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Verso un'antropologia dello sport
10 mar 2022
Un estratto dal recente libro de Il Mulino.
(articolo)
11 min
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Pubblichiamo un estratto del libro Percorsi di storia e antropologia dello sport, a cura di Claudio Mancuso e pubblicato da Il Mulino. Di seguito l'inizio del capitolo dell'antropologo Dario Nardini.

1. Un precoce interesse: lo «sport» nelle società «primitive»

L’interesse per i giochi e le pratiche fisiche in antropologia ha radici lontane. L’importanza di certe attività nella vita sociale delle popolazioni «primitive» non è sfuggita ad alcuni dei padri fondatori della disciplina, come Edward B. Tylor, che nel quadro dell’approccio evoluzionista passa in rassegna la «distribuzione geografica dei giochi» in varie culture, o Franz Boas, il quale, senza assumerli come specifico oggetto di analisi, dedica una parte del suo lavoro sugli Inuit ai loro «giochi». A cavallo tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e i primi del Novecento, nell’ambito dell’antropologia statunitense i giochi atletici delle popolazioni native diventano oggetto d’analisi nei lavori di James Mooney, che sulle pagine di «American Anthropologist» si concentra sugli aspetti rituali e magico-religiosi di un gioco di palla diffuso tra i Cherokee, e Steward Culin, che dopo aver svolto approfondite analisi sul territorio asiatico e nelle isole Hawaii, nel 1907 conduce un’infaticabile ricognizione di giochi tra le popolazioni native del Nord America . L’interesse, in questo caso, era quello di usare le somiglianze riscontrate nelle attività censite come prova dell’unità psichica della razza umana. In questa fase gli studiosi non sembrano interessati a circoscrivere e definire il campo di studi: per ora, guardano esclusivamente ai giochi degli «altri» (l’antropologia del «Noi», del resto, è di là da venire) e, soprattutto, si limitano a offrirne descrizioni formali, senza soffermarsi sul ruolo sociale di quelle pratiche nei contesti in cui si svolgono. Nel 1930 Raymond Firth, nella sua celebre analisi sul Dart Match in Tikopia, offre un punto di vista innovativo sullo «sport» come ambito importante della vita di molti popoli «primitivi», che nutre relazioni profonde con altri aspetti dell’organizzazione sociale, economica e religiosa, e che, in quanto tale, meriterebbe più attenzione da parte dell’indagine antropologica. Anche nella sua prospettiva, tuttavia, non è facile capire cosa si intenda per «sport»: il termine viene usato per descrivere un gioco competitivo che prevede una certa dose di impegno fisico, ma, come negli studi precedenti, non si offre al lettore una distinzione chiara tra gioco e sport. Negli stessi anni, Reo Fortune esplora gli aspetti magico-religiosi delle corse rituali tra gli indiani Omaha, Alexander Lesser pubblica un’approfondita ricerca su un gioco diventato parte importante della vita religiosa dei gruppi Pawnee, e i fratelli Morris e Marvin Opler scrivono, rispettivamente, di alcuni «sport» diffusi tra le popolazioni native americane, e di un torneo di sumo organizzato nel più grande centro di detenzione dei giapponesi americani nel corso della Seconda guerra mondiale, il Tule Lake Segregation Center . Senza pensare specificamente ai contesti sportivi, ma servendosi del nuoto come esempio tra gli altri, Marcel Mauss da parte sua pone le basi per un’interpretazione antropologica dei modi socialmente definiti che gli individui hanno di servirsi del proprio corpo, in un saggio destinato ad avere un impatto decisivo sulle analisi delle pratiche fisiche che saranno svolte di lì in avanti. Un primo tentativo di delineare le caratteristiche costanti dei «giochi» si avrà solo nel 1959, con la pubblicazione di Games in Culture, da parte di John M. Roberts, Malcolm J. Arth e Robert R. Bush, in cui gli autori definiscono il gioco (play) secondo una serie precisa di criteri, e suddividono i giochi (games) in tre categorie: di abilità fisica, di strategia e di fortuna. Il saggio contribuisce a stimolare l’attenzione degli antropologi, e nel 1961 esce per esempio uno studio di Robin Fox sui modi in cui il baseball è stato adottato tra i Cochiti Pueblo nel Nuovo Messico, adattandosi a, e contribuendo a riorganizzare in maniera inedita, antiche pratiche di stregoneria e sistemi di credenze. Nel 1964, in occasione del discorso presidenziale per l’American Anthropological Association, Leslie White auspica che la disciplina elabori un modello per l’analisi dello sport professionistico . La comunità antropologica non reagisce con particolare solerzia, ma si tratta dei primi tentativi di confrontarsi con quello che era considerato come un fenomeno della modernità occidentale e che dunque non rientrava tra gli oggetti di studio della disciplina (lo sport «nostro», e non più solo quello degli «altri», quello dei «primitivi»). Il 1972 è un anno cruciale. Da prospettive differenti, due dei più influenti pensatori del Novecento gettano solide basi per l’elaborazione di un impianto analitico disciplinare sul gioco. Con lo stile evocativo che ne ha contraddistinta la scrittura, Clifford Geertz propone una «descrizione densa» del combattimento di galli a Bali, descrivendolo nei termini di un «gioco profondo», in cui nulla di concreto accade ma in cui molto è in gioco dal punto di vista simbolico: fornendo un «commento metasociale» all’organizzazione locale della vita collettiva, la pratica offre agli occhi dell’etnografo «una storia che [i balinesi] raccontano su se stessi». Il saggio, di grande diffusione, pone le basi per una lettura del gioco come «specchio» della società in cui si inserisce, oggetto «buono per pensare» una cultura nel suo complesso. Questa prospettiva condizionerà lo studio antropologico sullo sport fino ai giorni nostri, limitando in certi casi le possibilità di pensare i contesti di pratica anche come ambiti di «produzione» di cultura (di valori, di modelli relazionali, di «disposizioni», di «modi di vita»), oggetti buoni per essere pensati, oltre che per pensare qualcos’altro. In maniera indipendente, Gregory Bateson elabora nello stesso anno la sua «teoria del gioco e della fantasia», in cui con piglio più astratto e meno «etnografico» teorizza il gioco come una sequenza interattiva che si svolge tra individui capaci di «meta-comunicare», ovvero di scambiarsi (e di comprendere) messaggi che caratterizzano le loro azioni in quanto gesti ludici, vale a dire gesti che assumono in quelle circostanze (entro quella «cornice» relativamente distinta rispetto alla quotidianità) significati e conseguenze differenti da quelli che avrebbero nella realtà ordinaria. Le relazioni ludiche non corrispondono dunque a un’azione o una serie di azioni particolari, riconoscibili e circoscrivibili, quanto piuttosto a una «modalità d’azione».

2. Problemi di definizione

La portata di simili riflessioni contribuisce negli anni immediatamente successivi a stimolare il confronto e la produzione intellettuale, soprattutto nella comunità accademica degli Stati Uniti. È in questo clima che matura il lavoro di Edward Norbeck, che assieme ad altri antropologi, tra cui Alyce Cheska e Brian Sutton-Smith, nel 1974 fonda in seno alla North American Society for Sport History (NASSH) – a riprova della vocazione interdisciplinare dello studio dello sport, ma anche del ruolo marginale che il tema ha giocato negli ambienti accademici più specificamente antropologici – The Association for the Anthropological Study of Play (TAASP), un gruppo di lavoro molto attivo in quel periodo che tuttavia perderà gradualmente l’apporto costitutivo degli antropologi, fino a dover rimuovere nel 1987 l’aggettivazione «Anthropological» dal nome13. Nei decenni in cui la disciplina ripensa in termini critici e riflessivi il proprio oggetto (e soggetto) di studio, gli antropologi cominciano dunque a interessarsi anche dello sport «nostro», quello che si era sviluppato nelle culture europee a partire dalla seconda parte dell’Ottocento come sfera di attività separata rispetto agli altri ambiti del sociale, organizzandosi entro un «sistema sportivo» internazionale intriso di ideali universalistici e gestito da una rete di istituzioni locali, nazionali e internazionali14. Così, se alcuni ricercatori continuano a lavorare su attività atletiche «indigene», esplorandone le relazioni col mito, con l’organizzazione della vita sociale e con le attività tradizionali, altri cominciano a confrontarsi con la diffusione degli sport occidentali tra gruppi nativi (Kendall Blanchard scrive per esempio del basket tra i Navajo), o con la loro «importazione» nei territori coloniali. La ricezione del cricket nelle colonie inglesi, in particolare, è un fenomeno che riceve un’attenzione continuativa a partire dall’uscita del film Trobriand Cricket: An Ingenious Response to Colonialism, prodotto da Jerry W. Leach assieme al film maker Gary Kildea nel 1976, che fissa un canone per il documentario etnografico e contemporaneamente apre la strada a una serie di analisi sul tema. In maniera ancor meno «ortodossa», John MacAloon sviluppa la prospettiva di Bateson per applicarla all’analisi storico-antropologica dello sviluppo delle Olimpiadi moderne, offrendo di fatto un contributo concreto alla nascente teoria della performance. Il suo interesse sul tema si consolida, finché nel 1987, assieme al coreano Kang Shin-pyo, organizza un dibattito interdisciplinare cui partecipano influenti antropologi, tra cui Edith Turner, Marshall Sahlins e Arjun Appadurai (e Pierre Bourdieu, che senza partecipare direttamente al convegno invia un paper che si rivelerà fondamentale per molti studi successivi)18. Benché formulati da alcune delle voci più autorevoli nella disciplina, gli interventi (poi raccolti in un volume collettaneo) rimangono a lungo isolati. Solo negli anni Novanta, per esempio, il citato saggio di Appadurai sul cricket, concepito proprio in quella circostanza, vedrà la diffusione che merita grazie alla pubblicazione di Modernity at large, la raccolta che diventerà un punto di riferimento per l’antropologia contemporanea. Per la prima volta, in ogni caso, i contesti e le istituzioni sportivi occidentali assurgono in maniera programmatica ad ambiti legittimi di indagine antropologica. Di fronte allo sport come fenomeno della modernità, si pone il problema di definirne i confini e le caratteristiche, e di distinguerlo rispetto alle attività motorie delle società tradizionali. La linea che prevale è quella che si stava imponendo anche nell’ambito degli studi storici e sociologici, che insiste sullo scarto differenziale tra giochi premoderni e sport moderni, per cui i secondi si distinguono per una maggiore autonomia rispetto agli altri ambiti del sociale, risultano caratterizzati da una serie di attributi costitutivi e distintivi (secolarizzazione, razionalizzazione, burocratizzazione ed enfasi sui risultati), e appaiono come spazi di espressione controllata delle emozioni in società orientate verso la loro sempre più capillare irreggimentazione. Il paradigma «evoluzionista» di Guttmann e quello «funzionalista» di Elias e Dunning manterranno un’influenza duratura nell’ambito emergente degli sport studies, a discapito delle evidenze che contestualmente mettono in discussione la «modernità» della quantificazione negli sport, e delle etnografie che avevano rivelato come anche negli sport contemporanei il «pensiero magico» interferisse spesso con le logiche lineari della razionalità scientifica. Interpretazioni di quel tipo sembravano d’altro canto limitare le possibilità di comprensione di fenomeni contingenti, come la diffusione, a partire dagli anni Sessanta-Settanta, di attività che fanno del rifiuto di ciò che caratterizza il «sistema sportivo» per come lo avevamo conosciuto fino a quel momento (istituzionalizzazione, normalizzazione, ecc.) un presupposto per la riscoperta degli usi più propriamente ludici del corpo (surf, skateboard, snowboard, parkour, e così via). Andranno poi definitivamente in crisi di fronte al successo globale, dagli anni Novanta, di attività come le arti marziali miste (MMA), che in nome della spettacolarizzazione mediatica della violenza fisica mettono in discussione qualsiasi possibilità di spiegare la storia alla luce del «processo di civilizzazione». La separazione concettuale tra giochi premoderni e sport moderni ha di conseguenza limitato le possibilità di comprensione di fenomeni che sono sempre ibridi, multiformi, e difficilmente lineari e «puri». Oltre a ciò, la difficoltà di definire chiaramente l’oggetto di un’antropologia dello sport ha verosimilmente ostacolato i tentativi di sistematizzarne il campo di studi. Lo sport, del resto, sfugge a qualsiasi definizione che voglia descriverne una volta per tutte gli attributi costitutivi (competizione, impegno fisico-atletico, tempo libero/lavoro…): un’attività come il bowling, per esempio, è considerata sport in certi contesti, mentre ha più l’aspetto di un gioco quando è praticata dai gruppi di amici nelle sale a pagamento nei venerdì sera. Molti autori hanno risolto la questione sostenendo che, da un punto di vista antropologico, lo sport debba essere considerato come un prodotto culturale, che deve essere dunque definito in relazione al contesto in cui si colloca, piuttosto che in maniera aprioristica, secondo un modello concettuale speculativo: a conclusioni simili sono giunti, a questo riguardo, sia il primo che l’ultimo, in ordine cronologico, dei «manuali» di antropologia dello sport editi sinora. L’etnografia ha del resto il grande vantaggio di confrontarsi direttamente con le realtà empiriche in cui i fatti sociali si svolgono, la cui complessità risulta difficilmente riducibile a categorie concettuali astratte. Anche per questo, se è vero che le attività atletico-sportive sono state oggetto come abbiamo visto di un precoce interesse etnografico, è vero anche che il loro studio fa ancora fatica a costituirsi come ambito disciplinare autonomo, in riferimento a un dibattito coerente sulle possibilità e sui termini di una sua analisi scientifica.

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