
Quando Théodore Vienne e Maurice Perez alla fine degli anni ‘90 del 1800 comprarono una parte di terreno al margine del parco Barbieux per costruire un velodromo, si aspettavano di potenziare la vita culturale e sportiva della città di Roubaix. Roubaix, e più in generale il Nord, erano il centro dell’industria tessile del Paese e pertanto definite la Manchester della Francia. Uno dei cuori pulsanti dell’economia francese.
Poi arriva la devastazione della Grande Guerra, e la zona inizia a essere definita un inferno. Peter Breyer sul quotidiano L’Auto (antenato de L’Équipe) nel 1919 dopo aver effettuato la ricognizione del percorso scrive: “Siamo entrati nel cuore stesso del campo di battaglia. È tutto raso al suolo! Non c’è più un solo metro di terreno che non sia sollevato. Non si vede altro che un cratere dopo l’altro. Le uniche cose che rimangono in piedi su questa massa di terra rimossa sono le croci con le strisce blu bianche e rosse. Questo è un inferno!”.
Inizialmente la descrizione non piace agli abitanti della zona, che la vedono quasi come uno scherno e un motivo di vergogna, ma poi il ciclismo, per quella strana distorsione per cui la sofferenza va esaltata anziché nascosta, cambia tutto. Oggi la descrizione è motivo d’orgoglio, è presente in tutte le pubblicità istituzionali della regione e attraversare l’Inferno è menzionato come un valore più o meno da tutte le squadre che partecipano. ”Forse un giorno sarà una buona idea fare una seduta di psicoterapia collettiva per capire perché ci siamo innamorati di questi ciottoli”, si legge su L’Équipe il giorno della corsa.
Me lo chiedevo anch'io il senso di immedesimarsi nella sofferenza di questi luoghi ma in questo caso preferisco prendere a prestito le parole del sempre ispirato Alexandre Roos su L’Équipe: “La Parigi-Roubaix ci ha sempre dato la sensazione di essere un'introspezione, dietro la cortina di polvere e la cavalcata frenetica, perché nessun'altra corsa risuona così tanto con i luoghi che attraversa, queste terre dimenticate e abbandonate dove torniamo ogni anno con lo stesso strazio nel cuore, che si stringerà ancora di più, più tardi, quando il clamore della gente del Nord si alzerà dalla foresta di Arenberg.”
Se si guarda la Parigi-Roubaix da questo punto di vista, Mathieu van der Poel e Tadej Pogačar sembrano scivolare sulle pietre dell’inferno come una crema lenitiva. Dopo la Milano Sanremo e il Giro delle Fiandre, proseguono il loro braccio di ferro a pedali anche qui, dove teoricamente lo sloveno avrebbe dovuto essere in difficoltà in quanto debuttante e Mathieu van der Poel dovrebbe sentirsi a casa come solo chi ha vinto due volte di fila può fare.
Come nelle occasioni precedenti, gli attacchi si susseguono tra le canoniche apparizioni di FRITS e LUC, i due tifosi belga che a bordo di uno scooter non si perdono mai la possibilità di vedere la corsa a bordo strada grazie a una conoscenza delle strade di campagna che non ha pari. Se non erro, nel gioco degli attacchi tra Sanremo, Fiandre e Roubaix ho contato 14 strappi di Pogačar e 6 di Mathieu van der Poel.
Durante l’ennesimo attacco, nel tratto di pavé numero 9 tra Pont-Thibault ed Ennevelin (km 220 — 1.4 km) una curva a destra mette fine alle ostilità, almeno per questa primavera. Tadej Pogačar, a terra dopo essere andato lungo, ha dovuto iniziare una lunga cavalcata in solitaria per potersi giocare una vittoria ogni chilometro più difficile. Un errore di valutazione a cui non siamo abituati da parte del campione del mondo, che d'altra parte sembrava già piuttosto stanco un centinaio di chilometri prima.
Mathieu van der Poel nel frattempo continuava a galleggiare sulle pietre senza apparenti problemi e anzi incrementando la distanza nonostante una foratura nel tratto finale del Carrefour de l’Arbre, la porzione di pavé peggio sistemata degli ultimi 40 chilometri.
Arrivato in solitario nel velodromo, alla fine si è preso la terza vittoria di fila, come non accadeva dai tempi di Moser (1978-1979-1980). «È un peccato [la caduta di Pogačar, nda] perché senza quell’errore ci saremmo giocati la vittoria nel velodromo», ha detto dopo l'arrivo «Sarebbe stata molto dura staccarlo ma ha sbagliato a valutare la curva e fa parte della corsa. È un corridore straordinario e questa vittoria non la sento come una rivincita». Sembra una dichiarazione di facciata ma in fondo è corretto: il Fiandre e la Roubaix sono corse a sé stanti. E se sulle ripide colline fiamminghe Pogačar ha dimostrato quest’anno, ancora una volta, di essere più forte; mentre nel Nord della Francia Mathieu van der Poel appare intoccabile, almeno per ora.
Il ciclista olandese è sempre apparso in controllo: di se stesso, del suo mezzo, della corsa. Su ogni attacco di Pogačar ha risposto prontamente e ogni qualvolta ha visto l’opportunità ha provato ad approfittarne. Anche nel momento della foratura a circa 15 chilometri dal traguardo, non è andato nel panico nonostante, come dichiarato in conferenza stampa, non avesse idea del distacco perché la sua radio era rotta. Ha pensato che in ogni caso l’ammiraglia era subito dietro (quindi con un vantaggio maggiore ai 30 secondi) e che l’avrebbero prontamente aiutato nonostante non li potesse avvertire.
Van der Poel, insomma, è parso in gestione come a Sanremo quando non è mai andato in difficoltà e anzi in cima al Poggio ha provato a dare la mazzata fisica e morale alla corsa. Viene da pensare che, senza l’intoppo del malanno la settimana del Fiandre, sarebbe stato probabilmente in grado di battere Pogačar anche la scorsa settimana o perlomeno di non mollare sulle prime rampe dell’Oude Kwaremont.
Lo sloveno, in ogni caso, non esce certo ridimensionato da una corsa simile, e c'è chi gliel'ha detto letteralmente. «Grazie per ingrandire il ciclismo Monsieur Pogačar, siete stato immenso quest’oggi», a parlare è il telecronista della TV francese, mentre Pogacar attraversava felice e soddisfatto il traguardo. Rimanendo su questa corsa specifica, di certo la gara del ciclista sloveno ha dato una prova empirica di alcuni luoghi comuni di questa corsa tanto particolare.
Primo tra tutti l’esperienza: conoscere ogni tratto di pavé come se si fosse nel salotto di casa ha infatti giocato un ruolo nella gara di quest’anno. Lo stesso Tadej Pogačar ai microfoni di France TV nel dopo corsa ha dichiarato che: «Ho attaccato seguendo le moto davanti a me, ma ho visto arrivare la curva all’improvviso e andavo troppo veloce, ho provato a frenare ma era tardi, shit happens». A meno di cinquanta metri dalla curva, il rilevatore di velocità presente a schermo mostrava una velocità di 58 km/h e, mentre Mathieu van der Poel dietro di lui aveva smesso di pedalare, lui ha continuato per un altro paio di pedalate (di troppo, possiamo aggiungere con il senno del poi).
La differenza di esperienza si nota ancora di più poco dopo la metà di corsa, quando Pogacar va in difficoltà dopo il tratto di Arenberg. Sembra patire i crampi e chiede insistentemente supporto, prima alla moto di assistenza neutra e poi alla sua ammiraglia. Forse la tensione e il nervosismo della corsa non l'hanno fatto alimentare nella maniera più corretta, forse semplicemente inizia a patire la stanchezza.
La corsa di Pogacar ha dimostrato anche che il peso è un fattore ma che il rapporto peso/potenza conta ancora di più. Coppi, Hinault, Tchmil, Knaven, Gilbert: non sono molti i corridori sotto i 70 chili ad aver trionfato a Roubaix però esistono e questo dice già qualcosa. Che la missione non sia impossibile nel senso letterale del termine. Oggi, tra l’altro, con le pressioni dei pneumatici e la loro larghezza, pesare meno non è un grosso fastidio per l’aderenza sulle pietre (con pneumatici più stretti erano avvantaggiati atleti più pesanti) e anzi può rivelarsi un vantaggio (in teoria meno peso e quindi meno pressione sui pneumatici dovrebbe portare a meno forature).
Infine hanno pesato anche le abilità di guida. Il pavé della Paris Roubaix è una bestia a sé stante e Tadej Pogačar ha dimostrato, ancora una volta, di saper guidare il mezzo con un talento ben al di sopra della media del gruppo. Sempre in controllo, il ciclista sloveno ha scelto le traiettorie con maestria. Fino alla caduta ha preso i tratti in pavé nel centro della carreggiata, dove si viaggia meglio ma dove l’equilibrio è messo a dura prova, e ha preso i lati del pavé per lanciare le sue accelerazioni. Nel finale, quando ha iniziato ad essere in evidente difficoltà e ad avere una pedalata molto meno leggera, molto più forzata, ha cercato ogni porzione di asfalto disponibile facendo lo slalom tra gli appositi blocchi di plastica inseriti dagli organizzatori per obbligare il passaggio sul ciottolato, prendendosi non pochi rischi. Ma perdendo poco o nulla sugli inseguitori.
Un capitolo a parte di questa storia va dedicato a Wout van Aert. «Perché di nuovo quarto?», gli ha chiesto suo figlio George con una certa crudeltà involontaria. E la risposta è stata semplice: «Perché ce n’erano tre più veloci di me». «È lo stesso risultato della settimana scorsa e davanti vediamo gli stessi tre uomini sul podio», ha spiegato meglio van Aert nel dopo corsa «Devi essere in grado di ammettere che quei tre sono stati migliori. Specialmente Mads [Pedersen], che non ha potuto stare davanti per la sfortuna [una foratura, nda]». Proprio Mads Pedersen ai microfoni di Eurosport dopo la corsa ha parlato di quel momento: «Non puoi mai sapere cosa avrei potuto fare senza la foratura ma anche questo è il bello di questa corsa. È bella da vedere perché tutto può succedere e oggi purtroppo per me sono stato io lo sfortunato con una foratura in un momento decisivo. Non è ideale forare durante un attacco di Pogacar. Che cosa posso fare? Accettare la situazione e cercare di tirare fuori il meglio e questo ho fatto».
Mads Pedersen e Wout van Aert sono i grandi sconfitti della settimana. Puntavano a vincere e invece terminano la campagna del Nord con l’infausta medaglia al collo di essere i migliori dei perdenti, dietro a Mathieu van der Poel e Tadej Pogačar. E se Mads Pedersen può perlomeno consolarsi con la terza vittoria alla Gent Wevelgem, Wout van Aert lascia le pietre con il retrogusto amaro del pasticcio nella Dwars Door Vlaanderen e la sensazione di aver fatto un salto indietro nelle gare che più gli si addicevano per caratteristiche fisiche, atletiche e di attitudine alla corsa.
La foresta di Arenberg è purtroppo l’immagine della sua condizione attuale. Presa in testa dietro a Pogačar dopo la prima mezza spallata con Pedersen, van Aert ha smesso di pedalare ed è sembrato quasi impaurito di fronte ai suoi principali rivali che lo stavano passando a destra e a sinistra. Uscirà dalla foresta distanziato dai principali favoriti, incapace di rispondere ai loro attacchi e completamente privo di ogni possibilità di vittoria. Lui stesso lo ha riconosciuto nel post gara: «Non mi sentivo davvero bene in quel momento. Ero già caduto prima della foresta. Non male, ma comunque avevo dovuto già inseguire e non avevo più le gambe fresche. Dopodiché, Matthew Brennan è rimasto con me a lungo. È stato davvero bello vederlo. Abbiamo cercato di lavorare insieme al meglio delle nostre possibilità. Alla fine è stata una sorpresa scoprire di poter ancora lottare per il podio. Ma oggi credo che il mio posto fosse il quarto». Sentirlo dichiarare che la sua stagione è solo all’inizio e che guarda a Freccia del Brabante, Amstel Gold Race e al Giro d’Italia solleva qualche interrogativo. La sua duttilità è stata sempre la sua arma migliore, ma se in questa fase della sua carriera diventasse la sua “condanna”?
Dopo la corsa, France TV ha intervistato Corinne Poulidor - figlia di Raymond Poulidor e mamma di Mathieu van der Poel. È sembrata emozionata mentre raccontava di quanto fosse stressante seguire le prodezze del figlio lungo tutta la giornata. La giornalista le ha chiesto che cosa si provi ad avere un figlio così speciale e lei ha risposto che stesse iniziando a crederci, che fosse speciale, proprio in quel momento.
La dichiarazione dopo la gara che più mi ha colpito è stata però quella di Tadej Pogacar. «Se fossi più giovane», ha detto il ciclista sloveno in conferenza stampa «Mathieu van der Poel sarebbe il mio idolo».