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La prima vincitrice della Coppa Italia
09 mag 2018
Il 1922 è un anno di grande confusione per il calcio italiano, e in questa confusione il Vado vince la prima Coppa Italia della storia.
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16 min
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Per l’organizzazione dell’ottavo Festival di Sanremo, la società ATA fa le cose per bene. Viene imbastita una commissione composta da musicisti, critici e scrittori, chiamata a esaminare 391 canzoni. La scrematura porta in fretta il numero a 135, a dicembre del 1957 ne rimangono venti. Grazie alla formula dell’epoca, un cantante può entrare in gara con diversi brani: l’attesa è tutta per Nilla Pizzi, appena ingaggiata dalla RCA Italiana, pronta a dare battaglia con tre canzoni. Deve vedersela con Claudio Villa, che duetta con lei in due dei cinque brani accettati dalla commissione, e Aurelio Fierro, reduce dal boom di Canzonissima, in gara con quattro pezzi.

Come in una partita di Mercante in fiera, non è detto che a vincere sia chi ha più carte in mano. Pizzi e Villa avrebbero potuto far ascoltare agli esperti anche un’altra canzone, scritta da un autore di Polignano a Mare. Entrambi, però, respingono il brano, ritenendolo non all’altezza. Quel pezzo si chiama Nel blu dipinto di blu ed è destinato a cambiare la storia della musica italiana. L’autore, Domenico Modugno, scommette sul potenziale della sua scrittura (e di quella del co-autore Franco Migliacci). Il termine cantautore non è ancora in voga in Italia, mai nessuno aveva portato al Festival una canzone scritta e musicata in prima persona. Definirlo un trionfo è riduttivo, è un uragano che spazza via tutti gli altri brani, compresa la tradizionalissima L’edera di Nilla Pizzi, che si piazza seconda.

Come ogni rivoluzione, anche quella di Modugno ha bisogno di qualche anno per essere assorbita fino in fondo. Il Quartetto Cetra, nel 1959, ha ancora il tempo sufficiente per far uscire un 45 giri dai toni scanzonati e dalle melodie pre-Modugno. Tata Giacobetti e Virgilio Savona scelgono come lato B di Sei piccolo per i blue-jeans un pezzo che racconta i sogni di gloria del piccolo Spartaco. Che centrattacco è un omaggio al figlio di un calzolaio che avrebbe voluto vedere il suo pargolo studioso e non calciatore: Virgilio Felice Levratto, uno dei migliori attaccanti italiani degli anni ’20, bronzo nel 1928 alle Olimpiadi di Amsterdam in un torneo che gli valse il soprannome di sfondareti per averne bucate due contro Spagna e Uruguay. Sei anni prima, a soli diciotto anni, era stato il protagonista di una finale incredibile, la prima della storia della Coppa Italia. Nell’albo d’oro, il nome che rimane più oscuro è quello che apre il grande libro del torneo: 1922, Vado.

Sei meglio di Levratto, ogni tiro va nel sacco.

Chissà nel socialismo

Nei primissimi anni del '900, Vado Ligure è il cuore pulsante di alcuni importanti insediamenti industriali. La presenza del porto e l'enorme disponibilità di terreni a basso costo la rendono un luogo ideale per gli investimenti dei settori più disparati: dalla petrolchimica alla siderurgia, passando per l'industria chimica e, ovviamente, la costruzione navale. Il borgo di pescatori e agricoltori si trasforma, nel giro di pochissimi anni, in un polo industriale, andando di conseguenza a formare la coscienza di una massiccia classe operaia. Vado vive un vero e proprio boom, accogliendo lavoratori da ogni angolo del nord Italia. I quasi 58 chilometri che la separano da Genova sono un'inezia e gli echi delle imprese del Genoa giungono costanti. Non è un caso che Angelo Morixe decida di prendere in prestito il rosso e il blu dei gloriosi vicini quando propone ai suoi amici di fondare una società di calcio che rappresenti l'anima vadese.

Il dialogo con Emilio Romano, Giovanni Ferrando, Antonio Bolla e i fratelli Cappellano, Carlevarino, Marchese, Negro e Salomone è fruttuoso, nel novembre 1913 nasce il Vado Foot-Ball Club. Lino Pizzorno è il primo presidente ma l'avventura calcistica del nuovo sodalizio è tragicamente segnata dalla Prima guerra mondiale. I primi incontri, puramente amatoriali, si tengono davanti alla fabbrica Fumagalli, in pieno spirito pioneristico.

Il conflitto incide in modo particolare sulla vita a Vado, e non solo per la partenza verso il fronte di molti operai vadesi. Chi resta deve triplicare gli sforzi per soddisfare le richieste delle aziende belliche, alimentando il malcontento di quei lavoratori che già prima della guerra avevano dato vita a svariate rivolte all'interno di colossi come Westinghouse, Ape, Ilva, Fornicoke e Ferrotaie. La frustrazione travolge la città dopo la guerra, Vado è per vocazione naturale una delle anime del biennio rosso. Il Partito Socialista trionfa nelle elezioni del novembre del 1919, la folla vadese si raduna il 3 dicembre in Piazza Cavour, chiedendo a gran voce le dimissioni dell'amministrazione comunale. Una bandiera rossa listata a lutto, fatta fuoriuscire timidamente da una delle finestre dell'edificio, è il segnale della resa politica.

Parallelamente, il Vado Fbc fa il grande passo e si affilia alla FIGC, partecipando al campionato regionale di Promozione: nella piramide calcistica dell’epoca, il secondo livello del calcio italiano. Non gioca più nello spiazzo della Fumagalli bensì al Campo di Leo. La prima esperienza nello sport che conta è da dimenticare: sei partite e altrettante sconfitte nel Girone B, dominato dallo Spezia. Il Vado cresce gradualmente, il nuovo presidente ha messo sotto contratto il giovanissimo Levratto dopo averlo visto con la maglia della Lampos e chiede di iniziare a inserirlo in prima squadra. La squadra raggiunge la fase finale per la promozione in Prima Categoria ma deve arrendersi alla forza maggiore dello Speranza Savona e dei Giovani Calciatori Genova.

L’Italia è politicamente lacerata. Il biennio rosso, nonostante la prolungata occupazione delle fabbriche, non sfocia nella tanto sbandierata rivoluzione socialista. Già da un paio d’anni sta avanzando la figura di Benito Mussolini. Con i suoi Fasci italiani di combattimento, fondati il 23 marzo del 1919, pone «la valorizzazione della guerra rivoluzionaria al di sopra di tutto e di tutti». A Vado, dal 10 novembre del 1920, si è insediata la prima amministrazione comunale socialista, con un manifesto elettorale dai contenuti chiarissimi: l’intenzione è quella di andare «quasi esclusivamente a vantaggio della classe povera sia per risolvere la questione degli alloggi, anche contro il parere dei proprietari, sia per venire incontro all’acquisto di generi alimentari di prima necessità, anche se ciò avesse comportato un contrasto con i commercianti, sia potenziando le cooperative di lavoro e creando nuove industrie a base comunista, abolendo qualsiasi spesa di lusso goduta dai signori». Ma il contesto industriale di Vado sta via via scemando, con la chiusura di diverse fabbriche e un aumento allarmante dei disoccupati. Il sindaco Muccini, con le prime sedute, si impegna a imporre ai macellai di non aumentare il prezzo della carne e a sostenere gli operai nelle lotte sindacali.

La storia, anche la più recente, ci insegna che non può esserci sinistra senza scissioni. Esattamente come il Partito Socialista a livello nazionale, anche la sezione di Vado vive i primi tumulti interni, con tre mozioni presentate nel novembre del 1920: Concentrazione Socialista, Comunisti unitari, Comunisti secessionisti. Il 22 novembre si vota in sezione e trionfano questi ultimi. Vado ha ufficialmente un’amministrazione a trazione comunista, e inizia a perdere pezzi tra gli elementi cardine. Il 21 gennaio del 1921 è il Congresso di Livorno a sancire la nascita del Partito Comunista. Si arriva alle elezioni politiche del maggio 1921 in un clima surreale, con la sinistra spaccata in due, i cittadini di Vado Ligure spaesati e l’ascesa squadrista alle porte. Secondo il verbale d’assemblea stilato dalla sezione del Partito Comunista, durante le consultazioni diversi cittadini vadesi vengono costretti a «votare sotto violenza e sotto le minacce dell’olio di ricino». La città è in tilt, la Giunta Muccini dura pochissimo: una relazione del Ministro degli Interni mette nel mirino gli amministratori locali, accusandoli di irregolarità nella riscossione delle tasse e di una sistematica opposizione alle leggi vigenti. Il regio decreto del 9 febbraio 1922 scioglie l’amministrazione cittadina.

Il Vado Calcio.

Il risveglio violento della jungla

Anche il calcio italiano vive un momento particolare. È cresciuto in maniera sproporzionata nel giro di pochi anni e i paletti imposti dalla FIGC (campo sportivo proprio e solidità finanziaria) hanno provocato uno squilibrio tra il nord dominante e il centro-sud. La palla, bollente come mai fino a quel momento, viene passata a una delle grandi menti del movimento calcistico: Vittorio Pozzo. Calciatore, allenatore, giornalista, dirigente, uomo dal multiforme ingegno e perno indispensabile per la crescita della Nazionale, è incaricato dalla FIGC di riformare la struttura dei campionati.

Pozzo, a capo di una commissione formata da Piero Albertini, Agostino Capelli, Umberto Mombelli ed Ernesto Vota, scarta immediatamente il progetto già presente sulle scrivanie federali, il cosiddetto Valvassori-Faroppa, destinato ad allungare ulteriormente le stagioni con la divisione in un girone Settentrionale e uno Centrale-Meridionale-Insulare, con suddivisioni prima regionali e poi interregionali. La diplomazia non è il pane quotidiano di Pozzo, pronto a scontrarsi con tutti pur di arrivare alla realizzazione della sua grande idea risolutrice: il girone unico.

Lasciamo che sia Pozzo stesso a riannodare i fili di un momento delicatissimo del calcio italiano, attingendo al suo diario a puntate pubblicato, tra il 1949 e il 1950, da Il Calcio Illustrato. «La Commissione prese a liquefarsi un po’ per strada. Da qualunque parte si toccasse, si urtavano interessi o suscettibilità. L’estensione del progetto la feci da solo, e quasi da solo lo presentai. Conservo il manoscritto e in esso ricordo che menzionavo che “Il tipo di campionato ideale, quello che appaghi i desideri di tutti e risolva tutte le difficoltà morali e materiali, non è di possibile scoperta e attuazione in Italia”. Proponevo un campionato a girone unico, con corridoio di comunicazione con una seconda divisione a mezzo di promozione e retrocessione, calendario inalienabile, proibizione di ritiro e lista di trasferimento per i giocatori».

Pozzo ha già visto il futuro ma sa benissimo che non riuscirà a imporlo da subito. «Non nascondo che una punta di ironico piacere mi faceva guardare al putiferio che si sarebbe scatenato attorno alle mie proposte. Ci avevo pensato bene, ero a posto con la mia coscienza e guardavo con serenità al risveglio violento della jungla». In un altro immancabile classico della storia calcistica italiana, la spaccatura è tra club grandi e piccoli. Genoa, Milan, Juventus e Pro Vercelli guidano il fronte delle big: chiedono una riduzione delle squadre per evitare di finire il campionato in piena estate. La Camera di Commercio di Torino è il teatro della contesa, che ha luogo il 23 e il 24 luglio del 1921: ironia della sorte, il 24 è in programma anche la finale scudetto tra Pisa e Pro Vercelli, testimonianza di un campionato dalla durata mastodontica.

Con 113 voti a 65, il Progetto Pozzo viene cestinato, nonostante un tentativo di conciliazione messo in atto da Emilio Colombo, direttore de La Gazzetta dello Sport. Le grandi società abbandonano l’aula, volano le accuse, chi rimane in Assemblea finisce addirittura per nominare un nuovo consiglio. A loro volta, i club fuoriusciti completano lo strappo e fondano la Confederazione Calcistica Italiana (CCI). Il calcio italiano è totalmente diviso in due e prendono vita due campionati separati. «Era lo scisma – scrive Pozzo – e il mio progetto aveva scatenato la guerra civile nell’Italia calcistica. Che Iddio mi perdoni. I miei intendimenti erano puramente tecnici. Per mettere le cose a posto, tra i litiganti, ci vollero mesi di trattative e anni di lavoro. […] Finalmente, nel 1929, si giunse al girone unico auspicato nel progetto, ammettendovi 18 sole squadre. Da allora non ci si è mossi. Proprio per niente non avevo lavorato».

Due campionati, dunque. Da un lato la Prima Divisione, organizzata dalla CCI, con ventiquattro squadre del Nord, divise in due gironi interregionali, e trentaquattro squadre del Centro-Sud, suddivise regione per regione; dall’altro la Prima Categoria, gestita dai Comitati regionali e dalla FIGC, composta da quarantuno società del Nord e sei del Centro. Le grandi sono praticamente tutte confluite nella CCI e si accorgono ben presto che la situazione è surreale. Il girone d’andata della Prima Divisione termina a dicembre, nello stesso periodo i campionati della FIGC stanno ancora vivendo il primo turno delle eliminatorie regionali. Torna in gioco l’opera di diplomazia di Emilio Colombo, che chiede aiuto a Enrico Olivetti, futuro presidente dell’Inter, per riunire le due federazioni. L’incontro avviene a Brusnengo, nella villa di Olivetti.

Le grandi squadre piemontesi e liguri chiedono un taglio fino a 32 squadre, i vertici della FIGC propongono un campionato a 50 squadre. A queste condizioni, i club della CCI non possono accettare, anche se il disgelo è all’orizzonte: il fatto di non essere riconosciuta dalla FIFA è un problema troppo grande per la Confederazione, inevitabilmente costretta a scendere a compromessi. Il primo segnale di distensione tra le parti era arrivato a settembre, con l’attribuzione dello scudetto del 1915 al Genoa di Edoardo Pasteur, presidente della CCI. Il titolo era rimasto non assegnato dall’esplosione del conflitto e nell’anno di grazia 2018 è ancora oggetto di discussione. È in questo scenario che la FIGC inizia a pensare alla Coppa Italia.

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Vittorio Pozzo.

L’acuto del Vado

Il cosiddetto compromesso Colombo è ormai a un passo, si percepisce che nella stagione 1922/23 il calcio italiano tornerà alla normalità. La FIGC, nel tentativo di ravvivare gli ultimi mesi dell’anno calcistico, si ispira all’Inghilterra. La FA Cup appassiona i tifosi d’Albione già dal 1872 e la federazione cerca di abbozzare un progetto di Coppa Italia. L’iscrizione è nominalmente aperta anche alle big della CCI, che ringraziano per la concessione ma decidono di non partecipare. Ai blocchi di partenza, almeno sulla carta, ci sono 37 squadre.

Un sorteggio permette a Pro Livorno, Treviso e Libertas Firenze di passare il turno con un bye, il 2 aprile 1922 è il giorno delle prime sfide ufficiali. Diverse partite non si disputano, con le squadre che danno forfait pur di non sobbarcarsi i costi di ulteriori impegni. Il Vado soffre all’esordio, strappa un 4-3 dopo i supplementari alla Fiorente Genova e avanza al turno successivo. La federazione abbozza un ulteriore sorteggio, Libertas Firenze e Pro Livorno passano anche stavolta senza giocare, mentre il Treviso non è altrettanto fortunato e cede 4-0 contro la Forti e Liberi, che potrebbe essere tranquillamente un buon nome per un partito in odore di 2% alle prossime politiche. Il Vado spazza via il Molassana (5-1), al terzo turno si presentano undici squadre. Per riportare i club in numero pari, la FIGC ripesca l’Edera Trieste. Non sono chiare le modalità del ripescaggio: la società non era stata eliminata nel secondo turno, ma addirittura nel primo. Poco importa, perché perde nettamente con l’Udinese. Il Vado supera per 2-0 la Juventus Italia (nulla a che vedere con la Vecchia Signora), sul campo vincono anche Lucchese e Valenzana. A queste quattro qualificate si aggiungono Libertas Firenze, Pro Livorno, Speranza Savona e i futuri campioni d’Italia della Novese, che godono di un anomalo bye. Proprio questi ultimi, dopo aver vinto il campionato, rinunciano al quarto di finale contro l’Udinese, che vince a tavolino così come la Libertas Firenze, costola della futura Fiorentina, ormai lanciatissima nel tentativo di vincere il trofeo senza mai scendere in campo.

Negli altri due quarti si suda: il Vado vince di misura contro la Pro Livorno (0-1), nell’ultima partita ufficiale della storia dei toscani. La Lucchese fa altrettanto con la Speranza Savona (1-2). La prima pagina di leggenda scritta dal Vado arriva in semifinale: costringe infatti la Libertas Firenze a giocare. Vincono i liguri 1-0 dopo i tempi supplementari. È il 25 giugno del 1922 e nell’altra semifinale succede di tutto. L’Udinese piega la Lucchese per 4-3, anche qui dopo l’appendice dei supplementari, ma un errore arbitrale in occasione dell’esecuzione di un calcio di rigore obbliga le due squadre ad affrontarsi nuovamente. L’Udinese vince 1-0 e si garantisce la finale con il Vado.

I liguri, a differenza dei friulani, militano in Promozione, l’equivalente della Serie B – ma con una Prima Categoria depotenziata dalle grandi secessioniste – della Figc dell’epoca. Ma le gesta di Levratto stanno già facendo il giro d’Italia, e l’attaccante può vantare una convocazione per un’amichevole tra una rappresentativa Liguria-Toscana e il Liverpool.

Il 16 luglio, a Vado Ligure, i rossoblù si giocano la finale con il vantaggio del fattore campo. In palio c’è una coppa d’argento di oltre otto chili, e non è dato sapere se il pubblico del Campo di Leo può davvero avere inciso con il suo tifo su una partita finita ai tempi supplementari. Il Vado è costruito attorno ai tre fratelli Babboni, al talento di Romano e alla spaventosa fame di gol di Levratto. Al minuto 118, Felice spara da 20 metri col sinistro. Il soprannome di sfondareti non arriverà per caso, e il pallone, secondo le ricostruzioni dell’epoca, buca la rete e termina addirittura contro la Torre di Scolta alle spalle del Leo.

La finale di Coppa Italia 1922 è l’ultimo atto di un anno caratterizzato dalla scissione: il 22 giugno, circa un mese prima, la spaccatura era ufficialmente rientrata grazie al lavoro di Emilio Colombo. Le squadre della CCI accettavano di rientrare in FIGC, che a sua volta dava l’ok a un campionato principale composto da 36 club divisi in tre gironi, lasciando il settore meridionale con la solita struttura dei tornei regionali, e imponendo però dodici retrocessioni per passare, nel giro di un anno, a una massima serie da 24 squadre. Inoltre, la FIGC concedeva la piena validità dello scudetto vinto dalla Pro Vercelli, dominatrice del concluso campionato della CCI. Una stagione con due campioni d’Italia, quindi, ma una sola vincitrice della Coppa Italia. Il Vado di Levratto, dei fratelli Babboni, di una città che nel 1935 avrebbe dovuto concedere alla Patria la sua Coppa per farla fondere, ricevendone una copia soltanto nel 1992. Al Vado, che pure nel 1922 aveva vinto il campionato di Promozione ligure, non sarebbe mai riuscita la scalata fino ai vertici del calcio italiano.

Può suonare strano, ma lo stadio di Vado Ligure non è intitolato a Felice Levratto, l’eroe di quella finale di Coppa Italia. Porta invece il nome di Giuseppe “Ferruccio” Chittolina, di professione portiere, morto il 7 aprile del 1946 a causa di una peritonite provocata da un calcio subito durante una partita tra Altarese e Vado. Aveva imparato i segreti del ruolo da Manlio Bacigalupo, trasmettendoli poi al fratello d’arte Valerio, destinato a una carriera scintillante e a una morte altrettanto balorda insieme ai compagni di quella squadra straordinaria che era il Grande Torino. Della Coppa Italia, invece, non si sarebbe sentito più parlare fino alla stagione 1926-27 - un tentativo abbozzato e prontamente abortito, in un calendario troppo fitto per supportarla – e al via vero e proprio, nel 1935-36. Ma nell’albo d’oro, ad aprire il libro dei vincitori, resta quell’anomalia, quel 1922 così lontano nel tempo da scivolare in maniera naturale verso il mito.

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