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Vingegaard ha messo fine alla dittatura di Pogacar
22 lug 2022
Il danese è riuscito nell'impresa di battere al Tour de France un avversario che sembrava non poter perdere.
(articolo)
14 min
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La Danimarca è una terra completamente piatta, o quasi. Il punto più alto del Regno è la collina Møllehøj - che sfido chiunque a pronunciare ad alta voce - nei pressi di Skanderborg nel bel mezzo della penisola dello Jutland. Il Møllehøj è stato riconosciuto come punto più alto della Danimarca soltanto nel 2005 dopo attente misurazioni che hanno stabilito che in cima alla collina si tocca l’inebriante quota di 170,86 metri sul livello del mare.

La sfida all’ultimo centimetro era con altre due possenti colline dello Jutland, il Yding Skovhøj e l’Ejer Bavnehøj che sono più basse di 9 e 15 centimetri rispetto al Møllehøj. Tutto questo ci dice due cose fondamentali: la prima è che verosimilmente il suffisso “høj” in danese stia per “colle” o un qualcosa del genere; la seconda è che possiamo senza timore di smentita sostenere che la Danimarca è una terra completamente piatta, di quelle che quando ti ci trovi dentro ti fanno sentire perso, perché il tuo sguardo vaga all’orizzonte alla ricerca di qualcosa che lo blocchi, che interrompa quella linea retta infinita fra terra e cielo.

Appare quindi paradossale concepire la possibilità che un uomo nato e cresciuto da quelle parti possa poi - in età adulta - salire su una bicicletta, scendere di qualche centinaio di chilometri e scoprire, più o meno all’improvviso, di essere nato per scalare le montagne più alte d’Europa. E verrebbe da chiedersi cosa si prova in quei momenti, cosa scatta nella testa di un ragazzo danese nell’esatto istante in cui capisce che la sua intera esistenza è stata una menzogna, che il suo corpo non è nato per vivere al livello del mare ma è invece stato progettato per scalare le montagne, per arrampicarsi sempre più in alto verso il cielo, oltre le nuvole.

Perché in fondo non è tanto una questione di ambiente quanto di conformazione del proprio corpo. Certo, il corpo si può plasmare con il lavoro e l’allenamento, ma le doti naturali, la base da cui partire, sono un vincolo difficilmente superabile e che soprattutto non ha un vero e proprio legame con il mondo circostante.

Per far sì che questo avvenga occorre che ci sia un piano d’azione ben congegnato, una struttura solida, un’organizzazione capillare. Come ha sottolineato Gabriele Gianuzzi, è quello che ha fatto la federazione ciclistica danese negli ultimi anni, rafforzando le sue politiche a supporto dei giovani in particolare da quando il ciclismo in Danimarca ha perso l’ultima squadra World Tour che aveva: la CSC, poi Saxo Bank, guidata da Bjarne Riis, l’unico danese ad aver vinto il Tour de France. Almeno fino a oggi.

Jonas

Il 12 luglio 2018 si corre la prima tappa in linea del Giro della Valle d’Aosta, un’importante corsa a tappe riservata agli Under 23 che già dal nome lascia intendere che di pianura nelle varie tappe ce n’è ben poca. Alla partenza la maglia di leader della classifica generale è sulle spalle di un ciclista danese che è già nel mirino dell’allora Lotto NL-Jumbo, la squadra che di lì a poco sarebbe diventata quella che oggi conosciamo come Jumbo-Visma.

Si tratta di Jonas Vingegaard, promettente scalatore classe 1996. Non è più così giovane per gli standard della categoria, corre contro ragazzi che sono a volte anche di due o tre anni più giovani di lui. Però questo è un dettaglio che non spaventa troppo gli scout della squadra olandese, perché la carriera di Vingegaard era stata troncata l’anno prima da una brutta caduta al Tour des Fjords, ovviamente in Norvegia. Vingegaard stava disputando una buona stagione, tanti bei piazzamenti, tante belle prestazioni, quando il 24 maggio 2017 nella quarta tappa della corsa norvegese cadde rovinosamente rompendosi il femore.

Un infortunio di quelli che ti spezzano non solo la stagione ma anche a volte la carriera stessa. A vent’anni e mezzo, Vingegaard era pronto a esplodere dopo i buoni risultati del 2016 e di quell’inizio di 2017, ma quella frattura al femore lo costrinse a chiudere a maggio la sua stagione, quella decisiva prima dell’ovvio salto fra i professionisti. Nel 2018 però gli scout della Jumbo lo aspettano e continuano ad osservarlo. Pochi giorni prima dell’inizio del Giro della Valle d’Aosta gli hanno detto che l’avrebbero portato a un training camp in Austria, con tutta la squadra, per testarlo e vedere se era già pronto.

Qui nel 2019, appena entrato nel team della Jumbo-Visma (Gonzalo Arroyo Moreno/Getty Images)

E lui, Vingegaard, voleva dimostrare di essere pronto. La prima tappa è una cronoscalata, 7,9 chilometri da Saint-Gervais-Mont-Blanc a Saint Nicolas de Véroce. In quei pochi chilometri un galvanizzato Vingegaard infligge distacchi anche abbastanza pesanti ai suoi diretti rivali ma il giorno dopo è vittima di un’altra caduta; stavolta sbatte la testa: commozione cerebrale. Ancora una volta è costretto a fermarsi, e ancora una volta è fuori dai giochi per il training camp della Lotto NL-Jumbo.

La squadra olandese però su quel ragazzino sfortunato ci punta molto e quindi il 1° agosto dello stesso anno, meno di un mese dopo, lo mette sotto contratto. Per capire quanto in Olanda fosse considerato, il sito specializzato Wielerflits lo definisce «een talentvolle klimmer», un talentuoso scalatore, in un articolo dedicato solo all’annuncio del suo ingaggio da parte della Lotto NL-Jumbo. «Non vedo l'ora di crescere ulteriormente in questa squadra», sostiene il danese, perché «l'attenzione si concentrerà sul processo e non sui risultati».

Insomma, Vingegaard viene coccolato dalla Jumbo, viene aspettato perché tutti hanno grande fiducia in lui. È un eccellente scalatore, forte sul passo, buone doti di resistenza, si difende bene a cronometro. Il prospetto perfetto per il dopo Roglic, se tutto va bene. È una scommessa, certo, come se ne fanno tante. Però è anche una scommessa che in Olanda contano di poter vincere. E così è stato.

Al Tour de France 2021, dopo il ritiro di Roglic, la squadra si affida completamente a lui. Vingegaard era reduce da un inizio di stagione incoraggiante, con il secondo posto al Giro dei Paesi Baschi e la vittoria alla Settimana Coppi e Bartali. Si sapeva che avrebbe potuto fare il salto di qualità da un momento all’altro, ma forse nessuno poteva davvero aspettarsi che alla fine di quelle tre settimane in terra francese sarebbe diventato il più credibile rivale di Tadej Pogacar.

https://twitter.com/Eurosport_IT/status/1412849119161421825

Una sfida che si è ripetuta al Tour de France di quest’anno, ma stavolta con un Vingegaard molto più consapevole dei suoi mezzi. E soprattutto consapevole di potersi giocare le sue carte, perché lo sloveno non è sembrato inattaccabile come altre volte, anzi. Al Tour 2021, Vingegaard era già riuscito a staccarlo nella doppia scalata al Mont Ventoux, mostrando forse per la prima volta una grossa crepa in quel muro che sembrava fino a quel momento inscalfibile. Un segnale che Pogacar soffre quelle salite lunghe, regolari, in cui si sale anche ad altitudini critiche, intorno ai 2000 metri. Vingegaard aveva quindi dimostrato in maniera esemplare la differenza fra l’andare forte in salita e l’andare forte in montagna, fra l’essere cioè imbattibile su salite a bassa quota, magari anche non troppo lunghe, e l’andare forte quando si comincia a salire in quota, magari ripetutamente.

L’inizio del Tour è un assolo di Pogacar che si prende la maglia Gialla, vince due tappe, fa il suo solito show attaccando ovunque ci sia terreno per farlo. La Jumbo-Visma però piazza un solo colpo, là dove sa che può fare più male: nella tappa del Galibier.

Confusione

La tappa del Galibier è la prima vera tappa di montagna di questo Tour de France. Il giorno prima c’era stato un arrivo in salita innocuo e inutile, preceduto dall’ormai classica Planche des Belles Filles dove i distacchi sono sempre molto risicati vista la natura stessa di quella salita molto breve ed esplosiva, che si accende solo nei chilometri finali.

Prima ancora, però, la Jumbo-Visma si era resa protagonista in negativo di una situazione molto confusionaria, sul momento incomprensibile ma col senno di poi si può dire che alla fine è andato tutto per il meglio. Durante la tappa del pavé è in pieno controllo, finché Vingegaard non finisce a terra. La bici è rotta, la cambia con un compagno che però non ha le sue stesse misure, fa pochi metri e arriva l’ammiraglia dall’altra parte della strada. Vingegaard si ferma, butta la bici del compagno a terra, attraversa di corsa la strada, si fa dare una nuova bicicletta dall’ammiraglia e riparte. I suoi compagni invece perdono altro tempo a cercare e recuperare le rispettive biciclette prima di ripartire per dare una mano al capitano.

https://twitter.com/eurosport/status/1544692425045811201

Nel frattempo però il gruppo davanti procede spedito finché Roglic non incappa in una balla di fieno finita in mezzo alla strada. La bici si pianta, lui si ribalta e atterra con la spalla sull’asfalto. Tirandosi col ginocchio riesce a rimettersi a posto la spalla, ma quando riparte è ormai alle spalle anche del gruppetto di Vingegaard. A questo punto, invece di ricompattarsi e lanciare un inseguimento unico alla caccia di Tadej Pogacar, la Jumbo decide di dividere gli uomini: tre vanno con Vingegaard davanti, tre restano con Roglic dietro. Il risultato è che Vingegaard contiene i danni, riesce a rientrare sul gruppetto alle spalle di Pogacar e arriva con una manciata di secondi di ritardo. Roglic invece non riesce nell’aggancio, i suoi gregari si friggono le gambe nell’inseguimento e lui sprofonda a oltre due minuti, fuori classifica.

Una scelta lì per lì priva di ogni senso: la Jumbo ha deciso sul momento di tenere a galla uno solo dei suoi due capitani, lasciando alla deriva Roglic. Probabilmente ricompattandosi avrebbero perso di più sul momento ma sarebbero riusciti a limitare i danni e a tenere in piedi tutti e due. Col senno di poi, invece, la scelta si è rivelata corretta ma è difficile immaginare che già in quel momento alla Jumbo fossero tutti consapevoli che Roglic fosse quello fisicamente messo peggio dei due e che non sarebbe riuscito a portare avanti ancora a lungo il suo Tour de France.

Sicuramente non lo sapeva Tadej Pogacar sulle Alpi. Nella tappa del Galibier, i gialloneri attaccano sul Col du Telegraphe, poi rinforzano in discesa e rimangono in quattro: i due Jumbo, Roglic e Vingegaard, la maglia gialla di Tadej Pogacar e il vecchio Geraint Thomas. Roglic a questo punto del Tour è già lontano in classifica, ha dolori alla schiena che lo costringeranno al ritiro nel successivo giorno di riposo, ma questo Pogacar non può saperlo. E quindi quando i due della Jumbo iniziano a scattare a ripetizione, a turno, Pogacar decide di seguire ogni singolo scatto, di non lasciar andare via nessuno dei due. Vingegaard è il più vicino e ovviamente non può permettersi di farselo scappare. Ma Roglic è già a quasi 3 minuti in classifica e potrebbe concedergli maggiore libertà.

Invece Pogacar si sente indistruttibile e risponde a tutti gli scatti di quei due. A vederla in diretta, la scena dei due uomini della Jumbo che attaccano ai piedi del Galibier è sembrata quasi surreale, a tratti velleitaria. Avrebbero potuto aspettare il tratto più duro della salita, invece di sfiancarsi nel fondovalle. Invece è proprio quello l’inganno. La Jumbo sa che Roglic non può dare garanzie nel tratto duro del Galibier e quindi deve giocarsi il bluff subito, appena possibile, prima che sia troppo tardi.

Inoltre, devono fare quel giochino in un tratto in cui stare a ruota conviene il più possibile, in modo che quello che dei due non attacca abbia il maggior vantaggio aerodinamico possibile nel rimanere a ruota di Pogacar che va a chiudere col vento in faccia. Se avessero fatto lo stesso gioco sul tratto più duro, anche ipotizzando una tenuta migliore da parte della schiena di Roglic, non avrebbero ottenuto lo stesso vantaggio. Avrebbero semplicemente speso praticamente le stesse energie di Pogacar. Facendo quel lavoro in quel tratto di fondovalle in falsopiano, invece, hanno costretto la maglia gialla a spendere molte più energie mentre loro potevano a turno risparmiare stando a ruota.

Una strategia che a lungo andare ha dato i suoi frutti. Anche perché la facilità con cui Pogacar era andato a chiudere su tutti gli scatti dei Jumbo, aveva fatto credere al giovane sloveno di essere davvero in stato di grazia, inattaccabile e invincibile. Così, sul Galibier vero e proprio, è stato proprio lui ad attaccare, staccando tutti gli avversari ma portandosi a spasso per tutta la salita Jonas Vingegaard. Il danese è riuscito a tenere la ruota di Pogacar e gli si è messo dietro, al riparo dal vento, sfruttando il grande lavoro dell’avversario e risparmiando preziose energie, sia fisiche che mentali.

Ai piedi del Col du Granon, Pogacar e Vingegaard sono di nuovo in compagnia di altri compagni di viaggio. Majka si mette in testa a fare l’andatura ma non è un ritmo elevato, anzi. Pogacar sente la gamba svanire, le energie non ci sono più. Forse ha pagato gli scatti ai piedi del Galibier, forse l’azione di ritmo proprio sul Galibier. Forse il caldo estremo o l’altitudine. O forse l’insieme di tutte queste cose, che tutte hanno contribuito in parte a far sì che Pogacar arrivasse sull’ultima salita di giornata completamente svuotato.

Quando parte Vingegaard manca ancora tanto al traguardo e Pogacar non riesce a seguire le ruote né del danese né degli altri avversari che lo lasciano indietro, da solo. È la prima volta che Pogacar si trova in una situazione di così chiara e netta difficoltà e infatti cede di schianto. Non tanto fisicamente - perché poi il giorno dopo invece sull’Alpe d’Huez sarà di nuovo lì allo stesso livello di Vingegaard - quanto proprio mentalmente. Non essere abituato a perdere, ha fatto sì che nella testa di Pogacar in quel momento si rompesse qualcosa, come un meccanismo perfetto che all’improvviso smette di funzionare per un semplice bastoncino infilato negli ingranaggi. Una piccola crisi di gambe diventa così per lui un baratro mentale da cui non riesce a uscire e in cui sprofonda, perdendo la maglia gialla e anche la possibilità di vincere il suo terzo Tour de France consecutivo.

Attacchi

Il resto della corsa, finora, è stato un susseguirsi di assalti alla baionetta da parte sua nel tentativo disperato di riprendersi lo scettro del Tour. Ma sono stati tutti attacchi o forzati, nelle tappe in cui non c’era davvero molto terreno per provare ad attaccare, oppure stoppati immediatamente da un Vingegaard in stato di grazia.

Pogacar ha provato poi sui Pirenei a sgretolare il gruppo con i suoi gregari per sfidare Vingegaard all’uno contro uno. Una scelta che poteva anche essere sensata, visto che Pogacar ha sui Pirenei un terreno maggiormente favorevole con salite un po’ più brevi e più basse rispetto alle Alpi. Però sfidare costantemente Vingegaard direttamente, senza una vera tattica, non si è rivelata la miglior strategia.

Il danese ha dimostrato tutta la sua forza nel resistere ai ripetuti attacchi di Pogacar, che hanno invece sgretolato tutti gli altri contendenti alla classifica generale. In alcuni frangenti è anzi sembrato addirittura superiore allo sloveno tanto da dare l’idea che se avesse invece deciso di attaccare lui in prima persona avrebbe potuto scavare un solco ancor più profondo in classifica.

Invece Vingegaard si è limitato a controllare la brutale e cieca rabbia di un Pogacar sempre più frustrato e incattivito. Gli attacchi dello sloveno nell’ultima tappa prima della salita di Hautacam sono sembrati insensatamente violenti e tatticamente inutili. Probabilmente però - visto anche l’immobilismo delle altre squadre che hanno preferito difendere le posizioni piuttosto che provare a sfruttare la situazione - la tattica di Pogacar di attaccare sempre e comunque Vingegaard sperando in un suo cedimento alla lunga, era l’unica strada possibile da percorrere. La UAE non ha i mezzi tecnici per inventarsi un’azione di squadra tale da mettere in crisi la Jumbo e soprattutto Vingegaard non ha mai mollato la ruota di Pogacar neanche per un secondo, neanche quando lo sloveno provava a partire in azioni folli a distanze siderali dal traguardo.

https://twitter.com/Eurosport_IT/status/1550137458557435905

L’ultima cronometro di sabato, con certezza quasi matematica, sancirà la definitiva vittoria di Jonas Vingegaard in questo Tour de France. Il danese a cronometro va forte e l’ha dimostrato in tutte le occasioni: l’anno scorso nella prima crono perse solo 1” al chilometro da Tadej Pogacar e nell’ultima crono arrivò addirittura davanti allo sloveno di 20”. Uno storico che quindi vedrebbe nel caso più ottimistico per la UAE un Pogacar che riesce a dare fra i 40 e i 60 secondi al rivale. Ma l’idea che Vingegaard riesca invece a incrementare addirittura il suo vantaggio su Pogacar non è del tutto impronosticabile, soprattutto alla luce della caduta dello sloveno nella discesa verso Hautacam, nell’ultima tappa pirenaica.

Si chiuderà così quindi uno dei più spettacolari Tour de France degli ultimi vent’anni, animato dal duello all’ultimo sangue fra Vingegaard e Pogacar. Un Tour de France in cui lo sloveno ha saputo staccare tutti gli avversari tranne uno. Ed è bastata una sola tappa, una singola azione, un solo giorno di fuoco per far crollare tutto l’impero di Pogacar. Una singola tappa in cui Pogacar ha paradossalmente distrutto anni di costruzione di un mito, di una leggenda vivente. Vingegaard ha oggi squarciato il velo di Maya rivelandoci la realtà dietro a quel muro che sembrava indistruttibile.

Vingegaard ha quindi ucciso l’idea del superuomo, ha distrutto tutte le nostre certezze che Pogacar aveva faticosamente costruito in questi ultimi due anni. Ma con il suo gesto, con la sua vittoria e la sua tenacia, ci ha regalato finalmente uno scenario da sogno in cui possiamo immergerci negli anni a venire. Il duello che le grandi corse a tappe meritano per tornare ad essere il cuore pulsante di un ciclismo che sembrava destinato a diventare il regno di un sovrano incontrastato e invincibile.

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