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Il duello tra van der Poel e Van Aert al Giro delle Fiandre
19 ott 2020
Il capitolo più esaltante di una rivalità che cambierà il ciclismo.
(articolo)
16 min
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Siamo a metà ottobre, la seconda ondata è alle porte e il Giro d’Italia, come tutte le manifestazioni sportive, viaggia a fari spenti nell’incertezza, arrivato ai piedi delle grandi tappe di montagna con Joao Almeida in maglia Rosa. In questo clima di attesa - di attesa di una fine imminente - tutti gli occhi degli appassionati di ciclismo sono puntati al di là delle Alpi, molto al di là. In Belgio, per l’esattezza, dove si sta correndo una delle corse di un giorno più importanti al mondo, una delle più belle in assoluto: il Giro delle Fiandre, De Ronde, come la chiamano da quelle parti.

A sfidarsi ci sono quasi tutti i migliori specialisti al mondo, con qualche aggiunta e qualche defezione: non ci sono i due grandi vecchi, Peter Sagan e Greg van Avermaet. Fa strano chiamarli così, soprattutto Sagan che di anni ne ha 30, non tanti per un ciclista, ma entrambi appartengono ormai a un ciclismo che ha fatto il suo tempo, cannibalizzato dall’esplosione della nuova generazione di talenti, una generazione che di talento ne ha a pacchi.

C’è il vincitore uscente, Alberto Bettiol, con il suo compagno Sep Vanmarke. C’è anche il campione del mondo, Julian Alaphilippe, anche se questa non è di certo una di quelle corse che si addicono sulla carta alle sue caratteristiche. Però Alaphilippe ci vuole provare, sia mai che in questa stagione così assurda ci esca fuori anche un’altra assurdità.

Ma nonostante i molti possibili protagonisti, gli occhi del mondo erano tutti per due ragazzi che vengono da un altro sport, il ciclocross. Un altro pianeta, se vogliamo, visto come stanno in questi pochi mesi distruggendo il mondo del ciclismo. Ma è una distruzione positiva, non fine a se stessa: un annichilimento che ci porterà in una nuova dimensione, la loro dimensione. È finita l’epoca dei ciclisti iperspecializzati, degli attacchini negli ultimi metri, delle vittorie in volate di gruppo dopo una gara chiusa e senza spunti.

Chiodo scaccia chiodo

Mathieu van der Poel e Wout Van Aert - sì, stiamo parlando di loro - hanno un percorso simile ma che a un certo punto si è diviso. Logica vorrebbe che partissimo dall’inizio per risalire poi fino ai giorni nostri. Invece, se me lo consentite, farei un percorso al contrario.

Partirei, cioè, dalla fine: da questa stagione tagliata a metà e poi compressa tutta nel finale. Wout Van Aert è ripartito dopo la sosta a tutta, vincendo alle Strade Bianche, battendo Alaphilippe alla Milano-Sanremo. Poi è andato al Tour de France, in appoggio a Primoz Roglic, e anche lì ha vinto tappe in volata, ha tirato come un treno in salita. Sembrava un superuomo venuto dallo spazio. Un carrarmato inarrestabile, capace di sfondare le linee nemiche semplicemente passandoci sopra e spazzando via tutto.

Wout Van Aert alza le braccia sul traguardo di Sanremo, la sua vittoria più importante finora su strada (MARCO BERTORELLO/AFP via Getty Images).

Ci si chiedeva come fosse possibile, come potesse un uomo solo fare tutto quel lavoro da solo. Vincere la Sanremo e poi spianare le salite al Tour de France. Sfuggiva però che Van Aert non è un ciclista come siamo abituati a pensare, semplicemente perché il ciclocross fornisce una preparazione diversa, insegna ad andare a tutta per un’ora e più, come su strada capita raramente ormai. In più, Van Aert non è un crossista qualunque ma ha vinto tre mondiali di fila fra i 22 e i 24 anni, da U23 ogni tanto già correva fra gli Elite (e vinceva, spesso), ha vinto due volte di fila la Coppa del Mondo.

In poche parole, per tre-quattro anni Wout Van Aert ha dominato il mondo del ciclocross e pareva a tutti che fosse un fenomeno senza pari. Pareva, perché a un certo punto è arrivato un altro fenomeno, più grande di lui, a scalzarlo da quel piedistallo: è già una cosa assurda che nasca uno come Van Aert, perfetto per correre in bici, che decida effettivamente di correre in bici dominando in lungo e in largo ed esprimendo tutto il suo potenziale. Che ne nascano due, a così breve distanza, e che entrambi si ritrovino a correre nella stessa specialità, è pazzesco. Eppure, per sfortuna di Van Aert, è arrivato Mathieu van der Poel che in poco tempo gli ha preso le misure, è cresciuto fisicamente fino a diventare il numero uno indiscusso nel ciclocross.

Van der Poel non è uno che passava di lì per caso, ovviamente. Suo nonno era Raymond Poulidor, l’eterno secondo che ha avuto la sfortuna di trovare sulla sua strada due fra i più grandi ciclisti della storia, prima Anquetil e poi Eddy Merckx. Suo padre è Adrie van der Poel, pluricampione nazionale olandese di ciclocross, capace su strada di vincere un Giro delle Fiandre, una Liegi-Bastogne-Liegi, una Amstel Gold Race, e svariate altre corse di un giorno fra cui la Parigi-Tours del 1987.

Mathieu, di madre francese, cosa che mi fa propendere per una pronuncia alla francese del suo nome invece di un più inglesizzato “Matthew”, ha seguito le orme del padre tuffandosi a pesce nel fango del ciclocross senza disdegnare anche un po’ di strada. Nel 2013 è diventato campione del mondo Juniores sia nel ciclocross che su strada (davanti a quel Mads Pedersen che ormai tutti abbiamo imparato a conoscere), nel 2015, dopo solo un anno fra gli U23, ha vinto il mondiale ciclocross nella categoria Elite. Da lì in poi gli è bastato poco per ambientarsi e iniziare a dominare come pochi altri nella storia dello sport hanno saputo fare.

Wout Van Aert e Mathieu van der Poel in una gara di ciclocross nel gennaio 2019 (DAVID STOCKMAN/AFP via Getty Images).

Guardare le statistiche di Mathieu van der Poel in questi ultimi anni nel ciclocross è imbarazzante: una serie infinita di primi posti, intervallata qua e là da un piazzamento sul podio, ma raramente. Quando sta bene domina, quando sta male vince, quando proprio le gambe non girano neanche a parlarne si piazza comunque sul podio. Agli altri restano letteralmente le briciole.

Tanto che Wout van Aert, il suo rivale a inizio carriera, vedendo come si stava mettendo male la situazione nel 2018 fa il grande passo e va a farsi la campagna del nord su strada riuscendo a cogliere anche qualche buon risultato, senza nessun acuto. Arriva terzo alla Strade Bianche, decimo alla Gand-Wevelgem. Al Giro delle Fiandre, il vero obiettivo della sua campagna su strada, rimane bloccato nel gruppetto all’inseguimento di Niki Terpstra e chiude solo nono.

L’anno dopo anche van der Poel lo segue su strada, come un’ombra. E la stagione di Van Aert non decolla mai: di nuovo terzo alla Strade Bianche, sesto alla Milano-Sanremo, anonimo al Fiandre e alla Roubaix. Probabilmente provato psicologicamente dalla presenza dello storico rivale, che invece andava in giro a dominare in lungo e in largo anche su strada, Van Aert è rimasto per un anno un po’ sospeso a metà fra il vecchio mondo del ciclocross e la sua nuova avventura su strada. Vince il campionato nazionale belga a cronometro, scoprendosi fortissimo nella specialità, ma la sua stagione si chiude contro una transenna durante la cronometro di Pau al Tour de France con sole quattro vittorie.

Van der Poel, invece, incantava il mondo: dopo aver corso la più bella Amstel Gold Race di sempre, annichilendo Julian Alaphilippe praticamente ovunque negli scontri diretti, era tornato a correre in Mountain Bike giocandosela alla pari con Nino Schurter (probabilmente il più forte biker di sempre, e lo dico con pochissimi timori di essere smentito), poi aveva dominato il Tour of Britain e si apprestava a correre il Mondiale su strada da principale favorito.

Ancora una volta, quindi, il fenomeno Van Aert era passato da essere considerato un alieno, un superuomo destinato a vincere in lungo e in largo, all’essere solo un comprimario del vero alieno, van der Poel.

Capovolgimenti

Il lungo lockdown, però, aveva inizialmente ribaltato la prospettiva. Se infatti l’olandese non era riuscito a ritrovare il giusto colpo di pedale, la giusta esplosività sugli strappi che aveva caratterizzato i suoi trionfi passati, il belga da parte sua era ripartito carico come una molla, come se da tutta la vita non aspettasse che quel preciso momento.

Al via di questa strana stagione, iniziata ad agosto, Van Aert ha vinto ovunque con prestazioni mostruose. Tanto che alcuni hanno iniziato a dire che il più forte, fra i due, era certamente lui. Che fine ha fatto quell’altro, quello che dicevate che doveva distruggere tutto al suo passaggio? Poco importava che si spiegasse loro la differenza fra i due, le differenti strutture fisiche, le diverse caratteristiche, il fatto che, per esempio, Mathieu van der Poel ha bisogno di correre di più per trovare la condizione giusta.

Tutto questo però assume un'importanza marginale, perché i destini dei due rivali si separano e si riallacciano come i fili delle cuffiette del telefono. E a loro poco importa sapere chi è più forte dell'altro. Finora si erano guardati da lontano, si erano scontrati poco e male. Il primo botto c’è stato alla Gand-Wevelgem di una settimana fa: nel finale rimane un gruppetto di nove uomini, tutti corrono contro quei due mostri che corrono uno contro l’altro. Alla fine partono in quattro, gli altri aspettano che si muovano i due favoriti che però si marcano. Davanti Pedersen vince la volata beffando ancora Trentin e un ottimo Sénéchal; dietro, gli altri iniziano a capire l’andazzo e partono a ripetizione lasciando quei due lì a guardarsi, uno più nervoso dell’altro. Alla fine chiudono 8° e 9°, ultimi due del gruppetto di testa.

Le dichiarazioni del dopo gara sono al vetriolo: ognuno accusa l’altro di aver corso per farlo perdere più che per vincere. Van Aert si spinge oltre e rinfaccia al rivale le sue vittorie di quest’anno: «Forse si è dimenticato che io ho già vinto molto e potevo permettermi di giocare d’azzardo. Ora siamo entrambi a mani vuote». «Sapevo che potevo giocarmi le mie carte allo sprint ma sapevo anche che ci sarebbero stati degli attacchi - ha proseguito Van Aert -. Ma non potevo continuare a rispondere a tutti con quello sempre a ruota». “Quello”, ovviamente, è van der Poel, che il belga neanche nomina in un rimando di stoccate che ricordano da vicino quelle fra Coppi e Bartali, quando Gino parlava di Fausto chiamandolo “quello là”.

Van der Poel, dal canto suo, ha risposto dicendo che capisce lo sfogo del rivale, ma «anch’io volevo vincere la corsa. So che è uno dei migliori al mondo. Se non lo fossi andato a prendere [si riferisce a un precedente attacco di Van Aert, prontamente chiuso da van der Poel] non avrei comunque vinto. Questa è la corsa, entrambi abbiamo corso per vincere».

Un episodio che ha spaccato ancor di più il pubblico del ciclismo fra “vanaertiani” e “vanderpoelisti”, una divisione che non si vedeva da anni da queste parti e che non è solo nazionalistica - fra olandesi e belgi - ma investe la gran parte del mondo ciclistico.

Luc Claessen/Getty Images

Anche questo è un segno di quanto grandi siano questi due ragazzi. Quanto siano già, in così poco tempo, diventati il faro del movimento, almeno per quel che riguarda le corse di un giorno. Hanno spazzato via tutto il vecchio, tutta la stucchevole retorica del “bravi tutti, tutti eroi, i nostri ragazzi”, sostituendola con il tifo, quello vero, che ti tiene incollato al televisore per ore e ore in attesa che succeda quello che tutti aspettano, che si accenda la sfida fra i due grandi campioni.

De Ronde

In questo senso, il Giro delle Fiandre di quest’anno era forse il più atteso degli ultimi anni. Era finalmente il palcoscenico ideale per le due tifoserie ancor prima che per i due ciclisti. Era anche l’ultima grande Classica dell’anno, in questa stagione paradossale in cui sono saltate l’Amstel e la Roubaix, con il calendario capovolto e il Lombardia a ferragosto anziché a chiudere la stagione a fine ottobre.

Non che non ci abbiano provato, gli altri, a entrare nella discussione. Alaphilippe ci ha provato attaccando praticamente su ogni muro dal secondo passaggio sul Vecchio Kwaremont in poi, prima vanamente in coppia con Yves Lampaert, poi invece sorprendendo il resto del gruppo in un momento in cui solitamente si dovrebbe tirare il fiato dopo lo strappo.

L’unico a seguire il campione del mondo, in quel punto all’apparenza insignificante a 40 chilometri dal traguardo, era proprio Mathieu van der Poel, lesto a capire le potenzialità dell’azione del francese. Dietro il gruppetto era esploso nell’anarchia più totale. Tutti ovviamente guardavano Wout Van Aert, da un lato con il terrore di favorirlo in qualche modo, dall’altro spaventati da quei due che in un attimo avevano guadagnato un discreto vantaggio. L’anarchia però durava ben poco perché nel giro di un chilometro era proprio Van Aert a lasciare tutti lì per partire all’inseguimento dei due al comando.

Il momento dell’attacco decisivo di Alaphilippe. L’unico a seguirlo è van der Poel. Dietro di loro, il vuoto (NICO VEREECKEN/BELGA/AFP via Getty Images).

All’imbocco del Taaienberg, ai meno 38 dal traguardo, van der Poel forza il ritmo per non far rientrare il belga della Jumbo-Visma, Alaphilippe gli si aggancia alla ruota come una cozza allo scoglio. Van Aert, un pezzo alla volta, rientra. Da dietro ci prova anche Bettiol a riportarsi sotto, ma il campione uscente è braccato dai compagni di Alaphilippe che lo fanno desistere. Davanti, poi, ci sono tre locomotive che rendono inutile anche solo pensare di provarci.

Il vantaggio dei tre al comando lievita in poco tempo: in tre chilometri sale a oltre 30 secondi. È qui, quando mancano 35 chilometri alla conclusione, che si consuma il dramma di Alaphilippe che però è anche l’inizio dell’estasi per gli altri. Wout Van Aert è in testa al terzetto, ci sono delle moto a bordo strada, il gruppetto si avvicina con il belga che cerca di sfruttare la scia delle moto finché può e perciò si sposta dalla scia proprio all’ultimo momento. Van der Poel è attento e cambia traiettoria in tempo mentre Alaphilippe, distratto, probabilmente perché stava cercando di comunicare qualcosa all’ammiraglia, non si accorge del repentino cambio di direzione e si schianta contro il bauletto posteriore della moto della giuria.

La botta è forte, il francese rimane steso sull’asfalto a metà fra la sofferenza e l’incredulità. Dopo pochi secondi le sue urla di dolore entrano nel microfono della telecamera al seguito e si diffondono nei televisori di chi sta guardando da casa. È la sofferenza di un ragazzo che stava facendo la corsa della vita in un contesto a lui in teoria poco congeniale. Lui, che di solito sa far bene una cosa sola e con quella sola cosa ha conquistato il Mondiale, era lì al comando del Giro delle Fiandre a giocarsela ad armi pari con quei due là che invece su queste strade sono a casa.

Nella caduta di Alaphilippe c’è il dramma del campione abbattuto, è chiaro, ma c’è anche l’estasi suprema di ciò che sarebbe dovuto essere e che stava per non essere. È la normalità delle cose che riprende il suo corso per far sì che la leggenda possa procedere senza intoppi. Se c'è qualcuno che deve uccidere il troiano Ettore, quello è Achille, non un altro acheo.

Il duello

Senza Alaphilippe, stroncato da una disattenzione sul più bello, i due rivali erano quindi da soli. Gli avversari all’inseguimento ormai accusavano un ritardo di oltre un minuto che continuava a crescere inesorabile. E i due si davano cambi regolari, come rivali sì, ma senza farsi sgarbi, che non c’è peggior sconfitta di una vittoria ottenuta con l’inganno. Gli ultimi 30 chilometri sono una lunga attesa dell’ultimo passaggio sul Vecchio Kwaremont, qualcuno attaccherà l’altro. Ma niente: spianato uno attaccato all'altro.

Allora sul Paterberg vedrete che van der Poel ci proverà. Niente: in quattro pedalate i due rivali spianano anche le rampe del Paterberg. A quel punto, dalla cima del Paterberg, mancano 13 chilometri e sono solo loro due, i due mostri, i due rivali, che si studiano in attesa della resa dei conti. In quel momento tutti gli appassionati di ciclismo sono incollati allo schermo a chiedersi chi vincerà, a fare pronostici in base agli sguardi, alle sensazioni, perché nessuno poteva essere lì a guardarli dal vivo, per i motivi che sappiamo. Sul Vecchio Kwaremont Van Aert sembrava più scomposto, quindi van der Poel ne ha di più; ma sul Paterberg l’olandese non ha provato ad attaccare, quindi non ce la fa più.

I tifosi dell’uno gufano la vittoria dell’altro, convinti che questo, in qualche modo, cambierà le sorti del duello. Io stesso, in quei lunghi 13 chilometri, mando alcuni messaggi a degli amici: vincerà lui; no, vedo meglio l’altro. «Fra i due dico Van Aert a questo punto che mi sembra più scafato su strada in queste situazioni», scrivo tremando in un gruppo WhatsApp alle 15.35. C’è il Giro d’Italia, nel frattempo, migliaia di chilometri più a sud, ma nessuno lo sta guardando. Arrivano messaggi da tutte le parti, «Chi vince?», «WvA o MvdP?». Nessuno guarda il Giro, sono tutti concentrati a nord, occhi puntati sui muri della Ronde.

L’attesa sembra eterna ma è l’attesa che tutti noi aspettavamo, se mi passate l’espressione. Erano anni che attendevamo il momento in cui avremmo atteso la sfida finale fra questi due fuoriclasse, uno contro l’altro, da soli. Gli altri via, fuori, uno dopo l’altro. Un’attesa prolungata dall’intervento esterno di una pandemia globale, resa ancor più febbrile dai risultati dei due da agosto in poi, che sembravano aver ribaltato la situazione, sovvertito le gerarchie. I “vanaertiani” sfottevano i rivali “vanderpoelisti” schiaffeggiandoli metaforicamente con i risultati straordinari del belga, come fossero quelli il simbolo di una redenzione attesa per anni. Gli altri che pazientavano silenti, consci che prima o poi l’olandese sarebbe uscito dall’accampamento acheo per vendicarli - novelli Patroclo.

All’ultimo chilometro Van Aert si piazza a ruota dell’olandese, che a quel punto sa di dover fare volata di testa, ovvero partendo da davanti. Pochi giorni fa ha perso alla Freccia del Brabante contro Alaphilippe in una situazione simile: era in testa nel finale ma ha atteso troppo, fino a farsi sorprendere rimanendo chiuso e poi troppo indietro per riuscire a rimontare. Stavolta sa bene cosa fare: rallenta l’azione, gestendo il vantaggio accumulato in precedenza. Rallenta per evitare di lanciare lo sprint all’avversario, per non dargli nessun punto d’appoggio. «Più a lungo decideva di attendere, meglio era per me», ha detto van der Poel alla fine della gara. «Il fatto che non sia partito era un segno che anche lui era al limite. L’ho controllato alla perfezione, mi è arrivato accanto, ero pieno fino alle orecchie ma ho continuato a spingere. Pensavo di essere indietro, non ho nemmeno osato esultare».

I due partono contemporaneamente ai 200 metri dal traguardo. Uno sprint lunghissimo che vive due fasi diverse: la rimonta di Van Aert, prima, che risale lungo il fianco del rivale, un pezzettino dopo l’altro; la resistenza di van der Poel, poi, che sembra cedere ma rilancia, fino alla fine. «Non ero sicuro [di aver vinto], normalmente lo so sempre ma dopo lo sprint ero devastato», continua van der Poel. «All’improvviso la linea era lì, ho fatto un salto e non ho più guardato alla ruota di Wout. Nessuno di noi due sapeva chi avesse vinto. Sapevo di dover fare lo sprint della vita per riuscire a battere Wout e ho fatto tutto alla perfezione».

ERIC LALMAND/BELGA MAG/AFP via Getty Images

Sul colpo di reni, Mathieu van der Poel tiene per un soffio la posizione sul belga che rimontava al suo fianco. Dopo 244 chilometri di corsa, i due grandi rivali sono separati da una manciata di centimetri. Eppure è in quei pochi centimetri che si racchiude la grandezza di questo duello fra due giganti di questo sport che sono destinati a cose grandiose, entrambi.

Mathieu van der Poel, in una stagione che in molti, per lui, considerano deludente, ha chiuso con la vittoria del Giro delle Fiandre. Una corsa che per altri ciclisti significherebbe il coronamento di un’intera carriera, per van der Poel viene vista come un premio di consolazione al termine di una stagione un po’ così, in cui ci si aspettava di più e di meglio da lui.

Ecco: è da questa piccola considerazione che alla fine, credo, si capisca la grandezza di Mathieu van der Poel.

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