetti che commercializzano o utilizzano tali servizi: dopo essere stati individuati, i “pirati” vengono direttamente diffidati a pagare un importo a titolo sanzionatorio/risarcitorio, per evitare di essere trascinati in un tribunale.
Un sistema semplice, lineare ed estremamente efficace, che ha drasticamente ridotto il problema della pirateria digitale in Germania, per il semplice fatto che per dare la caccia a migliaia di “pirati” sparsi per tutto il territorio è molto più semplice scatenare altrettanti “cacciatori di taglie” privati e motivati da un possibile tornaconto economico invece che affidarsi a un leviatano pubblico centralizzato e macchinoso.
Per chi è interessato ai corsi e ricorsi storici, questo in realtà fu proprio il sistema adottato nel diciottesimo secolo dalla corona inglese per debellare i pirati veri, quelli senza metafore e senza le virgolette. Anziché spendere tempo e risorse per farli inseguire dalla Marina Reale, si decise semplicemente di incaricare altri ex pirati perdonati e redenti, o privati cittadini con poteri straordinari, cancellando in breve tempo un fenomeno che perdurava da decenni.