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Vincenzo D'Amico, bandiera silenziosa
04 lug 2023
Ritratto di un giocatore che ha legato la sua storia ai colori della Lazio.
(articolo)
13 min
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«Io non volevo fare il calciatore. Io volevo fare il calciatore della Lazio»

Vincenzo D’Amico è in campo eppure non dovrebbe esserci. Per diversi motivi. Il primo, per dirla con un concetto di stampo allegriano, è strettamente legato alle “categorie”: in quel giorno di giugno del 1982 ha 28 anni, dovrebbe essere all’apice della sua carriera. Eppure è a sgomitare in Serie B, nella bassa Serie B. Il secondo motivo è che, già da qualche minuto, ha un buco nella parte interna della caviglia, frutto di un’entrata in area di rigore che avrebbe meritato sanzione da parte dell’arbitro, Luigi Agnolin, e che invece è sfilata via in silenzio. Anche la Lazio sta sfilando via, alle prese con una stagione maledetta, dilaniata da una crisi senza fine e dall’assenza dei suoi gioielli, fermi da tempo a causa del Totonero. Ma entrambi i motivi spariscono per via dell’amore supremo che ha segnato la vita, calcistica e non solo, di quel ragazzo diventato uomo anche, anzi, soprattutto, grazie a quei colori.

In quel giorno di giugno del 1982, davanti a settemila paganti disperati, gli unici ancora disposti a credere nella salvezza, Vincenzo D’Amico ha preso il concetto di lazialità e lo ha reso carne. Carne viva, pulsante, sanguinante come quella caviglia martoriata, che gli macchia di rosso il calzino bianco mentre intorno si respira un clima da fine del mondo. Due estati prima si era dovuto strappare il biancoceleste dalla pelle: glielo aveva chiesto, quasi in lacrime, Umberto Lenzini, il presidente dello scudetto del 1974. «Vai al Torino, Vince, o qua saltiamo per aria», lo aveva implorato abbracciandolo, stringendolo forte mentre dall’altra parte le lacrime sgorgavano per davvero. Era passato solo qualche mese dal crocevia, poi rivelatosi inutile, di Lazio-Catanzaro: aveva segnato, quel giorno, prendendo per mano un gruppo di ragazzini in una sfida che profumava di agonia, un gol-salvezza poi spazzato via con un colpo di spugna dalla Giustizia sportiva e dalla condanna alla retrocessione in B per il già citato Totonero. In granata aveva resistito soltanto un anno: troppo forte il richiamo di quella che per lui, ormai da tempo, era diventata casa.

È in quel giorno di giugno del 1982, forse addirittura più che nelle sue scorribande palla al piede nell’anno dello scudetto, che Vincenzo D’Amico si prende la Lazio sulle spalle. Lo fa ribaltando da solo il Varese alla penultima giornata del campionato di Serie B, con Eugenio Fascetti che per anni ha urlato al complotto per il rigore del 3-2: i lombardi erano andati sullo 0-2 dopo un quarto d’ora, poi la caviglia di D’Amico aveva preso a sanguinare ed era rimasto in campo, a trascinare i vari Pighin e Chiarenza, Surro e Pochesci. Una tripletta per prendere la sua Lazio per i capelli quando aveva già un piede e mezzo nel baratro della Serie C. Mentre tutto pareva scivolare via, strappato da una corrente implacabile, il tifoso laziale ha trovato una boa in mezzo al mare alla quale aggrapparsi. Una boa che quel giorno porta la maglia numero 9, la fascia da capitano rossa stretta al braccio sinistro, i capelli ricci come quando era arrivato a Roma da Latina, ragazzino spensierato e anche un po’ sfacciato, sempre divertente e divertito. In quel braccio destro agitato come un forsennato dopo la punizione del momentaneo 2-2 al Varese sta tutta la storia sommersa di D’Amico, unanimemente identificato come genio e sregolatezza eppure sempre presente, nelle vesti di leader, nei momenti più drammatici vissuti dalla Lazio in quel decennio abbondante di tormenta che va dal 1976 al 1986.

È stato una bandiera sobria, silenziosa: forse anche per questo non è stato sempre riconosciuto come tale e in parte ne ha sofferto. Una lazialità intrisa di una fedeltà feroce, mai tradita, una serietà incrollabile da punto di riferimento. «Hai sempre messo la Lazio davanti a tutto e tutti», si legge sui profili social del club nei video che ne cristallizzano il ricordo. Il faro che si è spento qualche giorno fa è l’unico che aveva continuato a mostrare la via per la salvezza anche quando tutto sembrava perduto.

Campione d’Italia

È il 1970 quando Carletto Galli, uno degli osservatori della Lazio di Lenzini, lo scorge sui campi dell’Almas Roma, laddove Almas sta per Appio Latino Metronio Associazione Sportiva. Sono gli anni in cui la squadra sgomita in Serie D. Il sedicenne D’Amico allora è una mezzala più di governo che di lotta, piede destro nobilissimo, una predisposizione innata al dribbling e alla giocata meno scontata. Quando arriva alla Lazio mantiene ruolo e fantasia, entrando nel giro della prima squadra già durante la stagione 1970-71, nel gruppo allenato dal vulcanico Juan Carlos Lorenzo. L’esordio arriva però un anno dopo e da ala sinistra, in una partita di fine stagione contro il Modena: D’Amico si presenta al Flaminio convinto di dover giocare con la Primavera quando un dirigente laziale lo prende e lo consegna a Tommaso Maestrelli all’Hotel Fleming.

Il rapporto con quello che sarebbe diventato l’allenatore dello scudetto biancoceleste travalica persino il concetto di padre-figlio: Maestrelli diventa un genitore premuroso, preserva D’Amico anche nel momento più difficile, quello del terribile infortunio in un’amichevole a Rieti, nell’autunno del 1972, che gli preclude un’intera stagione, teoricamente designata come ideale trampolino di lancio. Un legamento crociato che va in pezzi, all’inizio degli anni Settanta, ha il sapore della condanna sulla carriera: a rimettere in piedi D’Amico ci pensano i ferri del professor Maiotti, alla Casa di Cura Pio XI, su brillante intuizione del medico sociale di quella Lazio, il dottor Renato Ziaco. Uno stop arrivato durante la sosta del campionato per le sfide della Nazionale, con Maestrelli che soltanto qualche giorno prima aveva istruito D’Amico, promettendogli un posto titolare per l’attesissimo Lazio-Juventus del 15 ottobre, che si sarebbe giocato davanti a 75mila spettatori. La Lazio, neopromossa in A, chiude al terzo posto quel campionato risolto in volata, in un arrivo a tre rimasto nella storia soprattutto per la Fatal Verona sulla sponda milanista, dimenticando che contestualmente i biancocelesti cadevano a Napoli lasciando così spazio alla rimonta juventina in casa della Roma.

L’azione paterna di Maestrelli nei confronti di D’Amico è già iniziata. Fa in modo di bloccargli lo stipendio e di togliergli la patente di guida. Sono mesi in cui non capisce che l’obiettivo dell’allenatore è preservarlo da potenziali rischi. Lo ospita spesso in casa, la signora Lina ai fornelli per un regime alimentare che fosse il più possibile sano, per non farsi giudicare dalla bilancia. Alla fine della stagione, tutti gli stipendi gli vengono riconsegnati in soluzione unica: Maestrelli li aveva fatti girare su un libretto al portatore. Con l’ingresso di D’Amico nell’undici titolare, annata 1973-74, la Lazio scala quelle due posizioni che mancavano: dal terzo al primo, sul tetto d’Italia per la prima volta nella storia. D’Amico non segna molto, ma fa segnare, soprattutto Chinaglia, un uomo che viveva per vedere un pallone rotolare in porta. Il primo gol in A di Vincenzo arriva su un tacco proprio di "Long John" che gli spalanca la strada verso i pali sguarniti: il tocco comodo e le mani nei capelli, quasi a non volerci credere. Segna un’altra volta, nel pomeriggio più atteso. Lazio sotto di una rete all’intervallo nel derby di ritorno, complice un patatrac di Felice Pulici su una conclusione da lontanissimo di Spadoni, su un pallone forse nemmeno entrato del tutto. D’Amico pareggia con una conclusione astuta: calcia portando indietro il piede come i giocatori di biliardo che danno il colpo facendosi passare la stecca dietro la schiena, poi esulta in maniera spontanea, confusionaria, bellissima.

Quella squadra pazza, di pistole e palloni, di uno spogliatoio spaccato in due dal lunedì al sabato e granitico di domenica, arriva a vincere lo scudetto anche grazie alla leggerezza di D’Amico, capace di sottrarsi al clima tempestoso durante la settimana e di volare palla al piede in campo, bambino tra gli uomini. Di quella Lazio era il golden boy, il bambino, Cencio, come da primissimo soprannome. Quindi, eternamente, Vincenzino.

Passavano gli anni, cambiavano i volti attorno al suo, cambiava anche lo spessore di una squadra che per pagare dazio a così tanta bellezza finì per sfaldarsi nella maniera più drammatica possibile, mentre lui rimaneva Vincenzino. Il male di Maestrelli, sospettato a lungo ed esploso in maniera dirompente poco dopo la Pasqua del 1975: la squadra che contro il Torino cede di schianto all’Olimpico, Pulici che raccoglie cinque palloni in fondo alla rete con le lacrime che gli rigano il volto. Poi i miglioramenti, il ritorno disperato in panchina a dicembre, la salvezza agguantata con le unghie in un pomeriggio a Como, nel 1976, con tutti i calciatori attorno al Maestro. L’epilogo drammatico soltanto rimandato al dicembre di quell’anno, un mese e mezzo prima dei colpi di pistola che strappano la vita a Luciano Re Cecconi. D’Amico è sempre lì, con qualche problema fisico di troppo e dei picchi di talento irreali: la tradizione orale che accompagna le sue imprese riferisce sistematicamente dei 39 minuti di fuoco giocati contro il Boavista in Coppa UEFA nel 1977, due gol ispirati, una condizione di grazia troppo splendente per durare e infatti interrotta brutalmente, prima dell’intervallo, da un problema muscolare.

Leader nella sofferenza

D’Amico, palla al piede, era geniale. Non aveva paura di puntare l’uomo e saltarlo, in un calcio in cui la marcatura era costante, asfissiante, spesso oltre i limiti del regolamento potendo contare su uno scenario privo di var e telecamere presenti in ogni angolo. Ma era anche pigro, capace di prendersi pause sterminate nel corso di una partita. Ha sempre raccontato questo suo aspetto, questo percorso da ragazzo talentuoso che non si applica, con un pizzico di amarezza e una buona dose di onestà, ammettendo le proprie colpe e, allo stesso tempo, testimoniando di non avere rimpianti.

In realtà alcuni ci sono. Per esempio quello zero alla casella delle presenze in Nazionale. Nel 1980, subito dopo il passaggio al Torino, D’Amico viene convocato da Enzo Bearzot alla vigilia della trasferta in casa del Lussemburgo. Già da anni non fa più l’ala di mestiere, è ormai un numero dieci fatto e finito, libero di svariare su tutto il fronte offensivo. In un test in famiglia, a Varese, Conti viene inserito a partita in corso a sinistra e D’Amico a destra, al posto di Causio. Secondo Bearzot, quello può essere l’unico utilizzo di Vincenzo: i giornalisti romani presenti a Varese incalzano D’Amico, chiedendogli, già conoscendo la risposta, se fosse più a suo agio a giocare a destra o a sinistra. Bearzot, leggendo su alcuni giornali la replica di D’Amico, pretende un confronto, chiedendo a brutto muso per quale motivo avesse detto ai giornalisti di aver giocato a sinistra nell’anno dello scudetto biancoceleste. L’esperienza azzurra finisce così, con un’incomprensione apparentemente priva di alcuna spiegazione.

Qualche anno fa, accennando alla vicenda Bielsa, Stefano Ciavatta scrisse: «Un rifiuto mi eccita, perché sono cresciuto con l’equazione che più la Lazio è in difficoltà, più mi scaldo. Bielsa pensava di riempire di discorsi l’irrequieta piazza laziale, che ha già la sua retorica. Pensava di pettinare con lezioni di insuccesso l’unica sponda romana che è riuscita a raccontare senza pudore il proprio purgatorio». In quel decennio che ho citato in precedenza, in quel lungo arco di sofferenza che va dalla morte di Tommaso Maestrelli all’addio di D’Amico, che lascia la Lazio nel 1986, alla vigilia di quello che diventerà l’anno della tribolazione per eccellenza, quello dei nove punti di penalizzazione e degli spareggi per non retrocedere in Serie C a Napoli, D'Amico è stato l’unico baluardo. Lo ha raccontato, negli anni, sempre con il sorriso sulle labbra di chi era orgoglioso di aver fatto la storia della squadra per cui aveva imparato a fare il tifo: da ragazzo, infatti, era stato juventino. Ma di Lazio, come disse un giorno Chinaglia, ci si ammala inguaribilmente.

La prima volta che l’ho visto avevo otto anni, ero un ragazzino in mezzo a tanti altri ragazzini: la scuola calcio della Lazio, quell’anno, era ancora a Tor di Quinto, nell’impianto che lo aveva visto allenarsi insieme a Chinaglia e Wilson, a Giordano e Manfredonia, ma anche nei periodi della bufera, quando guidava con tecnica e carisma gruppi largamente inferiori alle sue capacità tecniche. In quegli anni allenava le giovanili e ogni tanto veniva dirottato in mezzo a noi più piccoli, per respirare un’aria diversa, forse per divertirsi. Dopo qualche minuto mi trovai con uno scarpino slacciato: era un modello della Diadora nero con il logo giallo e i contorni in blu acceso, che di lato avevano l’autografo di Roberto Baggio. Una riproduzione destinata anche al mercato dei bambini, i cui lacci blu erano decisamente troppo lunghi: non avevo ancora imparato a farli passare sotto al piede per poi riportarli sulla linguetta per fare il fiocco. Si inginocchiò, mi spiegò come allacciarli e poi proseguì con l’allenamento. Un’ora dopo, mentre uscivamo, un genitore di un compagno di squadra mi si affiancò e mi disse: «A regazzi’, un giorno potrai di’ che te sei fatto allaccia’ le scarpe da D’Amico». Lì per lì non capii fino in fondo, quel poco che sapevo su di lui era legato soprattutto alla Lazio dello scudetto. Ma per i nati nella seconda metà degli anni Sessanta, troppo piccoli per vivere fino in fondo il tricolore del 1974, D’Amico è stato il capitano della nave in tempesta, l’unico a non farsi mai da parte.

Tornato a Roma dopo un anno a Torino, disposto a scendere in B pur di tornare nel suo habitat naturale, sacrifica le stagioni in cui avrebbe potuto monetizzare il proprio talento. La tripletta con il Varese evita la discesa agli inferi, cinque anni prima del gol di Fiorini contro il Vicenza al quale assiste da semplice tifoso, perché per D'Amico era più importante esserci che apparire, come quando arrivava in Piazza della Libertà il 9 gennaio per festeggiare gli anniversari della nascita della Lazio: un brindisi e via, per il puro gusto di appartenenza. Un anno più tardi è parte integrante della squadra che, ritrovati Giordano e Manfredonia, riconquista la Serie A, proprio nelle settimane in cui la Roma festeggia il suo secondo scudetto. E qualche mese dopo, proprio contro quella formazione fortissima, che da lì a poco avrebbe giocato la finale di Coppa dei Campioni, prende per mano una Lazio sgangherata in un derby dal pronostico chiusissimo, portandola avanti di due gol prima dell’inevitabile rimonta giallorossa fino al 2-2.

Da qualche mese si era dovuto rimettere sulle spalle la maglia numero 9, lasciata libera da Giordano, abbattuto da un’entrata killer di Antonio Bogoni in un Ascoli-Lazio il 31 dicembre del 1983. E poi la stagione 1984-85, assurda ai limiti del surreale, con Chinaglia presidente che decide di silurare Paolo Carosi per portare in panchina, a distanza di 13 anni dall’ultima esperienza italiana, Juan Carlos Lorenzo, ormai totalmente preda dei suoi riti scaramantici e delle sue folli convinzioni: dalle magliette bruciate nella certezza che portassero sfortuna a quella volta in cui costrinse Daniele Filisetti a perdere sei chili in una settimana pur di portarlo allo stesso peso forma di Trevor Francis, l’attaccante che avrebbe dovuto marcare. Aneddoti che D'Amico snocciolava con quella naturalezza che poi, una volta conclusa l’esperienza da calciatore con la maglia della Ternana, gli ha consentito di apparire sempre perfettamente a proprio agio anche davanti a una telecamera o in postazione di commento. Per il suo modo di scherzare, innato come il dono del dribbling, si è fatto voler bene da tutti, anche dai rivali più accaniti: pur in un calcio raccontato in maniera estremamente tossica, l’apprezzamento per il D’Amico uomo, oltre che per il calciatore era unanime, e non a caso una delle foto più utilizzate in questi giorni di commiato lo vede seduto tra Carlo Ancelotti e Roberto Pruzzo durante un derby, sorridente. Ai giorni nostri, quasi un’eresia.

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