
All’Estadio Monumental di Lima c’è una luce strana, l’atmosfera dei big match: anche se il campionato peruviano è appena iniziato, l’Universitario de Deportes ospita il Melgar che è già in fuga, capolista con quattro punti di distacco dalla U. Dopo quattro minuti Riveros, appariscente difensore dei "Cremas", come vengono chiamati i giocatori dell'Universitario de Deportes, sbaglia un retropassaggio: Kenji Cabrera si infila tra le maglie avversarie e porta in vantaggio il Melgar. Sono passati appena quattro minuti. I punti di distacco, ora, sono sette. C’è qualcosa di peggio di veder la tua diretta avversaria vincere in casa tua? C’è, ovviamente.
Poco più di mezz’ora più tardi, a far calare sullo stadio uno spleen ancora più prepotente, arriva un annuncio. I cronisti ci mettono qualche secondo a dare la notizia, interrotti da un estemporaneo picco d’entusiasmo per un’azione offensiva della U che non si concretizza. A palla ferma possono dirlo: Mario Vargas Llosa è morto. Dieci anni esatti dopo Eduardo Galeano, il Sudamerica ha perso un altro dei suoi monumentali interpreti letterari.
«Uno scrittore non sceglie di cosa scrivere: è ciò che deve scrivere che sceglie lui», disse una volta Vargas Llosa. Una frase non particolarmente originale, che però – come fa la grande letteratura – diventa estremamente didascalica. Se dovessi scegliere come morire, credo che vorrei farlo mentre la mia squadra del cuore sta giocando. Magari perdendo. A patto che come è successo all’Universitario, come scosso da un’onda elettrica invisibile, involontaria, si scateni un ritorno di fiamma. «Sono tifoso dell’Universitario de Deportes, la garra del Perù, perché lo stadio si riempie sempre, quando gioca. Noialtri tifosi sappiamo che è proprio quando la squadra va male che dobbiamo starle più stretti al fianco». Con due gol dell’argentino José Rivera subentrato dalla panchina, l’Universitario ha saputo rimontare e vincere per 4-1. Mario Vargas Llosa, ovunque egli si trovasse, forse ha sorriso.
Sono praticamente nati insieme: quando lo scrittore peruviano, premio Nobel nel 2010, è venuto al mondo, nel 1936, l’Universitario stava vivendo la sua preadolescenza, fondato appena dodici anni prima. Nella sua autobiografia, Il pesce nell’acqua, “Varguitas” (il suo apodo, come fosse un centrocampista segaligno della Nazionale peruviana), ha raccontato che il primo contatto con il fútbol è avvenuto grazie al maggiordomo di suo nonno, prefetto e console in Bolivia, che lo portava allo stadio e al cinema della parrocchia.
Nel Perù degli anni quaranta, come oggi in fondo, scegliere la squadra per cui fare il tifo è un’attestazione d’appartenenza che trascende il calcio: all’aristocrazia accademica della U fa da contraltare la palingenesi uberproletaria dell’Alianza, fondata dagli operai della scuderia di cavalli del Presidente Leguía y Salcedo (la maglia a strisce deriva dalle divise dei fantini). Il contesto familiare di Vargas Llosa non lasciava adito a dubbi: i suoi sogni si sarebbero formati su calle José Díaz, la strada che costeggia l’Estadio Universitario, cristallizzati attorno alle gesta del "mariscál" Da Silva, della "saeta rubia" Toto Terry (detto anche "el Gringo", uno che non se ne sarebbe mai andato da Lima perché diceva fosse più bella di Parigi, e che rifiutò anche un trasferimento alla Lazio), di Lolo Fernández, centravanti gentleman, uno – giusto per dare una dimensione al mito – al quale è stato intitolato lo stadio mentre era ancora in attività. Personaggi che avrebbero tranquillamente potuto far parte dei suoi libri.
"Non sono mai stato un buon calciatore", racconta ancora nell’autobiografia. "Però compensavo con l’entusiasmo l’assenza di destrezza". Al collegio militare – che ne ha segnato l’adolescenza, e che ha saputo ritrarre in tutta la sua complessità in uno dei suoi romanzi più celebri, La città e i cani – quando l’hanno portato sul campo e gli hanno chiesto se sapesse giocare ha risposto «faccio nuoto, capitano». «Allora fatti un giro di campo a dorso, cane», si è sentito rispondere.
La soddisfazione di scendere in campo con la U se l’era tolta a undici anni grazie al "Toto" Terry, che abitava nel suo quartiere e che lo portò allo stadio per giocare una partita con le giovanili. «Scendere in quel campo enorme, indossando l’uniforme dei "Cremas": non è quanto di meglio possa succedere?». Di quell’esperienza “Varguitas” ricorda di non aver toccato neppure una volta la palla. «Eppure resta una delle esperienze più belle e ricche che abbia vissuto». In quegli anni sognava di diventare un calciatore, al massimo un sindacalista. La vita aveva in serbo qualcosa di diverso.
In campo, all’Estadio Universitario, sarebbe tornato nel febbraio del 2011. Quattro mesi prima, un po’ a sorpresa, gli avevano conferito il Premio Nobel per la Letteratura. La U aveva sconfitto, nel giro di una settimana, per due volte l’Alianza e si stava consacrando campione del Perù. Prima che la squadra scendesse in campo, gli altoparlanti avevano invitato i cinquantamila spettatori sugli spalti a tributare un applauso al fuoriclasse dei "Cremas".
Al centro del campo, sventolando una gran bandiera, Vargas Llosa raccoglieva l’ovazione che aveva sognato di abbracciare da calciatore. Ha salutato il palco presidenziale, le gradinate popolari Barra Oriente. Gli hanno regalato una maglia. Qualcuno gli ha fatto rotolare ai piedi un pallone, lui ha fatto qualche palleggio. Non era poi così male, in fondo. Poi ha pronunciato un discorso, più entusiasta che commosso. Ha detto che essere nominato socio onorario, dopo sessant’anni di passione per quei colori, gli riempiva il cuore. Perché «la U è molto più che una squadra di calcio: è un mito, una leggenda, una tradizione. Una delle storie più belle scritte dallo sport peruviano». «Un mito che ha fatto vibrare i nostri cuori lungo tutti questi anni. Le sue sconfitte, i suoi contrattempi, ci hanno fatto soffrire. Ma con la garra, con l’amor proprio, con un nome dietro il quale si sono accodati peruviani di tutte le regioni, di tutte le classi sociali, di tutte le etnie e di tutte le religioni, ha sempre saputo far rinascere il nostro entusiasmo. La “U” è una delle espressioni di fraternità più forti del Perù».
Lo sport, “Varguitas”, lo avrebbe seguito dalle tribune, più che praticarlo. Nonostante pensasse – e dicesse – che «nella civiltà dello spettacolo l’intellettuale è interessante solo se si interessa del giocattolino che va di moda, ed è così che diventa un buffone», lo sport raccontato è sempre stato nelle sue corde.
Frequentava stadi e plaza de toros, entusiasmandosi per le gesta di calciatori e toreri. Uno dei suoi primi articoli, scritto nel 1952 per il quotidiano La Industria en Piura (nella città di Piura aveva trascorso un bel po’ di tempo quando suo nonno era prefetto), si chiama “Aquí habla el Estadio”, “Parola allo stadio”. Trent’anni più tardi sarebbe stato lui, la parola dallo stadio: durante il Mondiale del 1982 El País gli aveva affidato una rubrica sulle sue pagine, in cui Vargas Llosa scriveva "a noialtri che dal calcio traiamo piacere, che ci piace, non ci sorprende per niente quanto sia diventato importante come intrattenimento collettivo".
"Senza paura di esagerare", scriveva sulle pagine di El Comercio nello stesso periodo "si può dire che di norma le pagine sportive sono le più vitali e immaginifiche di ogni giornale e di ogni rivista. I giornalisti sportivi, quando hanno del talento, non descrivono mai una partita, non fanno la radiografia alla performance di un giocatore: lo elevano a mito. Cioè lo sottraggono alla sua effimera, passeggera realtà concreta per fissarlo nella realtà permanente, atemporale e immateriale della finzione". Nel 2003 avrebbe scritto un articolo celebrando la vittoria nella Copa Sudamericana del Cienciano del Cusco, vittorioso a sorpresa contro il River Plate: "Una di quelle sere in cui non sono i piedi a segnare i gol, ma il cuore, sere di quelle che si ricordano come una delle esperienze che riconciliano noialtri tifosi, poveri diavoli, con la vita". I calciatori, eroi moderni, gli sembravano "infinitamente meno innocui dei politici o dei militari, nelle cui mani l’idolatria delle masse può trasformarsi in uno strumento terribile".
La passione per la palla che rotola sul verde del prato lo aveva portato a organizzare il suo viaggio di nozze in Brasile, nel 1965: ne aveva approfittato per andare a vedere un’amichevole tra la Seleçao e la Germania al Maracanã, dove si era innamorato di Pelè, «il più straordinario giocatore che abbia mai visto».
Nonostante non sia propriamente uno degli scrittori latinoamericani di riferimento quando si parla di letteratura collegata al calcio, nondimeno Vargas Llosa aveva una forma mentis profondamente influenzata dal calcio, strumento di costruzione identitaria e culturale che, come lamentava Galeano, non ha senso che non venga incluso nei libri di storia per provare a raccontare l’America del Sud.
Lo aveva capito, prima di chiunque altro, Jorge Valdano: nel 2007, quando era direttore generale della Escuela de Estudios Universitarios Real Madrid all’Università Europea di Madrid, gli affidò la cattedra del corso denominato “Real Madrid”. In fondo “Varguitas” era già un Galáctico, vincitore del Rómulo Gallegos, del Cervantes, del Príncipe de Asturias de las Letras. Non aveva ancora vinto la sua personalissima Champions League, ma insomma. L’insegnamento prevedeva progetti formativi e di investigazione orientati a dare agli studenti una visione globale e completa dello sport. Fresco di Nobel sarebbe anche sceso sul prato del Bernabeu per dare il calcio d’inizio a una partita tra "i Blancos" e il Valencia. Lo avrebbe fatto con l’entusiasmo del ragazzino affascinato dal calcio, e probabilmente a quel punto già anche dal potere, dalla ricchezza, dalla malia aristocratica – non è un caso che Eduardo Galeano, agli esatti antipodi politicamente parlando, fosse il portavessillo dei grandi rivali del Madrid, il Barça-già-di-Guardiola.
Il Madrid era stato il suo primo amore spagnolo – era arrivato nella capitale spagnola nel 1959, per laurearsi in Lettere e Filosofia all’Università Complutense, in pieno franchismo: «il calcio era una delle poche cose che si potessero seguire senza dover sopportare la pressione che si respirava in strada». Però aveva vissuto per un periodo anche a Barcellona, nel 1970, epicentro degli esuli latinoamericani e del boom letterario, dove viveva nello stesso quartiere (borghese) di Gabo, dove i due erano diventati amici dividendo la tavola e guardando a vicenda i figli l’uno degli altri, dove probabilmente erano state sussurrate parole che avrebbero portato a un allontanamento tra i due, fino alla finale spaccatura – in senso letterale – determinata da un pugno, ma ci arriviamo. In quegli anni, nel Barcellona, giocava Hugo Sotil, il primo grande diez peruviano sbarcato in Europa, simbolo di un popolo che trova dall’altra parte dell’Oceano la sua emancipazione, che guida rivendica l’esistenza (anche nel calcio) del suo popolo. Mi ricorda Marco Ciriello che “Varguitas” si sarebbe poi paragonato a Sotil in un’intervista del 2011 su El País intitolata “Il calcio è una religione laica” (inserita, come molte altre, in “Davanti allo specchio. Conversazioni con Juan Cruz Ruiz”, pubblicato da Mimesis): entrambi, lo scrittore e lo sportivo, si erano costruiti «con disciplina e caparbietà».
Nonostante l’immedesimazione con Sotil, con la filosofia dell’immaginazione al potere del Barça di Crujiff, Vargas Llosa non ha mai ceduto alle sirene degli Anni Settanta: anzi, proprio in quegli anni – controtendenza in tutto, controtendenza sempre – ha iniziato a manifestarsi più che mai scettico sulle derive del comunismo nella Cuba di Castro. Nella sua vita si è ricreduto, lo ha fatto molte volte, e su tantissimi aspetti, ma mai sulla fede calcistica.
Anni dopo sarebbe tornato a Barcellona, in una manifestazione moltitudinaria contro l’indipendenza della Catalogna. «La Catalogna che vorrei è quella che fa da capitale culturale della Spagna, come quando ci vivevo io».
«Inventiamo la finzione per poter vivere, in qualche modo, le molte vite che vorremmo vivere, nonostante ce ne tocchi in sorte solo una». Nella sua, di vita, che è stata mille vite, come quella di un idolo calcistico, a pensarci bene, di un idolo capace di debordare dalla sua essenza, è stato candidato alla presidenza del Perù e compagno di una delle modelle più belle dei suoi tempi, Isabel Preysler. Ha giocato in molti campionati e con diverse Nazionali, quella spagnola, quella dominicana: è diventato un idolo, come il calciatore di quel famoso racconto del "Negro" Fontanarrosa, quando oltre alle parole ha sferrato pugni – uno, quello celebre a "Gabo", Gabriel García Márquez, nel 1976 a Città del Messico.
E poi ha camminato, tanto, tantissimo. In quell’incedere incessante, metodico, sistematico, ritrovava l’attitudine al sacrificio di tipo militaresco del collegio, la predisposizione alla fatica come viatico all’immaginazione. Nel 1979 ha dedicato un saggio al running pubblicato sulla rivista Caretas, lo ha intitolato Correre, piacere intellettuale perché diceva che "lo jogging propizia e arricchisce il piacere di pensare. Sono convinto che il mio rendimento intellettuale sia migliore nei giorni in cui corro rispetto a quelli in cui non lo faccio".
«In quei venti o trenta minuti di esercizio, mentre il corpo rilascia con il sudore ogni tipo di tossina, lo spirito si disfa alla stessa maniera di preoccupazioni e inibizioni, e raggiunge quella serenità dei sensi che è lo stato d’animo più propizio alla riflessione. Prima o poi la gente si convincerà che correre – o nuotare, o dare calci a un pallone – è anch’esso una fonte di conoscenza, un combustibile per le idee, un complice dell’immaginazione».
Sarebbe stato un ottimo numero dieci, riottoso tanto quanto talentuoso, tutto arabeschi e polemiche, senza regole, amatissimo dal suo pubblico, “Varguitas”. Lo è stato, in un’altra maniera. Mario Vargas Llosa non ha mai perso la sua passione profonda per il calcio, per il suo Paese, per la U, ha continuato per tutta la vita a vivere un’altra vita, parallela, sommersa, quella del tifoso, per quanto fosse sciocco farlo, per quanto l’amore per una squadra non sia mai davvero sciocco. Anche se ci fa sembrare degli idioti.
Il fatto, come diceva lui, in fondo, è che «solo un idiota può essere totalmente felice».