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Visita guidata al purgatorio del tennis
03 ago 2018
03 ago 2018
Reportage dal Guzzini Challenger di Recanati, dove i tennisti giocano per la sopravvivenza.
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L'Italia è la patria dei tornei Challenger, nessuno ne organizza di più al mondo. Solo nel 2017 ne sono stati giocati 22, negli Stati Uniti 21. Sempre nel 2017, da nord a sud, da est a ovest, da febbraio a novembre, dai capoluoghi (Bergamo, Barletta, Vicenza, Caltanissetta, Milano, Perugia, Biella, Como, Genova, Andria, Brescia e persino Roma in due eventi, seppur nei circoli Garden e Due Ponti e non al Foro Italico) ai borghi che non fanno provincia, più o meno grandi (Francavilla al Mare, Mestre, Todi, San Benedetto del Tronto, Cortina d'Ampezzo, Cordenons, Manerbio e Ortisei), è stato un Giro d'Italia racchetta in mano.

Alcuni di questi tornei hanno nomi iconici, come l'Open della Città della Disfida, a Barletta; altri più classici, tipo “Internazionali di”. Oppure, per marcare il territorio, il circolo in cui si gioca il torneo, come l'Aspria di Milano. In altri casi, infine, c'è uno sponsor che griffa il tutto, Shimadzu, Bnp Paribas, Advantage Cars.

Uno di questi è il Guzzini Challenger, che si disputa nella prima settimana di luglio, in contemporanea con Wimbledon, a Recanati, città famosa nel mondo non per il tennis ma per aver dato i natali al malinconico Giacomo Leopardi. La presenza del poeta nel “natio borgo selvaggio” permea ogni metro, ogni ristorante, ogni albergo, ogni via, con citazioni continue, come quelle dei pannelli appesi in tutto il centro storico che riportano i suoi versi.

Un suo pronipote, il conte Vanni Leopardi, fa parte del comitato d'onore del challenger di Recanati. Il torneo possiede un albo d’oro di tutto rispetto: due vittorie di Davide Sanguinetti e, sempre rimanendo in ambito italiano, una a testa per Daniele Bracciali, Simone Bolelli, Uros Vico e Thomas Fabbiano. L'altro tennista con due successi è lo svizzero Stephane Bohli, mentre il più famoso fin qua tra i trionfatori (anno 2014) è senz'altro il mancino lussemburghese Gilles Muller, grande specialista delle superfici veloci.

Mentre a Recanati il tennis si mostra nudo e crudo, a Wimbledon va in scena quello che Giorgio Bassani ha definito “il Vaticano del tennis”. Le fragole con la panna, i giocatori rigorosamente in bianco, la seconda domenica di riposo salvo ritardi dovuti alla pioggia. Ho fatto un giro al torneo di Recanati, per capire quanto fosse differente il tennis che si gioca su questi campi da quello dei prati immacolati dell’All England Club.


Il Guzzini Challenger si disputa nel Circolo Tennis Francesco Guzzini, membro della famiglia più importante della città di Recanati. L’azienda delle tazzine si è espansa in altri settori, diventando tra i leader mondiali, ad esempio, nel settore dell'illuminazione per interni ed esterni, oppure nella progettazione e nello sviluppo di vasche da bagno. Il gruppo ormai conta duemila dipendenti, alcuni anche in Cina, ma ha il suo cuore a Recanati.

Giannunzio Guzzini, primogenito (classe 1938) di Mariano, figlio a sua volta del fondatore dell'azienda, Enrico, oltre a ricoprire cariche importanti in azienda era pure grande appassionato di tennis, tanto da voler sviluppare un circolo per sé ed eventualmente le famiglie dei suoi dipendenti. La più classica delle situazioni dopolavoristiche. Quattro campi in cemento, oggi simili come superficie a quelli dello US Open, una scuola-tennis con un centinaio di allievi: questi, i fiori all'occhiello.

Il signor Giannunzio è morto nel 2006 dopo una lunghissima battaglia contro un tumore e dopo aver ricevuto anche una laurea Honoris Causa all'università di Camerino. «Tutto è fattibile, l'importante è avere amore per il proprio lavoro e non mollare mai», disse quel giorno nell'ateneo “Il designer della luce”, come veniva chiamato dai giornali da quando aveva fondato assieme ai fratelli la iGuzzini, con quella “i” davanti al cognome che anticipava la strategia della Apple.



Quanto costa un Challenger
Il torneo di Recanati portava il vecchio nome latina della città, “Helvia Recina”, poi è stato intitolato al figlio di Giannunzio, morto tragicamente in un incidente stradale. Dopo la sua morte il torneo è cresciuto molto nella sua importanza. Nel 2003 è entrato nel circuito Challenger, dopo uno spostamento e un riammodernamento del circolo dal 1990 al 2000, con un mutuo di un miliardo di lire a tasso agevolato acceso con il credito sportivo e ripagato in dieci anni.

Una volta il torneo si disputava a fine luglio e non cozzava con Wimbledon, prima che l'Atp cambiasse il calendario. Questo naturalmente ha reso più bassa l'appetibilità dell'evento, uno dei primi di preparazione, comunque, al cemento nordamericano. Quanto costa organizzare un torneo del genere?

Il montepremi è di 43mila euro totali, il minimo sindacale per poter stare dentro il circuito Challenger: tutti soldi raccolti attraverso sponsor, con Guzzini ovviamente in cima alla lista e l'indotto a ruota. «Però i costi totali sono quasi di 120mila euro, perché bisogna garantire ai giocatori anche l'hospitality» dice Pierpaolo Cenci, che ha 47 anni, ma ne dimostra molti meno. «Cioè pagare loro in anticipo la mezza pensione dell'albergo. Pranzano e cenano per conto loro, però si fa presto a fare i conti, visto che gliela dobbiamo garantire dal venerdì prima del torneo al giovedì della settimana del torneo. Poi se se ne vanno prima, quando sono eliminati, tanto meglio, ci guadagniamo. Molti però si trattengono, si allenano, qualcuno va al mare. E poi le altre spese, diamo 15 euro al giorno ai giudici di linea, per esempio, più i pasti gratis all'interno del circolo, l'affitto degli spalti, i tabelloni e così via. I trenta raccattapalle sono praticamente tutti di qua, ragazzini e ragazzine nostre allieve. Non prendono un euro, ma anche loro mangiano e bevono gratis. Prima del torneo, nelle settimane precedenti, organizziamo almeno quattro incontri in cui li esercitiamo, con simulazioni di gioco».

Il circolo non è nel centro storico di Recanati, anche perché sarebbe impossibile incastrarcelo, con le stradine strette e lastricate di pavé e i luoghi leopardiani (come la casa, il museo, o la Torre del Passero Solitario, un percorso di 1.6 chilometri chiamato affettuosamente “Il budello”). Si trova quindi un filo più a valle, in direzione di Macerata, in uno spiazzo al termine di una discesa ripidissima, dopo tre curve a gomito, che costeggia un gruppo di case; l'ingresso è abbastanza anonimo, un tappeto rosso lievemente sgualcito porta dentro il circolo, dove le prime persone che si incontrano sono gli accordatori delle racchette («in una settimana ne abbiamo sistemate qualche centinaio»), dentro un gazebo bianco che vende anche magliette e accessori vari, accanto al grande pannello con i due tabelloni dei tornei.

Dal centro ad arrivare al torneo ci vogliono una ventina di minuti di camminata, ma volendo c'è a disposizione, a certi orari una macchina dell'organizzazione del torneo, che fa avanti e indietro, soprattutto per i giocatori. Una di queste ha raccattato me e due dei partecipanti al challenger, lo spagnolo Bernabé Zapata e l'ecuadoriano Gonzalo Escobar, fuori dalla stazione di Porto Recanati. Arrivavamo con il regionale proveniente da Ancona, e questi tennisti li riconosci subito, con i loro borsoni e le valigie, è come se si portassero dietro un ufficio ambulante. Escobar con il sacchetto di plastica in mano pieno di biancheria; “Berna” ancora deluso per la fresca eliminazione della Spagna dal Mondiale. Sia l'uno che l'altro arrivavano da Milano, dal challenger disputato al circolo Aspria.

Il campo numero uno del circolo Francesco Guzzini, subito a destra dell'ingresso, è ribattezzato per l'occasione “Centrale”: tribuna a gradoni con eccellente visuale laterale, seggioline rosse alle spalle di una delle due linee di fondo, dalla parte opposta il tabellone elettronico con il punteggio aggiornato in tempo reale. Accanto alla tribuna a gradoni, l'ingresso verso gli spogliatoi e la palestra: una scala porta al piano superiore, al ristorante, preso d'assalto dai giocatori all'ora dei pasti, quando è tempo di catapultarsi sul buffet. Oppure durante le partite del Mondiale, con i sudamericani in prima fila.

Dalla terrazza del ristorante - che si chiama Settecinquesette - il panorama è spettacolare, sulla valle circostante. In sottofondo il rumore dei grilli e i rintocchi ogni mezz'ora delle campane della chiesa delle Grazie, appollaiata su una collinetta. Il secondo campo dove si gioca è posizionato in diagonale rispetto al Centrale e si chiama, un po' pomposamente, “Grand Stand”. Ci si arriva dopo un percorso in discesa e una svolta a destra. Unica tribunetta, per pochi intimi. Ogni tanto qualche moto viene giù sparata e i giocatori si girano infastiditi, ma nulla in confronto, per dire, agli aerei sopra Flushing Meadows.

Come in un gioco dei quattro cantoni, gli altri due campi in diagonale sono semi-coperti, con aperture laterali, e servono solo per chi si vuole allenare. Lì i giocatori con i coach, oppure tra di loro, in un ambiente molto familiare, iniziano alle otto di mattina. Colpisce proprio la sensazione di vicinanza, quasi di solidarietà, che si viene a formare; si creano dei clan, o comunque dei piccoli gruppi accomunati da vicinanza geografica (spagnoli e sudamericani soprattutto) o da antica conoscenza.

Nel centro storico di Recanati non c'è mezzo cartellone che pubblicizzi il torneo. Dominano i cartelli che annunciano l'ennesima lettura pubblica delle opere di Giacomo Leopardi (“Lavia dice Leopardi” nel 220esimo anniversario della nascita del poeta e nel 200esimo anniversario della stesura dell'Infinito, c'è sempre una ricorrenza) o qualche concerto in programma (Lunaria 2018 con Ron, Le Vibrazioni, Loredana Bertè e Lo Stato Sociale). Del tennis nemmeno l'ombra.

Sottobosco
Facciamoci anche delle domande semplici: come funziona un Challenger? Chi decide i tabelloni?

L'Atp, tre settimane prima dell'inizio del torneo, compila un elenco, detto entry-list, in base alle classifiche, con un “cutoff”, ovvero un ranking minimo, dopo il quale bisogna partire dalle qualificazioni. Nel caso del Guzzini il cutoff è la posizione 238 del mondo. Ci sono quindi 22 giocatori oltre il numero 100 che, in teoria, dovranno far parte del tabellone principale di quel Challenger di lì a tre settimane. Certo, se nel frattempo, come nel caso del Guzzini, c'è di mezzo Wimbledon, è quasi sicuro che quei 22 giocatori tenteranno la carta delle qualificazioni ai Championships. Entrare nel tabellone principale a Londra significa incamerare in automatico 39mila sterline, circa 45mila euro. Roba da svoltare una stagione, più 10 punti Atp che aiutano sempre in funzione ranking, se indossiamo i panni di un professionista oltre la centesima posizione.

Nel momento in cui scriviamo il tennista numero 100 è l'argentino Nicholas Kicker, con 578 punti. Vincere un challenger ne porta 80, quindi siamo al quinto livello, dato che i Grandi Slam danno 2000 punti e sono seguiti dai tornei 1000, 500 e 250.



Per fare un paragone, il Guzzini ha un montepremi globale per il singolare di 32.240 euro (43mila comprendendo anche il doppio), col vincitore a prenderne 6.190, meno il 30% di tasse. Ipotizziamo una permanenza in campo di nove ore totali per cinque partite, fanno 678 euro lordi all'ora: nemmeno poco, ma ripensando ai 45mila, sempre lordi, di Wimbledon per lo stesso periodo di tempo trascorso sui prati, sono briciole.

Se invece uno dei famosi 22 del cutoff non si qualifica ai Championships, allora sì, può venire a Recanati, in questo caso, salvo che si infortuni. L'entry list dell'Atp comprende, oltre ai titolari, un altro elenco, stavolta molto più lungo, detto degli “Alternates”: in pratica, a partire dal ranking del ventiduesimo “titolare”, altri 152 giocatori che hanno il diritto di partecipazione in caso di rinuncia o assenza di quelli che li precedono. Questi “Alternates” vanno, sempre seguendo il cutoff, dalla posizione 239 compresa in giù.

Sempre nel momento in cui scriviamo, l'ultimo della fila è l'italiano Giuliano Benedetti, numero 1573 del mondo, che potrebbe entrare se rinunciassero in 151. Probabilmente Giuliano è altrove, con il tennis nemmeno nei suoi più reconditi pensieri, perché a quel livello di ranking Atp, anche se hai dei punti, non puoi considerarti davvero un professionista.

L'Itf, l'International Tennis Federation, il “governo del tennis mondiale”, secondo una ricerca datata (2013), ma comunque interessante, ha stabilito che il break-even per un pro è da considerare intorno alla 336esima posizione del ranking per quanto riguarda gli uomini, e 253 per le donne,. In pratica “ci stai dentro” e sei in attivo, tra entrate e uscite, fino a quella posizione in classifica, altrimenti vai sotto. E allora sta a te se tentare di non affogare o mollare il colpo. Al netto di quella piaga che ha toccato spesso i tornei minori, chiamata “partite vendute” o quantomeno taroccate. Il giochino può farti incassare qualche decina di euro, ma se vieni beccato, e i controlli sono rigorosissimi, gli ammonimenti ovunque, fino all'ingresso degli spogliatoi, c'è il rischio di essere radiato e di non partecipare più a nessun torneo. Noi stessi siamo riforniti di un foglietto che ci impedisce di fornire informazioni a chiunque.

La formazione dei tabelloni si gioca sul filo delle ore. Quest'anno veniva data per sicura la presenza sia di Ruben Bemelmans che di Thomas Fabbiano, che però nel frattempo si erano qualificati al tabellone principale di Wimbledon. E l'italiano è pure andato molto bene, fino al terzo turno. Non solo loro hanno dato forfait, seppur per giusta causa, l'evento marchigiano, ma più della metà, dodici giocatori, dell'ormai frusta entry list dei 22.

C'è chi, speranzoso, ha rischiato il tutto per tutto: fuori dalle qualificazioni a Londra all'ultimo turno, è rimasto nella capitale inglese fino alla fine del martedì nella speranza di abbrancare, da “lucky loser”, un posto in tabellone lasciato libero da un infortunato dell'ultimissima ora. Senza guai altrui, praticamente una settimana persa, con il miraggio svanito dei 45mila euro.

Quindi in sostanza rimanevano altri 22 posti per riempire il main draw recanatese: quattro a delle wild card, tutte italiane (Andrea Vavassori, Enrico Dalla Valle, Raul Brancaccio e Giacomo Miccini, “enfant du pays”, essendo di Recanati, nonché ex fidanzato dell'idolo locale, Camila Giorgi, che è di Macerata), dodici ai primi disponibili tra gli “Alternates”, poi due ai cosiddetti “Special Exent”, ovvero quei tennisti che, già iscritti alle qualificazioni del challenger, nella settimana immediatamente precedente sono andati in semifinale o in finale in un altro torneo, di solito dello stesso livello, per cui non essendo ubiqui sono quantomeno tutelati.

Infine, quattro giocatori vengono proprio dal torneo di qualificazione: chi esce da quest'ultimo mini-tabellone e non rientra dalla finestra come lucky-loser va sicuramente in perdita, zero euro dal montepremi, zero punti Atp, ma solo amarezza, ripartire da un'altra parte, un'altra macchinata o un altro volo o un altro treno verso chissà dove, un altro torneo, un altro tentativo, magari in zona, e viaggiare, viaggiare, sempre viaggiare, alberghi non necessariamente a quattro o cinque stelle e mille pensieri per la testa da mettere da parte una volta in campo.

Dal punto di vista dei giocatori, ciascuno può iscriversi a tre tornei per ogni settimana del calendario. Lo fa naturalmente con un discreto anticipo, quasi un mese, tramite una specie di intranet dell'Atp. Poi, avvicinandosi il periodo di quei tornei, decide su quale concentrarsi. Sempre, come ovvio, in base al proprio ranking e ai vari cutoff degli eventi.

Quando è moda è moda
Ultimamente, però, i prodotti dei challenger vanno molto di moda. Che dire, a proposito di macchinate, della storia di Marco Trungelliti, l'argentino ripescato da lucky loser al Roland Garros che, già a Barcellona pronto per il challenger di Vicenza, prende invece l'auto a noleggio, si sciroppa dieci ore di viaggio e batte Bernard Tomic al primo turno? Poche settimane prima aveva vinto il challenger di Barletta, quello chiamato “Città della Disfida”, in finale contro Simone Bolelli.

Il caso più clamoroso, tuttavia, è stato, e noi italiani l'abbiamo conosciuto bene, Marco Cecchinato, che a inizio anno arrancava in questi tornei, e poi da maggio in avanti ha avuto un'escalation strepitosa fino alla semifinale del Roland Garros che lo ha reso addirittura testa di serie a Wimbledon. Per Cecchinato tutto era cominciato da un successo nel challenger di Santiago del Cile, e quindi da quegli 80 punti (e i 7.200 dollari, sempre bene accetti anche se lordi) che l'hanno fatto salire nella classifica Atp permettendogli di entrare in tabelloni più prestigiosi senza passare dalle qualificazioni e così via, la vittoria nel torneo 250 di Budapest e le due memorabili settimane parigine.

«Guarda, se c'era uno che si meritava tutto era proprio Marco. Io ci ho giocato contro due volte e in entrambi i casi ho perso, ma è giusto così», ci confida dopo essersi qualificato per il tabellone principale del Guzzini Challenger il genovese Andrea Basso, quasi 25 anni, numero 314 del mondo nel momento in cui vi scriviamo. Prodotto dell'accademia di Diego Nargiso, a Milano 3, è un habitué di questo sottobosco in cui cerca comunque di districarsi.

«Se finisci l'anno in pari tra spese e guadagni sei contento. Io bene o male ci riesco e non mi lamento, certo bisogna soffrire», ammette levandosi una borsa del ghiaccio che perde acqua dalla spalla sinistra, lui mancino, look alternativo, barbetta curata, naso un filo adunco, pantaloncini rossi e cappellino all'indietro. «Questa è la mia prima stagione, diciamo così, da professionista, e ho già ottenuto ottimi risultati. Ad aprile ho fatto quarti di finale al Challenger di Città del Messico, ero partito dalle qualificazioni lì, perché a Panama invece ero dentro al tabellone principale ma sono uscito al secondo turno. Mi son detto che valeva la pena provare, in fondo stavo più o meno in zona».

Per Andrea, accompagnato a Recanati dall'amico/coach Stefano, che ha un passato da giocatore di seconda categoria, anche un quarto di finale al challenger di casa, a Genova, nel 2017. «Comunque decidiamo d'accordo con Nargiso dove e a cosa partecipare. Il livello medio secondo me si è alzato tantissimo, non è facile galleggiare. All'inizio mia mamma non era molto contenta, mentre invece papà era favorevole. Sulla carta d'identità non ho scritto nulla alla voce professione, nemmeno studente, in fondo ho mollato il liceo scientifico dopo il quarto anno». Intanto è entrato nel tabellone principale del Guzzini Challenger dopo essersi sbarazzato, nell'ultimo turno di qualificazione, del colombiano Alejandro Gonzalez, ex 70 del mondo. È poi uscito subito, battuto da Lorenzo Giustino, 247 del ranking.

Non c'è niente da fare, per arrivare in alto bisogna partire dal pane duro. Dalle tribune del circolo tennis i ragazzi, più o meno giovani sbuffano e soffiano, specie nei primi turni, con un caldo e un'umidità soffocante, per un po' di posto al sole. Un'afa che il primo giorno causa una crisi epilettica a un giovane raccattapalle, salvato per un pelo dal massaggiatore ufficiale del torneo sul Grand Stand.

Ogni quindici per un giocatore potrebbe significare una svolta nella carriera, il nastro, l'incrocio delle righe, la svista arbitrale (ne abbiamo contate diverse): il tennis è uno sport crudele se non nuoti affoghi. Per non scomparire dai radar sei costretto a mantenere come minimo il tuo livello, “difendere i tuoi punti Atp”, come si dice in un gergo che mette pressione già di suo, altrimenti crolli in classifica e tanti saluti ai vari tornei 1000, 500 o 250, per non parlare del Grande Slam, il grande sogno, con un'eliminazione al primo turno che ti fa quadrare il bilancio economico personale. A differenza di molti altri sport, stare fermo o giocare molto male per tre, quattro, cinque o sei mesi è un dramma, con ripercussioni personali non indifferenti.



«Se non stai bene di testa è un casino», ci confida il ceco Lukas Rosol, che dei 32 del tabellone principale del Challenger di Recanati è quello che è stato più in alto di tutti, nella classifica Atp, numero 26 nel settembre 2014. Accompagnato dalla moglie Petra, è arrivato in città direttamente dall'Itf (i tornei di livello ancora più basso rispetto ai Challenger, che dal 2019 non daranno più punti Atp) di Pardubice, vicino a casa, vinto nella settimana precedente e che gli ha permesso di entrare nel tabellone come Special Exent. «Avevo un ranking sufficiente per partecipare comunque a questo challenger (era infatti tredicesimo nella lista degli “Alternates”, ndr), ma aggiungerne altri non fa mai male». E com'è finito a giocare tornei di questo livello dopo essere arrivato fino al 26 del mondo? «Un infortunio al Tendine d'Achille, molto brutto, sono stato fermo per tantissimo tempo e ho finito per perdere quasi tutti i miei punti in classifica, finendo oltre il 300 nel ranking».

Rosol ha 32 anni ed è alto quasi due metri. In un Wimbledon del 2012 eliminò Rafa Nadal. «Allora ero il numero 100 del mondo, non ero ancora davvero al top della mia carriera. Ripensando a quella partita non mi viene in mente chissà cosa. Giocai molto molto bene, tutto qua. La vita è andata avanti». Da Londra a Recanati il passo non è stato breve. «Intanto, non si conoscono gli avversari» mi dice sorridendo, «Se sei nel circuito maggiore Atp bene o male sai come giocano tutti, sai sfruttare i loro punti deboli e loro conoscono i tuoi. Nei challenger invece no, nemmeno i volti, perché è un circuito dove il ricambio può essere enorme da una settimana all'altra. Ho dovuto fare delle ricerche su internet nei giorni scorsi almeno per vedere le facce dei miei futuri avversari, quindi si va un po' al buio, al massimo sbircio durante le sessioni di allenamento qui».

A quasi 33 anni, Rosol comunque non si pone limiti: «Finché mi divertirò andrò avanti, non ho pressione addosso. Pianificare i viaggi con mia moglie, settimana dopo settimana, per ora non mi stanca. Poi chissà. Di sicuro è fondamentale avere accanto a sé una persona che ti sostenga, specialmente dopo aver passato i trent'anni, quando hai poca voglia di rimanere solo. Vedo qua tanti ragazzi che si spostano in gruppi, sono ancora giovani, beati loro, è giusto così». E Petra conferma: «Sì, cerco nel limite del possibile di stargli vicino; una cosa in comune ce l'abbiamo, da juniores ero la numero due della Repubblica Ceca, prima di infortunarmi gravemente e di dire addio alla carriera tennistica». Da poco ha preso una laurea in Ingegneria.

A furia di parlare tanto di “testa”, è proprio questa ad abbandonarlo al secondo turno quando nel terzo set un paio di chiamate dubbie lo fanno deconcentrare e poi sclerare contro l'arbitro. Rosol si prende un warning dopo l'ennesima scenata con pallina scagliata fuori dal circolo, a cui Lukas risponde con “I give a warning to the chair umpire”, in pratica contraccambiando la penalizzazione. Non darà nemmeno la mano al giudice di sedia dopo la sconfitta 4-6 6-4 6-2 contro il giapponese Hiroki Moriya, 27 anni, ottava testa di serie, che al primo turno ha eliminato l'italiano Andrea Arnaboldi. Fine della corsa, di nuovo in macchina verso un altro torneo, non prima di un bagno a Porto Recanati.

Moriya è accompagnato da uno dei personaggi più bizzarri incontrati durante il torneo: Arhur Serreaux, 31 anni, nato a Houston da una famiglia francese di Le Havre e poi cresciuto in Venezuela, attualmente lavora a Sabadell, in Catalunya, nell'accademia di Oscar Hernandez, ex buon giocatore spagnolo. Hiroki, numero 221 del mondo, fisico minuto e compatto (quando stringe la mano a Rosol gli arriva a malapena al mento), miope come una talpa e per questo dotato di un paio di occhiali da sole appositi mentre è in campo, è uno dei quindici allievi di questa struttura, che comprende anche degli juniores.

Il curriculum di Arthur, che parla fluentemente tre lingue (inglese, francese e spagnolo), è parecchio variegato, oltre alla sua vita personale. Nato in Texas, studia e si laurea alla New Mexico State University, dove trova anche una discreta squadra di tennis con cui allenarsi. Nulla di eccezionale, però comincia a girare il sottobosco dei torneini locali, fino ad arrivare intorno alla posizione 500 del ranking mondiale. Soprattutto, in un periodo dove lavora al “Ritz Carlton” di Key Biscayne a Miami, frequenta un sacco di persone legate al mondo del tennis.

Diventa una passione più che un lavoro, il gioco in sé, anche perché alla racchetta affianca gli studi in Sport Management e Digital Marketing. Questi due master, terminati nel 2016, anno in cui deve rallentare un po' i suoi ritmi per via di un tremendo incidente al fratello, costretto da allora su una sedia a rotelle, lo portano a mollare sempre più il tennis per dedicarsi solo all'aspetto gestionale: organizza qualche mini-torneo negli Stati Uniti e conosce Oscar Hernandez, appunto, e insieme ad altri soci come Salvador Navarro, ex allenatore di Flavia Pennetta, aprono l'accademia vicino a Barcellona. «Un lavoro lungo e faticoso, ma che ha portato i suoi frutti», ci dice. E quando gli chiediamo come si fa a creare dal nulla una struttura del genere ci spiega: «Prima di tutto devi trovare dei partner che ti seguano, ma poi è fondamentale avere degli impianti idonei. Tanto la federazione non ti aiuta mai, devi fare da solo».

Segue Moriya come manager e come allenatore, in fondo qualcosina Arthur se la porta dietro dalle esperienze passate sul campo. In realtà sembra più uno psicologo, o uno stregone: gli sta continuamente accanto, in tribuna lo sostiene con applausi più forti di modo che si sentano bene, gli grida “Bravo, bravo” ogni due punti, e soprattutto lo accompagna in giro per i tornei. «In Europa è molto più bello giocare, è più comodo» ammette Hiroki, i cui genitori hanno entrambi praticato il tennis da giovani. «Per dire, anche in Cina e in generale in Asia ci sono tanti eventi, ma è più difficile parteciparvi e muoversi». A 27 anni Hiroki non è proprio di primissimo pelo. Ha avuto il suo miglior ranking nel 2015, 143 al mondo, e in carriera ha vinto tre challenger, uscendo altrettante volte al primo turno in tornei dello Slam: «Lo so, ma per ora mi diverto ancora. E finché è così andro avanti. Mi piace molto viaggiare, quindi non mi pesa».

Ogni mese passa dieci-quindici giorni a Barcellona, o meglio a Sabadell, con i responsabili dell'accademia. Qui pianificano i tornei da disputare, e a Recanati Hiroki ci è arrivato dopo essere uscito dalle qualificazioni di Wimbledon.

Notorietà
Non tutti i partecipanti al torneo, tanto nel singolare come nel doppio, hanno la loro pagina su Wikipedia. Quando troviamo la scheda di qualcuno, non vi è nulla a parte il mero resoconto dei suoi migliori risultati. Quasi nessuno, però, ha mai disputato una partita nei tabelloni principali dello Slam, quasi nessuno ha mai vinto un torneo fuori dal circuito Challenger o Itf. Figurarsi trovare, come a volte capita, qualche aspetto più personale da cui cominciare, chissà, una chiacchierata.

Un'eccezione, tuttavia, a Recanati la troviamo, ed è Albano Olivetti, alsaziano di due metri abbondanti di purissima potenza; nonno italiano trasferitosi in Francia, capelli rossicci e barba più da irlandese. Ha mancato la qualificazione al tabellone del singolare, ma è dentro in quello del doppio assieme al collega Quentin Halys (vincitore del doppio juniores al Roland Garros nel 2014 con Benjamin Bonzi). La coppia, come spesso succede in casi del genere, si è formata in loco, per così dire. I due infatti non sono “soci” abituali, ma si sono messi d'accordo al circolo Guzzini per entrare in tabellone; da connazionali, è stato più facile. «Sì, siamo abbastanza amici, in realtà un po' con tutti gli altri francesi», ci dice, addentando l'ennesima fetta d'anguria nel caldo infernale dell'ora di pranzo. Dal terrazzino del circolo vede il socio, testa di serie numero 3 del torneo di singolare, perdere al terzo set contro la wild card italiana Andrea Vavassori, oltre 500 posizioni di differenza nel ranking Atp e non notarle.

Più concentrati sul doppio, quindi? «Probabile, anche se io mi ritengo più un doppista, a prescindere», sorride Olivetti, che effettivamente nel sottobosco dei Challenger e degli Itf nel 2018 ha un record invidiabile, con cinque titoli conquistati. In carriera, sempre in doppio, ne ha vinti ben 29, tra cui proprio il Challenger Guzzini del 2016 assieme al tedesco Kevin Krawietz. L'alsaziano ci racconta del suo lunghissimo viaggio da Strasburgo, dove vive, a Recanati: «Non è comodissimo, devo essere sincero. Aereo fino a Milano, poi un paio di treni. Settimana prossima andrò a Kazan, altro bel viaggetto». E lì troverà, tra gli altri, Hiroki Moriya, perché in questi challenger bene o male le facce si re-incontrano spesso.

A 26 anni, Albano ricorda i suoi match contro avversari più famosi e quotati, una sconfitta contro Richard Gasquet e una vittoria su Mardy Fish; soprattutto sorride quando gli accenniamo a quella riga aggiuntiva che rende la sua scheda Wikipedia più succosa di altre, e cioè l'essere il detentore della seconda maggior velocità assoluta in un singolo torneo, 257.5 chilometri orari al Challenger di Bergamo. «Sicuro? A me risulta che fu a Segovia, in un altro challenger. Se mi ricordo bene quel servizio? In realtà no, batto sempre molto forte, e in più sai che ti dico? Che forse le macchinette contachilometri sono tarate male».

Per la cronaca la velocità più alta mai registrata in campo maschile è dell'australiano Samuel Groth, al challenger di Busan, in Corea del Sud, nel 2012. La coppia Olivetti-Halys, misteriosamente, non è tra le teste di serie del torneo di doppio, eppure è bene assortita. Spazzano via al primo turno i favoriti, almeno sulla carta, Motti-Uzhylovsky, fermandosi in semifinale contro la coppia cinese Gong-Zhang.


Essere testa di serie in tornei come questi è davvero uno stato mentale. Perché una cosa che salta all'occhio subito, osservando le partite, è che il livello in realtà è molto equilibrato. E che i primi del seeding sono forti, ok, forse anche i più forti, ma non è che l'ottavo, quindi l'ultima delle teste di serie, sia così inferiore. Per non parlare dei giocatori non compresi tra i top. Infatti, non a caso, al primo turno cadono tre delle prime quattro teste di serie: Quentin Halys, il socio di Olivetti, numero 3, il kazako Alexander Bublik, numero 4, contro il francese Antoine Hoang e soprattutto Ramkumar Ramanathan, indiano, 140 del mondo, il numero 1.



Alto, ma meno di molti altri, dinoccolato, un lieve difetto di pronuncia con la “s”, il nativo di Chennai è considerato in patria l'erede di grandi connazionali come Leander Paes (“Un mio grande amico, ci sentiamo spesso per dei consigli”, racconta) o Mahesh Bhupathi, la mitica coppia che, in particolare sull'erba, in Davis ma non solo (vedasi vittoria a Wimbledon nel 1999, uno dei quattro tornei dello Slam conquistati dai due), era uno spauracchio continuo negli anni Novanta, un giocatore di culto. Come gli illustri predecessori il suo gioco è in prevalenza fatto di serve-and-volley, certo non esasperato, ma comunque una rarità nel tennis odierno. Una strategia che forse paga poco, visto che la sua carriera non ha mai davvero svoltato. L'anno scorso al Guzzini perse al secondo turno contro Salvatore Caruso, mentre stavolta, dopo un sorteggio non fortunatissimo, esce subito per mano di Daniel Brands, tedesco. Segnatevi il suo nome.

Anche nel doppio, in una coppia abbastanza improvvisata con Hiroki Moriya, va fuori al primo turno contro gli spagnoli Sergio Martos e Adrian Menendez. Si vede che Ramanathan non si fida molto del socio, e forse la cosa è reciproca, perché in alcuni punti va a prendere palle che non gli spetterebbero, lasciandosi dietro buchi enormi sfruttati poi dagli avversari. È elegante, bello da veder giocare, ma i quindici che contano li perde tutti. In doppio infatti è 7-5 7-5 per gli avversari, e nel match di singolare con Brands addirittura 7-6 7-6, in un sanguinoso doppio tie-break.

Esce dal circolo dopo aver ricevuto da qualche ora un paio di scarpe nuove, inviategli dall'accademia di Emilio Sanchez, dove si allena da più di dieci anni (e infatti parla un eccellente spagnolo, facendo comunella con gli spagnoli “veri” e i sudamericani) dopo aver essere stato campione juniores in patria. Gli saranno utili, invece che a Recanati, nel circuito Usa sul cemento, dove andrà nel giro di pochi giorni. Era arrivato nella città marchigiana due giorni prima dell'inizio del torneo, reduce dall'eliminazione nelle qualificazioni di Wimbledon. Ha passato un po' di tempo da turista prima di dedicarsi ai campi di gioco. La domenica pomeriggio, ultimo giorno prima dell'inizio del torneo, ha passato un'ora e quaranta a provare il servizio su uno dei campi semi-coperti.

E poi ha incontrato Daniel Brands, il tedesco. Anzi, “lu tedeshco”, come si sente dire in tribuna al circolo: “lu tedeshco” che in passato è stato 51 del mondo e che nel 2010 arrivò addirittura ai quarti di finale di Wimbledon, perdendo da Tomas Berdych, futuro finalista di quell'edizione. Come Rosol, anche Brands è un ex “giant killer”, visto che nel 2013 sulla terra battuta di Gstaad ebbe la meglio su Roger Federer. «Quando giochi contro uno come lui» ricorda «non puoi permetterti nemmeno un secondo di distrazione. Roger poi in campo si trova perfettamente a suo agio, non devi dargli ritmo, devi provare ad aggredirlo sempre. Se va bene sei bravo, altrimenti perdi, come del resto è successo alla maggior parte dei suoi avversari. Ho avuto un pizzico di fortuna in quel caso perché lui non stava bene, e ne ho approfittato». Quello era il periodo top della carriera di Daniel, quando sempre nel 2013 aveva fatto venire un bello spavento a Rafa Nadal al Roland Garros, vincendo il primo set e portando il maiorchino al tie-break del secondo, per poi soccombere al quarto (4-6 7-6 6-4 6-3). «Non so che ranking abbia, ma non può essere numero 60 se gioca sempre così», dichiarò Nadal nel dopo-partita, pensando di essere sopravvissuto a una sorta di Soderling-bis.

Le classifiche sono uno status mentale, soprattutto quando, come nel caso di Brands, adesso ti ritrovi in regime di “ranking protetto”: ovvero se sei reduce da un lungo infortunio e chiedi che i tuoi punti vengano congelati, senza perderne neanche uno rispetto all'ultima posizione occupata prima della richiesta (scritta) all'Atp. Il tedesco è ripartito così da oltre la trecentesima, dai futures Itf e dai challenger, insomma da capo. Dal 2014 in avanti il suo incubo è stata la malattia forse peggiore che possa capitare ad un'atleta, la mononucleosi. «Non riesci a capire come sta il tuo corpo, sembra che tu stia guarendo e invece niente, sei debole e sfiduciato». Gli chiediamo se qualche collega si fosse fatto vivo con lui per conoscere le sue condizioni, o almeno per sentirlo: «Vuoi sapere la verità? Nessuno, forse un paio di persone. Per il resto niente».
Accompagnato dal padre Karl-Berndt, un omone alto due metri e grosso quanto il figlio, che quando applaude con quelle manone forse lo si sentirebbe anche sul Monte Conero, ha colto l'occasione del challenger di Recanati per una visitina al vicino santuario di Loreto. «L'Italia è un posto incredibile, non conoscevo affatto questa zona e mi ha sorpreso». Il padre è una figura fondamentale in questa rinascita personale di Brands, che comunque ha scollinato già la trentina: «A questa età non hai bisogno di coach. Gli ho chiesto se gli andava di seguirmi e lui non ha esitato un secondo».

Per studiare Ramanathan, Brands ha usato un mezzo comodo comodo, Youtube. «Non hai molte alternative, del resto. Specie se nel frattempo tu giochi da altre parti, come mi è capitato a Eastbourne di recente in un torneo 250 (dove ha perso al primo turno, ndr)». E così lo ha battuto, 7-6 7-6: col suo servizio un po' meccanico, ma efficace, e al quarto match point. È stato più abile nei punti importanti, sul campo la differenza di ranking, oltre duecento posizioni, non si è mai davvero vista.

Distillato di tennis
La sessione serale è ciò che avvicina di più Recanati ad altri tornei ricchi e mondani, come ad esempio gli Internazionali di Roma. Certo, l'atmosfera da “Dolce Vita” nella capitale è diversa da quella, un filo più casereccia, della città marchigiana. Le tribune del campo centrale non sono affollate da vip ma dai componenti della famiglia Guzzini, soprattutto, con alcune delle seggiole riservate a loro e agli amici. Sono una decina di posti, ad essere sinceri nemmeno i migliori perché sono proprio i primi della prima fila, che impallano leggermente con la protezione in plastica sopra il muro dietro la linea di fondo. Alle fragole con panna si preferiscono i gelati confezionati, e allo champagne magari uno spritz. Almeno gli ingressi sono gratuiti, e non costano una follia come certi posti sul Centrale di Wimbledon.

La “Recanati che conta” si palesa dalle 18 in avanti, almeno in settimana, quando si finisce al lavoro e il circolo diventa un punto di ritrovo strategico. Di giorno gli spettatori sono pochini, e si riducono ai vari clan dei giocatori. La sera, invece, arrivano i genitori dei giovanissimi raccattapalle o dei giudici di linea e il parcheggio si affolla fino a riempirsi del tutto, tanto che la direttrice del torneo, Cristina Gnocchini, a un certo punto del giovedì, intorno alle 22, è costretta ad armarsi di microfono per invitare il possessore della tal macchina a spostarla perché altrimenti blocca tutto.



Anche al Guzzini, come al Foro Italico, non mancano le signore ingioiellate, gli uomini in camicia leggera e gli odori che si respirano tra mattina e pomeriggio sono molto diversi da quelli della sessione serale. Non mancano nemmeno i soliti maleducati che parlano al telefonino ad alta voce, quasi gridando, in mezzo agli scambi. I giocatori si lamentano, l'arbitro ammonisce, qualcuno dalla gradinata del campo centrale si alza e bercia: “Ahò, taglia, ti sentiamo solo a te”.

Il martedì sera un nubifragio interrompe il programma e costringe tutti a ritirarsi in terrazza. C'è chi si vanta di aver previsto il temporale, e altri invece rimangono basiti, perché non ci credevano. Giudici di linea e altri ragazzi si armano di ramazza e spazzano l'acqua sul centrale e sul grand stand, all'inizio in fretta, quando sembra si possa riprendere a breve, poi con maggiore calma, nel momento in cui tutto è rinviato all'indomani.

Tra i trending topic non manca l'andamento della squadra di calcio locale, la Recanatese, che milita in Serie D e di cui il presidente è Adolfo Guzzini, che dalla morte del fratello Giannunzio è diventato il nuovo patriarca della famiglia e della societàDi Wimbledon in realtà si parla poco, l'unico segno di vita dei Championships nel circolo è il tabellone aggiornato ogni giorno, assieme all'altro challenger in corso di svolgimento, a Marburg, in Germania.

È bello vedere anche le differenze cromatiche dei vari componenti dello staff del torneo. In blu ci sono i raccattapalle, in giallo limone i giudici di linea, in rosso salmonato quelli della logistica, il massaggiatore/fisioterapista e i responsabili del circolo. Anche il supervisor, Stephane Cretois, indossa una polo blu col logo dell'Atp, va in giro con un walkie-talkie nel momento in cui c'è qualche problema su uno dei due campi e lui è altrove, o nel suo ufficio dove normalmente ci sarebbe la segreteria del circolo oppure, appunto, sull'altro campo.

Povero supervisor: nel senso che deve indossare la maschera del poliziotto cattivo (o forse è solo la somiglianza con Lee Van Cleef, uno dei cattivi cinematografici per eccellenza) quando in realtà ha un aspetto e un comportamento assolutamente normale, quasi anonimo. Stephane Cretois, capelli corti e bianchi, barbetta sempre bianca è a Recanati per conto dell'Atp, e supervisiona il torneo da cima a fondo. Francese della Normandia sulla cinquantina, da oltre un decennio fa questo lavoro, che lo porta a rimanere lontano da casa almeno 200-250 giorni all'anno per 18-20 tornei.

Dalla Turchia alla Tunisia, dall'Australia alla Cina oltre all'Italia, naturalmente, il contachilometri del supervisor è sempre acceso. «È un lavoro che ti fa stare innanzitutto dietro le quinte, nell'ombra. Dalle dieci o dodici ore al giorno, anche prima di arrivare a un torneo bisogna controllare ogni cosa, e poi durante lo svolgimento dell'evento non può sfuggirmi nulla, dialogo spesso con i giocatori e do un'occhiata a come si comportano gli arbitri». Dai tennisti riceve pareri a 360 gradi sul challenger, dal comportamento dei raccattapalle alla situazione degli spogliatoi. Al termine dell'evento compilerà una relazione che invierà all'Atp; se i feedback sono troppo negativi nel corso degli anni, il torneo potrà anche essere cancellato dal calendario. A Recanati non è mai successo.

Con i giudici di sedia, a cui incute una discreta soggezione, ha un rapporto ambivalente. Da un lato funge da fratello maggiore, più che da padre: durante una visita turistica alla città è “costretto” a seguire un arbitro romeno melomane che vuole andare a vedere al cimitero di Recanati la tomba di Beniamino Gigli. «Il più grande tenore italiano prima che arrivasse Pavarotti», spiega a Stephane, e si vede lontano un miglio che il supervisor sta bluffando alla grande, quasi sicuramente non gliene frega una mazza. D'altronde, abituato agli sfoghi dei giocatori, vuoi non ascoltare le parole di un tuo “sottoposto” evidentemente emozionato, tanto da scattarsi una foto accanto alla tomba del tenore, una gigantesca piramide in travertino? «Adoro la musica lirica, è una passione che mi ha attaccato mia madre: anzi, dopo le inoltrerò la foto», si confida l'arbitro romeno.
Ma l'abbiamo anche visto, il supervisor, in privato, rimproverare abbastanza duramente uno di loro, dei giudici di sedia, un algerino, in verità sfortunatissimo, finito nella rete di due vecchie volpi del circuito Challenger, l'andaluso Adrian Menendez (146 del mondo), che abbiamo già incontrato nel doppio, e il bosniaco Aldin Setkic (289).

La loro sfida di secondo turno, vinta dallo spagnolo al terzo set in due ore e mezza, è un purissimo distillato di tennis, tra tentativi di innervosire l'avversario, perdite di tempo e fenomenali strategie attoriali. Sembra davvero pugilato senza contatto fisico, l'aspetto tecnico finisce nella sezione “varie ed eventuali”: l'apoteosi è all'inizio del terzo set, dopo che Menendez sembra aver gettato via una comoda vittoria, 6-2 il primo per lui, 6-4 per Setkic il secondo. Già qualche chiamata dubbia dei giudici di linea ha fatto surriscaldare gli animi, lo spagnolo provoca il bosniaco, l'altro replica e Menendez si trasforma nel Robert De Niro di “Taxi Driver” (“Ce l'hai con me? Stai parlando con me?”) e successivamente in Sylvester Stallone-Rocky Balboa (“Non fa male, non fa male”, a se stesso, un po' sofferente).

Ecco il time-out medico, l'iberico dice di avere del reflusso gastrico, chiede una medicina che non arriva e quindi si deve accontentare di una Coca-Cola. Siamo 1-0 per Setkic nel set decisivo, Stephane Cretois è lì che monitora tutto, è stato richiamato col walkie-talkie nel momento di massima tensione. Menendez gli chiede spiegazioni: gli è stato appioppato un warning dall'arbitro per aver gridato dopo una volée vincente “Ostia, con huevos!”, che non ha molto bisogno di traduzioni. Il bosniaco, ancora più teatrale, quando si vede togliere un punto da una chiamata ritenuta errata del giudice di linea lascia cadere la racchetta, alza le braccia e va dall'arbitro gridando, con un forte accento slavo: “But it was straight on the line! Straight on the line! Straight on the line!”. Menendez vince il terzo set 6-4 e vola ai quarti di finale. Per Setkic, proveniente dalle qualificazioni e habitué del torneo, una vita tra challenger e futures, c'è da organizzare un nuovo viaggio, accompagnato come sempre dal padre, personaggio assolutamente di culto. Un uomo che sembra averne viste molte e forse bevute altrettante, volto scavato nella pietra, non parla quasi mai, gira in infradito seguendo Aldin come un ombra dedicandosi, durante il torneo di qualificazione, alla cura delle magliette sudate del figlio, appese ad asciugare al sole cocente.



Fatica
Il venerdì sera tutti gli italiani sono fuori dal torneo, sia nel singolare che nel doppio. Gli ultimi eliminati sono Walter Trusendi e Salvatore Caruso, nel doppio. Vincono il primo set, vanno avanti di un break nel secondo, ma si fanno rimontare e battere dalla coppia ecuadorian-brasiliana formata da Gonzalo Escobar (quello conosciuto alla stazione di Porto Recanati) e Fernando Romboli, uno che in passato è stato squalificato otto mesi per doping e che sui social network si diverte a postare foto a getto continuo.

Non molla davvero mai, la coppia sudamericana, che va ad allenarsi da sola sul Grand Stand mentre la terrazza del ristorante è piena per seguire la sfida tra Menendez e Giustino, vinta facilmente dallo spagnolo, e, sul maxischermo, Brasile-Belgio. Romboli, pur essendo appassionato di calcio, preferisce andare a preparare la sua, di partita, piuttosto che soffrire guardando Neymar. Si è comprato al ristorante una pizza da mangiare dopo il 2-0 di De Bruyne per portarsela dietro al campo; lo accompagna la fidanzata, come Escobar, e i due si mettono a palleggiare tra di loro quando ancora manca parecchio all'inizio del doppio.

Trusendi e Caruso non hanno colpe, non ne possono avere. Un paio di errori gratuiti molto evidenti, ma chi non ne fa a questo livello? Al challenger di Recanati non si è visto nessun fenomeno. E se fosse solo questione di fame? Non solo di cibo, ma di tennis? Salvatore nel pomeriggio del venerdì ha perso nei quarti del singolare, schiacciato dal gioco semplice, servizio dritto e poco altro, di Daniel Brands. Quindi, forse, è anche un po' stanco. Nel tie-break del terzo set sbaglia uno smash a campo spalancato e lì è la svolta della gara, i sudamericani volano 5-0 e chiuderanno 10-5.

Felici come bambini, invece, Escobar e Romboli se la godono, il loro allenamento extra ha pagato. Hanno vinto tre partite su tre al tie-break del terzo set, in due occasioni rimontando dopo aver perso il primo. È un approccio mentale che aiuta a compensare la carenza di talento, non c'è che dire. Ed è il sale della carriera di un tennista, mestiere ruvido e non adatto alle persone emotivamente deboli.

Chi glielo fa fare, a un ragazzo intorno ai 25 anni, figlio di un grosso industriale, con tre ville con campi da tennis, una macchina da 100mila euro, di sbattersi, di venire al campo ad allenarti quando la maggior parte delle persone sta ancora dormendo? Chi te lo fa fare di correre lungo le mura di Recanati la mattina, con l'afa soffocante che taglia il respiro?

Di Gulbis, il talentuoso e un po' mattoide lettone che viaggia col jet privato del padre e che candidamente ammette di non giocare per soldi ma per la competizione, ce n'è uno solo: eppure in carriera ha vinto sei milioni di dollari, dopo una raffica di alti e bassi, dalle semifinali al Roland Garros alla ripartenza dai challenger e dai futures. Perché ci vuole sempre del metodo, ci vuole sempre un pizzico di umiltà, sul campo da tennis le classi sociali scompaiono. Se hai delle racchette accordate da pagare e non saldi il debito, la figura non è esemplare, specie se sei un milionario. Sono le basi, è anche una forma di rispetto nei confronti dei colleghi.

Escobar e Romboli, comunque, perdono in finale, per la seconda volta in una settimana. Già a Milano, al challenger del circolo Aspria, si erano arenati sul più bello, contro Julian Ocleppo e Andrea Vavassori. Nel “Super Saturday” di Recanati, che comprende la loro partita e le due semifinali del singolare, devono arrendersi ai cinesi Ze Zhang e Mao-Xin Gong, seconda testa di serie del torneo e già molto bravi nell'eliminare i francesi Olivetti-Halys. La partita finisce al terzo set, o meglio al tie-break ai dieci punti che da qualche anno, ormai, ha sostituito il canonico terzo set. Questo nell'ambito di un accorciamento dei tempi del doppio che comprende, sul 40 pari, un unico punto extra, senza andare ai vantaggi, con il giocatore alla battuta che sceglie il lato da cui servire.

Romboli, che nella coppia sudamericana ha evidentemente la funzione di carica emotiva, con ogni quindici vinto salutato quasi come un gol, stavolta crolla sul più bello. Sull'8-8 dell'ultimo tie-break si tuffa senza senso verso il centro su una fiacca risposta lungolinea di Zhang, Escobar non ci arriva ed è match point: anche qua, il brasiliano si fa fregare da un altro lungolinea di Zhang, non irresistibile, forse lo valuta fuori, invece finisce all'incrocio delle righe e a Romboli non rimane che buttare a terra il cappellino, colpirlo diverse volte con la racchetta e gridare improperi ai suoi dei. Escobar, invece, è più tranquillo, come i due cinesi, moderati nell'esultanza. Hanno fatto meno punti dei sudamericani, hanno perso il servizio due volte senza riuscire mai a strapparlo agli avversari, eppure adesso sono lì a sollevare il trofeo: 2-6 7-6 10-8.

Sono simpatici, Zhang e Gong: entrambi di Nanchino, uno alto e muscoloso, l'altro più piccolo, più astuto in campo e meno potente del socio. Fanno coppia fissa da due anni, viaggiano assieme a un allenatore e a un fisioterapista, sono entrambi sposati (uno, Gong, ha addirittura due figli, rarità in Cina) e durante tutta la settimana sono stati i padroni della terrazza sopra il campo centrale. «Ma solo perché qua ci annoiamo, non è che ci sia molto da fare a Recanati. A Bergamo e Vicenza ci siamo divertiti di più», ci dicono. Nessuno dei due è giovanissimo, tennisticamente parlando: Gong ha 31 anni, Zhang 28. «Il problema è che in Cina il tennis non è uno sport molto considerato. Spesso manca l'ultimo passaggio dall'essere juniores a professionista. Qualcuno risolve il problema trasferendosi nelle accademie europee, ma mica ci riescono tutti, è molto costoso. Per cui rimani in zona, dalle tue parti c'è sempre qualche torneino; ma venire a giocare da noi, per un big, è difficile, e quindi il livello rimane sempre modesto. Quindi eccoci qua in Europa, dopo Recanati andremo a Gstaad».

Il tennis in Cina è un sport molto popolare, comunque, ma solo quando si tratta dei grossi nomi. E se ne sono resi conto proprio Zhang e Gong, sulla loro pelle, durante una partita di doppio del China Open di Pechino: «Erano i quarti di finale del 2016» ricorda Gong «e giocavamo contro Rafa Nadal e Pablo Carreno-Busta, che poi avrebbero vinto il torneo. Credi che sugli spalti tifassero per noi? Sì, certo, qualcuno, ma la stragrande maggioranza dei presenti era fan di Nadal. Perché Rafa, come dire, è Rafa. Non sembrava di giocare in casa». Zhang, che indossa una maglia col logo di Roger Federer, annuisce.

Prima di andarsene dal circolo, dopo l'ennesima mangiata di pasta e pizza, quasi si dimenticano i due trofei (che sulla targhetta hanno un errore di battitura un po' banale, Recanati è diventata “Recanti”), che rimangono su uno scaffaletto in mezzo agli altri clienti del ristorante. Se qualche malintenzionato volesse rubarglieli non dovrebbe sforzarsi granché. È sabato sera, sono tutti concentrati su Russia-Croazia di calcio o sul match di semifinale del campo centrale tra Viktor Galovic e Adrian Menendez, che lo spagnolo domina 6-1 6-2, regalando un punto memorabile con un tweener vincente sul 5-2, 15 pari.

“That's a killer”, sento dire alla mia destra da Daniel Brands, che al termine della finale di doppio ha spazzato via, nell'altra semifinale, l'ecuadoriano Roberto Quiroz, uno che gira con il cappellino della Roma e la maglia di De Rossi, 6-0 6-3. Con lui si è instaurato un buon rapporto, si confida volentieri. «Quando subisci un punto così» prosegue Brands «vorresti scomparire, chiudere la partita lì e correre sotto la doccia. Io ho giocato spesso contro Dustin Brown (il tedesco di colore con rasta chilometrici, specialista dell'erba e dei colpi “speciali”, ndr) e da uno così te lo aspetti. Ma da un regolarista come Menendez no».

E Galovic, condizionato da qualche problema fisico, l'idolo del circolo, croato ma arrivato da bambino in Italia, di lì a poco è finito sotto la doccia. La sua è davvero una storia paradigmatica di questo circuito challenger che può cambiarti la vita in un attimo. Nel 2017 voleva smettere di giocare, basta sbattersi, da quasi 600 del mondo le prospettive erano minime: un'ultima stagione e poi stop. Invece, torneo dopo torneo, forse con la testa sgombra di preoccupazioni, sono arrivate vittorie su vittorie fino al trionfo, appunto, nel Guzzini. La sua classifica è lievitata fino al 173, posizione che gli ha consentito di partecipare a tornei più prestigiosi e addirittura di essere convocato in Coppa Davis: in fondo è il quarto miglior croato del ranking Atp dopo Cilic, Coric e Karlovic.

Prima del tweener subito da Menendez, era stato di Viktor il colpo del torneo. Un punto vinto che in realtà racchiudeva una marea di “sliding doors”. Primo turno, sfida sul centrale al qualificato spagnolo Andres Artunedo, un tipo fumantino (dopo un altro punto perso scaglia una pallina verso la gradinata e quasi mi centra) e aggressivo, capace nel 2010 di trionfare al Roland Garros juniores nel doppio, ma poi scomparso dai radar. La sfida va al tie-break del terzo set, ma in precedenza Galovic ha dovuto annullare due match point: in uno, quando sembra ormai spacciato, sbattuto fuori dal campo da un dritto di Artunedo, si inventa un passante lungolinea di rovescio bimane che lascia di sale il rivale.

Fosse finito in rete, in corridoio o lungo, che ne sarebbe stato della carriera dei due ragazzi? Il croato avrebbe perso quasi tutti gli 80 punti Atp conquistati un anno fa a Recanati, precipitando nel ranking e dovendo ripartire chissà da dove. Andres, invece di finire a parlare coi muri e a prenotare, come quella sera stessa, il successivo viaggio da Roma per Barcellona, divorandosi un piatto di pasta al sugo e chattando in contemporanea su Whatsapp, si sarebbe ritrovato con una buona possibilità di andare avanti ancora nel torneo. Invece niente, solo supposizioni: Viktor ha perso qualche punto Atp, ma non crollerà nel ranking, rientrerà in qualche cutoff interessante, e insomma è un'eliminazione tutto sommato accettabile.

Per giorni, al circolo Guzzini, non si è parlato d'altro che di quel passante di rovescio.



La ginestra

Il tennis ha i suoi riti, che comprendono anche gli infiniti silenzi, e la sua possibilità di redenzione. I tornei challenger ne sono forse la massima sublimazione. Daniel Brands vince con facilità quasi irrisoria il torneo, sconfiggendo in finale Menendez-Maceiras: 7-5 6-3, un'ora e venti di gioco, non eccezionale, ma sarebbe stato strano il contrario, siamo sinceri. Il gioco del tedesco è tetragono, non è mai cambiato dal primo turno con Rahmanatan, figurarsi in carriera: servizio potente, sempre con un movimento meccanico, spezzato in due momenti, e angolato (l'ha perso una sola volta in cinque incontri, contro Salvatore Caruso ai quarti di finale), campo aperto e dritto altrettanto violento a segno. L'80% dei suoi punti arriva così, ma del resto la superficie aiuta e l'atteggiamento degli avversari anche.

Almeno Brands ha due colpi forti, servizio e dritto, appunto, ma gli altri nemmeno quelli: grande corsa, grande grinta, come quella che sfodera Menendez, che però alla lunga non paga, non può pagare. Lo spagnolo perde due volte il servizio, ma non riesce mai ad arrivare nemmeno a una palla break e allora è spacciato, il pubblico applaude perché, come sempre in casi del genere, vorrebbe vedere più tennis, ma la differenza di peso e di categoria è evidente. Nonostante il ranking dica 301 per Brands e 144 per Menendez le classifiche, l'abbiamo già detto, sono uno stato mentale in tornei così livellati. Daniel è stato numero 51 del mondo, e si vede, ha solo avuto un lungo periodo di crisi e appannamento dovuto alla mononucleosi. Saremmo stati curiosi di vederlo contro Rosol, l'altro ex tennista top del tabellone, ma il ceco si è sciolto contro Moriya.

Non abbiamo visto nessuno, ad esempio, con un rovescio da ricordare, quasi tutti, compreso Brands, si sono limitati ad appoggiarsi ai colpi avversari spingendo semplicemente le palle di là dalla rete. A parte Rahmanathan, poi, nessuno ha mai tentato con continuità l'arma del serve-and-volley; ripensandoci a posteriori, l'indiano è stato quello che è andato più vicino a sconfiggere il tedesco, perdendo i punti decisivi dei due tie-break, ma per il resto giocando alla pari. Avesse avuto un sorteggio più favorevole, chissà.

Rimane la premiazione, con Menendez che sfoggia un tedesco eccellente, a sorpresa, e riempie di elogi il rivale. Non gli è servito a nulla gemere ad ogni scambio, alzare il pugnetto quasi ad ogni punto vinto, cercare sempre lo sguardo del suo allenatore in tribuna: «Arrivare in finale per me è come vincere» ha continuato l'andaluso, stavolta in italiano. «Spero almeno di non diventare troppo vecchio prima di conquistare questo torneo».

Brands non è molto loquace, è emozionato, pugnetti a parte si è lasciato andare solo quando ha vinto il torneo, nel momento in cui Menendez spediva fuori l'ennesima risposta al suo servizio. Ringrazia tutti, mentre il padre, che per tutto il tempo era rimasto col grugno in tribuna, tappato sotto il suo cappellino da baseball, adesso ride di gusto.

Impacchetta i due trofei consegnatigli e riparte. «Per adesso basta, ora Daniel al prossimo torneo andrà da solo», scherza. La sua storia fosse successa a Wimbledon avrebbe fatto versare parecchio inchiostro, mentre invece è capitata “solo” a Recanati, al challenger Guzzini. Ma se un giorno (non è facile perché Brands ha 31 anni e adesso risalirà di una sessantina di posizioni nel ranking, dovrà ancora mangiarne di pane duro), riuscirà a tornare magari non agli ottavi di finale come nel 2010, ma quantomeno nel tabellone principale dei Championships, allora ricorderà questa settimana con gioia, compresa la visita a Loreto alla vigilia del torneo. Nel frattempo via, di nuovo in giro per il mondo, a caccia di punti, come formiche, per sopravvivere.

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