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VHS: gara-5 delle Finali NBA 2005
23 apr 2020
San Antonio contro Detroit è la serie di finale perduta nella storia della NBA.
(articolo)
21 min
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A ormai quasi quindici anni di distanza, le Finali NBA del 2005 tra i San Antonio Spurs e i Detroit Pistons vengono spesso chiamati in causa come modello di ciò che la lega non vuole più essere. Quella serie tra Spurs e Pistons viene presa a modello per una pallacanestro prettamente difensiva, dura ma senza la retorica delle botte degli anni ’90, senza le narrazioni delle superstar che potessero avvicinare il grande pubblico ad appassionarsene. Soprattutto, era una serie tra due squadre che “non vendevano”, registrando i rating televisivi più bassi e quindi meno redditizi per la NBA — che ai suoi ascolti dà sempre più di un occhio di riguardo.

Eppure quella serie metteva di fronte il meglio che quel triennio di pallacanestro potesse offrire. Gli Spurs avevano vinto il titolo nel 2003 grazie a un inarrestabile Tim Duncan, mentre i Pistons lo avevano fatto nel 2004 mettendo fine all’era Shaq&Kobe con un inappellabile 4-1 in finale. Anche se altre due squadre come i Phoenix Suns di Mike D’Antoni e i Miami Heat di Shaquille O’Neal e Dwyane Wade avevano cominciato ad affermarsi come legittime sfidanti (chiudendo anche con i migliori record delle due conference), Spurs e Pistons erano riuscite a sfruttare la maggiore esperienza per arrivare alle Finali, regolandole rispettivamente in cinque e in sette partite, con Detroit capace di rimontare sotto 3-2 e vincendo la settima a South Beach.

La fama di squadre difensive delle due sfidanti erano indiscutibilmente meritate: dal 2002 in poi nessuna delle due era uscita dalla top-3 difensiva della lega, soffocando gli avversari con una presenza interna imponente (Duncan da una parte, il duo Rasheed-Ben Wallace dall’altra) e una capacità di eseguire fuori dal comune. Entrambe però erano squadre che faticavano in trasferta, come testimoniato anche dalla regular season: in una stagione da 59 vittorie gli Spurs avevano avuto a malapena un record positivo lontano da casa (21-20), mentre Detroit in una da 54 aveva raccolto giusto un successo in più (22-19).

Non è un caso allora che nelle prime quattro partite le due squadre di casa abbiano sempre dominato, con i primi due successi in casa per gli Spurs (53 punti complessivi per Manu Ginobili, al tempo titolare in quintetto) e altri due perentori dei Pistons al Palace of Auburn Hills (segnando 96 e poi 102 punti). In nessuna delle quattro partite la squadra perdente aveva superato i 79 punti segnati, e il +32 dei Pistons in gara-4 aveva lasciato solchi enormi nella psiche degli Spurs, arrivati vicini a credere che su quel campo non potessero in nessun modo vincere.

La fisicità esagerata di quei Pistons

Qualche anno fa Rip Hamilton ha raccontato di come Nazr Mohammed, che sarebbe poi diventato suo compagno di squadra ai Chicago Bulls, gli avesse rivelato che alla vigilia di quella gara-5 gli Spurs fossero completamente “rotti” nell’animo dalle sconfitte subite nelle due gare precedenti. Un atteggiamento che si nota soprattutto dall’attenzione che i nero-argento hanno nel cercare di eseguire minuziosamente gli accorgimenti tattici preparati dallo staff tecnico di coach Popovich (che può contare su Brett Brown, Mike Budenholzer e PJ Carlesimo al suo fianco, tre passati e futuri capi-allenatori NBA). Essendo costretti a cambiare lo spartito per evitare di essere di nuovo sommersi come nelle precedenti due partite, gli Spurs hanno un’attenzione maniacale per non far entrare in partita Chauncey Billups, adeguando la posizione dei difensori lontano dalla palla per andare in aiuto di Tony Parker — che non ha una chance di tenere la sua prepotenza fisica in uno contro uno.

Duncan prova a cambiare su Billups nei primi possessi della partita, ma viene immediatamente battuto sul primo passo.

Il lungo che ha in consegna Ben Wallace, in particolare, lascia spesso la marcatura per raddoppiare su Billups, anche a costo di concedere ricezioni facili sotto canestro al centro dei Pistons o lasciare spazio a rimbalzo. Per il resto Bruce Bowen prende in consegna Rip Hamilton leggendolo con grande anticipo e impedendogli sostanzialmente di mettere palla per terra, mentre Manu Ginobili viene lasciato a battagliare contro Tayshaun Prince.

Al centro del ring invece si sviluppa la vera sottotrama della serie, cioè lo scontro in post basso tra Tim Duncan e Rasheed Wallace. Quando gli Spurs non riescono ad alzare i ritmi (come evidentemente provano a fare Parker e Ginobili ogni volta che ne hanno occasione per non affrontare la difesa schierata dei Pistons), la soluzione è sempre quella di andare in post da Duncan, che è pressoché automatico quando può svitarsi sulla linea di fondo realizzando un canestro più bello dell’altro. Nelle occasioni in cui prova ad andare al centro, però, Rasheed è enciclopedico nel leggerne le intenzioni, stoppandolo due volte nel solo primo quarto grazie anche agli aiuti tempestivi dei compagni, che collassano a centro area appena possibile e la rendono una “no fly zone”, come veniva chiamato al tempo il pitturato di Detroit.

Dall’altra parte invece Rasheed è il porto a cui i Pistons si affidano quando non hanno altre opzioni offensive — con il pubblico comincia a urlare “SHEEEEEEEED” non appena riceve in post, forse il rituale più bello di un palazzetto che esplode gridando “DEEEEEETROIT BAAAAASKETBALL” ogni volta che il possesso torna ai padroni di casa — ma quello contro Duncan non è un accoppiamento che può sfruttare. Ogni volta per segnare un canestro Wallace deve tirare fuori un capolavoro, cosa che ogni tanto gli riesce perché il talento è strabordante, ma che non può in nessun modo essere continuativo. E proprio nella differenza in termini di continuità e di affidabilità è racchiusa tutta la differenza tra due dei migliori lunghi nella storia della NBA.

Per il resto, i Pistons sono una squadra che gioca con le marce in maniera quasi fastidiosa. Nei primi sei minuti di ogni quarto Billups e soci cercano di amministrare energie e ritmi, entrando molto lentamente nei giochi e cercando di eseguire il più possibile, salvo alzare l’intensità (anche con l’uso della pressione a tutto campo e delle trappole) e chiudere molto bene nei minuti finali, fruttando la maggiore fisicità e la carica del Palace of Auburn Hills. In questo contesto di gioco spicca la presenza sui due lati del campo di Ben Wallace, per certi versi sorprendentemente moderno: sui pick and roll non ha nessun problema a fare “show forte” (contro Ginobili) o “hedge” (contro Parker) anche a otto metri dal canestro, consapevole che Rasheed o Antonio McDyess sono pronti a coprire le sue spalle e a cambiare la marcatura al volo, a volte in maniera pressoché telepatica. In attacco poi porta dei blocchi granitici ed è una minaccia anche in contropiede, per quanto il suo apporto vada scemando nelle fasi più calde della partita e la sua presenza comprometta le spaziature dei Pistons.

La partita integrale.

La maggiore modernità degli Spurs

Ecco, le spaziature. A un certo punto della partita una grafica segnala le percentuali delle due squadre da tre punti nelle prime quattro gare della serie. San Antonio Spurs: 28/69; Detroit Pistons: 7/35. È evidente come la rivoluzione del tiro da tre punti sia ancora ben lontana da Auburn Hills, per quanto i Phoenix Suns di D’Antoni abbiano già portato Steve Nash al primo premio di MVP della carriera, ma il modo in cui i Pistons nemmeno considerano la possibilità di mettere i piedi dietro l’arco per aprire degli spazi è sorprendente. Di fatto, l’unico che ha il permesso di tirare da fuori è Chauncey Billups, che appare come una folgorazione quando si prende una tripla in transizione per il 13-6 che costringe Popovich al primo timeout della partita. Per il resto Detroit cerca insistentemente e ossessivamente il lavoro sui blocchi di Hamilton, che si muove in moto perpetuo da un lato all’altro del campo in una sorta di nascondino con Bowen alle calcagna, circumnavigando i blocchi mentre Billups attende di dargli il pallone.

La concentrazione dei tiri dalla media distanza dei Pistons, specialmente dalla linea di fondo (un tipo di conclusione sparito dalle “diete” della NBA moderna) racconta bene la selezione di tiro dei Pistons.

A pagarne le conseguenze è soprattutto Billups. È evidente come nessuno tra gli Spurs possa contenerlo sul primo passo (troppo potente per Parker, troppo veloce per Bowen, per non parlare dei lunghi che non hanno una chance di stargli dietro), eppure neanche una volta i suoi compagni si allargano sul perimetro per aprirgli l’area. L’idea stessa di uno spread pick and roll mettendo dei tiratori negli angoli non è neanche presa in considerazione, così come un tiro dopo un “pop” di Sheed (che sarebbe diventato un tiratore in quelle situazioni solo successivamente nella sua carriera) o un tiro dal palleggio per far pagare le scelte conservative della difesa quando passano sotto il blocco. In una partita in cui Billups segna comunque 34 punti con 5 rimbalzi e 7 assist — sembrando per diversi tratti come il miglior giocatore in campo — viene da chiedersi quanti ne avrebbe potuti segnare in un contesto tattico diverso, senza dover aspettare che il gioco “2 chest” per Hamilton finisse nel nulla e attaccando un’area sempre piena.

A confronto, i San Antonio Spurs sembrano avere un’idea più chiara di quanto possa essere importante dal punto di vista tattico posizionare quattro esterni attorno a Duncan. Contro una difesa che invita ad “andare dentro” verso le fauci dei due Wallace, con Nazr Mohammed in campo gli Spurs non hanno una chance di segnare ingolfando le linee di penetrazione di Parker e Ginobili, ma non appena Robert Horry mette piede in campo le cose cambiano. A inizio secondo quarto coach Brown lascia in panchina contemporaneamente Billups e Rasheed Wallace, mentre Popovich di fatto mette il suo quintetto migliore e scava un solco di nove lunghezze, dando l’impressione che la sua squadra abbia più idea di cosa fare e quando farlo.

La miglior azione offensiva del primo tempo degli Spurs, che iniziano a macinare gioco.

Se gli Spurs non sono andato sotto emotivamente dopo il vantaggio Pistons del primo quarto è per merito quasi esclusivo di Manu Ginobili. Con Beno Udrih fuori dalla rotazione e Parker in palese crisi di fiducia, Popovich a metà primo quarto mette per due minuti il pallone nelle mani dell’argentino a inizio azione da point guard pura e gli Spurs improvvisamente si ritrovano grazie alle sue accelerazioni. La partita va proprio a una velocità diversa quando la palla è di Ginobili: sui cambi difensivi degli avversari riesce a battere l’uomo grazie alla “retromarcia” che lo ha reso famoso, e in un’occasione lascia sul posto un difensore del livello di Tayshaun Prince anche andando a destra, sulla mano teoricamente debole.

La foga con cui si getta a rimbalzo e su tutti i palloni vaganti, poi, è evidentemente contagiosa per i compagni, che sembrano più reattivi e pronti nel reagire in campo rispetto alle letargiche due partite precedenti. Il modo in cui si batte in difesa contro un avversario come Prince, a cui rende diversi centimetri ancor prima dei chili, è quasi commovente: sarà anche per i capelli lunghi che al tempo erano il suo marchio di fabbrica, ma dal punto di vista emotivo gli Spurs sono la sua squadra molto più di quanto lo siano di Duncan.

Ciò nonostante, nel secondo quarto gli Spurs dilapidano il vantaggio di 9 lunghezze costruito a inizio secondo quarto e inspiegabilmente smettono di mettere la palla in mano a Ginobili, con Duncan costretto a tornare in panchina per gestire le energie. Le due squadre che vanno all’intervallo in perfetta parità sul 42-42, con tutti e tre i Big Three di San Antonio in doppia cifra mentre dall’altra parte ci sono solo Billups e Ben Wallace.

L’inizio del terzo quarto è il momento in cui i Pistons mostrano tutta la loro supponenza. In una partita punto a punto, per qualche motivo dimenticano Bruce Bowen da solo in angolo in un paio di occasioni, lasciandogli l’unica soluzione offensiva in cui era realmente pericoloso. Quei canestri rosicchiati a inizio terzo quarto e un altro paio di punti rubati dalla spazzatura della partita da Nazr Mohammed (perfino con un tiro dalla media distanza!) permettono agli Spurs di non andare mai davvero sotto nel punteggio, riuscendo a tenere in campo per 22 minuti anche un cattivo difensore come Brent Barry — che viene ovviamente puntato a ogni occasione possibile dall’attacco di Detroit, ma senza costruire troppo.

È solo con l’andare del quarto che i Pistons cominciano a prendere il controllo della partita, grazie soprattutto a un Billups che arriva al ferro a volontà e può tirare da qualsiasi posizione (22 dei primi 61 punti di Detroit portano la sua firma) e alla maggiore fisicità che sfianca gli Spurs — sempre meno lucidi nell’attaccare a causa di un Parker decisamente pasticcione e un Ginobili sfinito dal lavoro su Prince. Proprio sul finire del terzo quarto, però, entra in scena il protagonista in grado di cambiare partita, serie e storia del gioco.

La Monnalisa di Robert Horry

Nel 2005 Robert Horry ha 34 anni e già cinque titoli NBA in bacheca, nonché una carriera piena di tiri pesanti e il secondo maggior numero di triple segnate nella storia dei playoff (232). Insomma, non dovrebbe sorprendere nessuno che possa essere in grado di decidere una partita di finale, e tutti si aspettano che prima o poi arrivi il suo momento. A un certo punto della telecronaca Federico Buffa sottolinea come Horry sia stato “fantastico a rimbalzo, e ben al di sotto le sue immense capacità in tutto il resto”: d’altronde nelle prime quattro partite della serie ha segnato in tutto 30 punti con 10/29 al tiro, e fino all’ultimo secondo del terzo quarto è ancora fermo a quota zero.

Partite come questa sono esattamente il motivo per cui gli Spurs avevano deciso di metterlo sotto contratto e avevano sopportato la sua “pigrizia” per buona parte della stagione. A un certo punto dell’ultimo quarto, mentre Horry è in lunetta per due liberi fondamentali, Buffa e Tranquillo raccontano di come a San Antonio la sua stagione sia cambiata non appena è riuscito a trovare un centro di “stretching e massaggi in periferia di San Antonio che conosce solo lui” gestito da “avvenenti signorine non proprio vestite”. Insomma, Robert Horry lo si doveva aspettare, sopportare e coccolare, ma alla fine arrivava. E al di là del mero contributo di punti, l’importanza tattica di Horry nella posizione di 4 per “aprire la scatola” dei Detroit Pistons è la chiave della partita.

La sua qualità come “entry passer” è sempre stata sottovalutata: qui alza un pallone perfetto per far ricevere Duncan a centro area dimostrando una sensibilità straordinaria.

Certo, poi aiuta che sia in una di quelle serate in cui gli dei del basket sono schierati dalla sua parte: l’unica tripla sbagliata delle sei tentate è una conclusione pazza dopo che ne aveva già messe due (quella di fine terzo quarto e la prima dell’ultimo periodo) per rimettere in carreggiata i suoi. In una partita in cui ci sono 18 parità e 12 avvicendamenti nella guida del punteggio, Robert Horry è il motivo per cui gli Spurs riescono a espugnare un campo che fino a quel momento li aveva mandati in crisi: ogni volta che il Palace sembra sul punto di esplodere, gli Spurs rimangono aggrappati alla partita grazie alle sue giocate, praticamente sempre senza che nulla sia chiamato per lui. Nel solo ultimo quarto segna 13 punti (saranno 21 alla fine) con due rimbalzi in attacco in cui il pallone sembra calamitato verso le sue mani in maniera misteriosa, e non appena si siede in panchina per 4 minuti il rendimento degli Spurs precipita nonostante un gioco da tre punti fondamentale di Tim Duncan in mezzo ai due Wallace.

Già, Tim Duncan. Il finale di gara-5 rappresenta probabilmente uno dei punti più bassi della sua carriera, se non il più basso in assoluto. Se non ci fosse stato Horry, i sei tiri liberi sbagliati consecutivamente avrebbero pesato in maniera enorme sull’economia di quella serie e forse un minimo anche sulla percezione della sua carriera, specie se gli Spurs avessero finito per perdere partita e finale. È quasi straniante vedere Duncan così in difficoltà a livello mentale, lui che ci ha abituati a controllare avversari ed emozioni in maniera quasi robotica: pur con la crisi in atto, però, il caraibico riesce a segnare il libero dell’89-89 a 33.8 secondi dalla fine, riscattando almeno in parte gli errori commessi fino a lì, seppur sbagliando la correzione che avrebbe chiuso i conti sull’ultimissimo possesso dei regolamentari.

C’è un filo diretto che collega questo errore al “bunny” di gara-7 nel 2013 contro i Miami Heat, quello dopo il quale ha sbattuto le mani per terra in un’immagine rimasta a suo modo iconica. Qui Duncan si allontana dal canestro con i pugni stretti davanti alla bocca, quasi volendosi letteralmente mangiare le mani. Dopo la partita dirà: «È stato un assoluto incubo. Horry mi ha tirato fuori da una buca nella quale mi ero messo da solo». (Il commentatore ESPN fa notare che Wallace ha provato a chiamare timeout pur non avendone nessuno, rischiando una “Chris Webber 2.0”. Sarebbe riuscito a combinare persino di peggio).

Il peccato di tracotanza dei Pistons

A questo punto del racconto, forse conviene specificare che al tempo ero a dir poco tifoso di quei Pistons, dato che il mio giocatore preferito di tutti i tempi è Rasheed Wallace. Per questo è particolarmente difficile riguardare le immagini di quel supplementare, nel quale i Pistons hanno palesemente in mano la partita eppure non riescono a chiuderla per un misto di arroganza, supponenza e superficialità, tutte caratteristiche che inevitabilmente definiscono il mio giocatore preferito. Detroit riesce ad andare sul +4 grazie a un canestro di Tayshaun Prince con i piedi sulla linea del tiro da tre e due liberi un po’ dubbi dati a Chauncey Billups: subito dopo, Ginobili corre per eludere la pressione a tutto campo di Detroit ma butta via malamente il pallone non intendendosi con Robert Horry, e gli Spurs a 2:51 dalla fine sembrano veramente alle corde — anche perché Duncan è esitante negli uno-contro-uno con Ben Wallace (che lo mette in difficoltà con il fisico più di quanto faccia Rasheed con la tecnica) per paura di andare in lunetta.

A rimetterli in partita sono però proprio i Pistons, che si incartano da soli. Già sul finire dell’ultimo quarto Popovich aveva deciso di cambiare la marcatura mettendo Bowen su Billups e rischiando Parker su Hamilton, una mossa che paga dividendi soprattutto perché Detroit si incaponisce nel cercare il mismatch contro il francese. Una scelta che toglie fluidità al già farraginoso attacco dei padroni di casa e permette agli Spurs di rimanere aggrappati alla partita grazie a un canestro proprio di Parker, che batte un colpo dopo tempo immemore nel momento più difficile dimezzando lo svantaggio.

I Pistons rispondono grazie a un capolavoro di Rasheed contro Duncan (a fine gara sarà 6/15 per 12 punti, tutti difficilissimi), ma è evidente come l’attacco di Detroit sia fermo: da lì in poi la squadra di coach Brown non segnerà più, ma a 100 secondi dalla fine sembra comunque averne di più degli avversari e ha 4 lunghezze di vantaggio da poter difendere. Neanche a dirlo, a ribaltare la situazione è Robert Horry e la colpa principale è di Rasheed Wallace: su una situazione di penetra-e-scarica di Ginobili per Bowen, il lato viene ribaltato e Horry — dimenticato per qualche motivo incomprensibile — realizza la schiacciata con fallo che resuscita gli Spurs.

L’importanza di Horry non sta solamente nel tirare da fuori, ma anche nella capacità di mettere palla per terra come in questo caso, sfoderando una schiacciata con fallo come quando era giovane e giocava per gli Houston Rockets. Solo che poi si ricorda di avere 34 anni e la spalla chiede pietà: forse non è un caso se sbaglia il tiro libero aggiuntivo.

Sul possesso successivo San Antonio però commette un errore comparabile lasciando Billups solissimo dalla media distanza passando sotto al blocco sulla palla, ma non paga dazio perché il numero 1 sbaglia il tiro più facile della sua partita. Sul possesso successivo poi gli Spurs buttano di nuovo via il pallone senza riuscire a servire Duncan in post basso, ma di nuovo i Pistons falliscono due occasioni per chiudere la partita (un buon tiro dalla media distanza costruito per Hamilton e un tiro a centro area di Billups contro il cambio difensivo di Duncan) e lasciano in vita gli Spurs, che hanno il pallone in mano a 9.4 secondi dalla fine del supplementare sotto di un solo punto.

L’intera partita e l’intera serie sembra fatta apposta per arrivare a questo punto, sul quale si sono concentrate le maggiori analisi e i ricordi degli appassionati nei successivi 15 anni. Chiunque segua la NBA ricorda praticamente a memoria la sequenza con cui Horry fa la rimessa per il taglio in angolo di Manu Ginobili, il raddoppio insensato di Rasheed Wallace che lo lascia libero per una delle triple più famose nella storia delle Finals, che porta gli Spurs avanti di uno a 5.8 secondi dalla fine. Le possibilità che quel tiro uscisse erano dello 0%.

Quello che forse non tutti si ricordano è che per qualche motivo incomprensibile coach Larry Brown prima della rimessa decise di togliere Billups per mettere Lindsey Hunter, una decisione che tormenta Billups ancora oggi. «Il giorno più brutto della mia carriera è stato quello del tiro di Horry in gara-5» ha detto qualche anno fa a Zach Lowe. «Durante il timeout ci siamo detti: “Non importa cosa succeda, non concediamo tiri da tre. Un canestro da due non ci uccide, pressiamoli e non facciamoli tirare da tre”. Poi torniamo in campo e vedo Hunter pronto a dare il cambio a qualcuno. Penso: “Ok, prende il posto di Sheed. Tayshaun va su Horry, Lindsey si prende Manu, io rimango su Parker, Rip va su Bowen, e Ben è su Duncan. Siamo a posto”. Poi Lindsey mi dice che devo uscire io, e non capisco più niente. Non c’è tempo per chiedere spiegazioni, ma non aveva davvero senso: non avevo problemi difensivi e, in caso di rimbalzo, ero il miglior tiratore di liberi della squadra. Penso davvero che Larry abbia avuto un cortocircuito mentale [il termine utilizzato è “choked”, ndr] in quel momento. È stato pazzesco. Se avessimo vinto quella partita e poi la serie, sarei stato di nuovo l’MVP della Finali per due volte in fila».

In realtà non è così automatico che vincendo quella gara-5 Detroit avrebbe poi vinto il titolo, anzi. In gara-6 a San Antonio i Pistons sarebbero poi riusciti a pareggiare la serie con la quinta vittoria consecutiva in una “elimination game” di quel gruppo, ma è improbabile che quegli Spurs avrebbero perso quattro partite consecutive di cui l’ultima in casa. E in gara-7 i Pistons hanno avuto tutte le possibilità per vincere andando anche sul +9 a inizio terzo quarto, salvo poi non riuscire a difendere il vantaggio accumulato e cedere nell’ultimo quarto. E anche dopo il canestro di Horry, i Pistons hanno avuto l’ultimo pallone per vincerla, incaponendosi però nel dare palla a Hamilton nel tentativo di tirare sulla testa di Parker, senza riuscirci.

Pesa comunque come un macigno quella decisione di Wallace di andare a raddoppiare su Ginobili in angolo quando non ce n’era davvero così bisogno. Lo schema disegnato dagli Spurs prevedeva che l’ultimo tiro dovesse andare nelle mani dell’argentino, che era riuscito a creare un minimo di separazione da Prince passando da un lato all’altro del campo, ma ancora una volta Rasheed ha peccato di superbia reagendo con troppo anticipo alla giocata degli avversari, come se volesse dimostrare a tutti di aver capito le loro intenzioni prima di tutti. Un peccato mortale che ha lasciato il peggior avversario possibile in quella situazione libero di caricare il tiro e di lasciar partire il pallone della vittoria, e che Sheed ha commentato con la consueta nonchalance dopo la partita: «Possiamo tornare indietro e continuare a parlare di quello che sarebbe potuto succedere e bla bla bla. Era chiuso in angolo e ho provato a raddoppiare. Ora abbiamo un giorno e mezzo per riprenderci. Saremo a posto» sono le parole che riportano le cronache dell’epoca.

Cosa rimane di Spurs contro Pistons

La conclusione della serie ha invece lasciato molti rimpianti per quell’azione, anche perché quei Pistons non sono più riusciti a tornare in finale NBA dopo l’addio di Larry Brown (che quell’estate lasciò per andare a perdere 59 partite con i New York Knicks), quello di Ben Wallace (firma nell’estate 2006 con Chicago) e le successive tre sconfitte in finale di conference con Miami, Cleveland e Boston. La cessione di Billups a Denver in cambio di Allen Iverson e le disastrose firme di Ben Gordon e Charlie Villanueva nel 2009 ha solo accelerato la fine di un gruppo che non è più andato così vicino a vincere il titolo NBA, concludendo il suo viaggio assieme con un anello e una sconfitta in finale — probabilmente meno di quello che avrebbe dovuto vincere, ma comunque più di quello che ci si aspettava all’inizio di quel viaggio.

Quei Pistons rimangono comunque gli ultimi capaci di vincere il titolo senza una superstar universalmente riconosciuta, ma anche una squadra simbolo di una NBA del passato, decisamente diversa rispetto alla direzione in cui si sarebbe sviluppato il gioco e quella in cui la NBA voleva portare la pallacanestro, non a caso disconoscendo quelle Finals nelle sue narrazioni successive, senza che venissero mai indicate tra le migliori della storia del gioco. Forse proprio il fatto che quella serie non sia stata apprezzata come avrebbe meritato ha confermato per l’ennesima volta come l'interesse del grande pubblico sia più facilmente catalizzato dall'epica individuale del singolo e che un grande nome può trascinare più di due grandi squadre. La pallacanestro in senso stretto, quella fatta di scelte tattiche, aggiustamenti in corsa e fondamentali da manuale, interessa solo fino a un certo punto se non c’è anche una storia da poterci raccontare dietro. È il bello e il brutto dello sport contemporaneo, ma bisogna imparare a farci i conti.

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