Questo racconto, col titolo “… PRIMA, DURANTE, DOPO…”, fa parte di una raccolta intitolata “Zona Franca”, che rievoca storie di personaggi che hanno vissuto intensamente - e in ambiti diversissimi - gli Anni ’80 e ’90.
1988, Catanzaro - Atalanta.
Quello che conta, nella vita, è fare le cose al momento giusto. Se gliel’avessi chiesto in una qualsiasi altra circostanza, mio padre non mi avrebbe mai dato il permesso di seguire l’Atalanta in trasferta a Catanzaro… il giorno prima dell’esame di terza media.
Ma io la domanda gliela faccio durante la finale degli Europei, immediatamente dopo l’incredibile tiro con cui Van Basten batte il portiere russo Dasaev, uno dei gol più belli della storia del calcio.
“Vai, vai. Non rompere i coglioni!” mi risponde, sovrastando Bruno Pizzul.
Penultima partita di campionato.
Atalanta terzo posto, Catanzaro quarto: scontro decisivo per la promozione in Serie A.
Appuntamento sabato pomeriggio al Piper, bar di ritrovo delle Brigate Neroazzurre. Siamo undici.
Ore 19. Stazione di Bergamo: regionale per Milano.
Ore 20. Stazione di Milano: diretto per Lamezia Terme.
Ogni domenica l’Italia è attraversata da carovane di tifosi.
A Parma, incrociamo i bolognesi. A Roma, i laziali. Alla stazione di Campi Flegrei, dove un guasto al locomotore ci costringe a una sosta imprevista, l’incontro con migliaia di reggini, diretti a Perugia per lo spareggio con la Virescit Boccaleone, seconda squadra di Bergamo.
Fa caldo. Scendiamo. Si accorgono delle nostre sciarpe. Più di cinquanta di loro si compattano e ci vengono incontro.
Il bimbo! Così chiamiamo lo striscione del gruppo, per fortuna il bimbo è al sicuro nello zaino di Giorgio, un metro e novanta, camionista, il nostro amico più fidato.
Serriamo i ranghi, pronti ad affrontarli. Loro, pronti a rincorrerci, quasi rinculano vedendo che noi non arretriamo. Veloce scambio di cinghiate e pugni. Alimentata dall’arrivo dei rinforzi, la sproporzione tra i due gruppi cresce al punto che - senza mai dargli la schiena - ripariamo in un sottopassaggio. Li aspettiamo alla base delle scale. Nessuno dei reggini però scende ad affrontarci.
Stazione di Lamezia Terme: al momento di prendere il regionale diretto a Catanzaro incontriamo una trentina di Wild Kaos, altro gruppo della curva atalantina. Assurdo non essere partiti tutti insieme… ma sono anni in cui, purtroppo, ogni gruppo si comporta come entità a sé stante abdicando a una visione di tifoseria unitaria.
Con noi ci sono anche tre ultras del Cosenza, a cui siamo legati da un reciproco rispetto, risalente ai tempi di Padre Fedele (storico tifoso della curva rossoblu e organizzatore, dopo la tragedia dell’Heysel, del primo raduno dei gruppi ultrà italiani).
Su un autobus mandato dal prefetto - scortati solo da una volante - attraversiamo, in quattordici, il centro di Catanzaro. Porte spalancate per reagire al primo lancio di sassi.
Superati i cancelli dello stadio, da fuori una delegazione di tifosi rivali ci chiede di parlare.
Rete di recinzione a farci da divisorio come grata di confessionale.
Vogliono i cosentini.
Col cazzo che glieli diamo. Ormai siamo fratelli.
2 a 0 per il Catanzaro. La Serie A dobbiamo giocarcela all’ultima giornata.
Mentre della partita non ricordo quasi niente, da quando risaliamo sull’autobus, ogni fotogramma mi resta impresso nella memoria, ogni singolo fotogramma di quella strada ripida e tortuosa che dallo stadio conduce alla stazione, ogni insulto, ogni gesto, ogni sasso scagliato da mani protette dal buio, perfino un vaso di fiori.
Mentre i miei compagni di classe, alle prese con l’esame di terza media, scrivono obbedienti il loro temino sulla nube di Chernobyl, io e gli altri dieci atalantini siamo ancora sul treno che da Lamezia ci riporta a Milano.
Quell’anno, 1988, di tutta la terza B, sarò l’unico bocciato.
1988, Sporting Lisbona - Atalanta.
Quella a Catanzaro non è stata la mia prima trasferta.
Mio padre, centravanti della primavera dell’Atalanta, aveva vinto il campionato del ’49.
Casa nostra era a pochi passi dallo stadio.
Mia madre mi aveva insegnato ad andare in bicicletta nel viale che costeggia la tribuna.
Gli zii (abbonamento in curva nord) mi portavano - da quand’ero all’asilo - a vedere la partita.
… insomma, ero un predestinato.
Già alle elementari sogno di seguire la mia squadra anche in trasferta. Soffro come un innamorato, costretto a vedere la fidanzata a settimane alterne.
Studente delle medie (quarti di finale di Coppa delle Coppe: Sporting Lisbona - Atalanta) non sopporto più di fare il tifo dal divano del soggiorno.
Esasperato dalla mia insistenza, papà accetta di portarmi al bar delle Brigate Neroazzurre. Ho quattordici anni. Per avere la carta d’identità ce ne vogliono quindici. A Lisbona posso andarci solo con un familiare o con una persona che mi faccia da tutore.
Devo trovare subito qualcuno disposto ad accompagnarmi.
Per mia fortuna, mentre siamo ancora nel locale, mio padre incontra un ex compagno della Primavera, padre di Umberto, ultrà venticinquenne. Il ragazzo, che ha già versato la sua quota per partire, si assume la responsabilità del mio primo viaggio all’estero.
Abbracci, ricordi, qualche birra. Mio padre si convince.
Sera della partenza, appuntamento a mezzanotte al Piper. Quella domenica l’Atalanta gioca a San Benedetto. Aspettiamo i quattro reduci della trasferta marchigiana e saliamo sul pullman.
La notte scivola fuori dai finestrini, luci italiane, poi francesi, poi spagnole. Portogallo.
Partita. 1 a 1, gol di Cantarutti, siamo in semifinale!
Festeggiamenti con la squadra allo Sheraton di Lisbona: abbracci, cori, bottiglie di champagne.
Viaggio di ritorno. Sosta a Barcellona. Quattro ore libere per visita città. Chi Ramblas, chi droga, chi ristorante, chi tapas, chi puttane, ognuno prende la sua strada.
Quando ritorniamo al parcheggio, porta scassinata e pullman svaligiato. Sono spariti giubbotti, macchine fotografiche, 3 milioni nascosti dall’autista sotto il suo sedile, perfino le maglie che i giocatori ci hanno regalato.
“Italiani cabrones! Hijos de puta!”
Un gruppetto di ragazzi in motorino comincia pure ad insultarci. Quindici giorni prima (Espanyol-Milan), qui a Barcellona, i milanisti hanno accoltellato tre spagnoli.
Già incazzati per il furto, li carichiamo. Rissa. Un vigile intervenuto per separarci finisce a terra tempestato da calci italospagnoli. Circondati dalla polizia, veniamo trattenuti per ore nel parcheggio (due di noi, arrestati, prolungano di qualche giorno la loro permanenza sul territorio iberico).
Attraversando una folla inferocita che inveisce contro di noi e ci tira di tutto, a mezzanotte lasciamo la città scortati da dieci camionette che ci accompagnano fino all’autostrada.
1988, Malines - Atalanta.
Semifinale di Coppa delle Coppe. Anche stavolta voglio esserci ma per Umberto un viaggio di tre giorni è troppo lungo e decide di raggiungerci in aereo. Devo trovare un’altra soluzione.
Carovana di cinquanta pullman. Impossibile per i doganieri eseguire controlli approfonditi. Elaboriamo un piano.
Cinque chilometri prima di ogni frontiera, l’autobus si ferma e io scompaio. Cinque chilometri dopo, l’autobus si riferma e io riappaio. Tutte le frontiere le supererò così: bagagliaio, borsone Adidas, dieci centimetri di zip lasciati aperti per farmi respirare.
Tra campionato e coppa, a casa non ci sono quasi mai. I miei genitori cominciano a preoccuparsi sul serio. Il fatto di sapere che il figlio quattordicenne vada in giro per l’Europa con degli esagitati di trent’anni certo non li aiuta a stare più tranquilli. Ormai mattine, pomeriggi e sere li passo - coi miei amici - al bar delle Brigate (frequentato - a seconda della fascia oraria - da un diverso tipo di clientela). Mattina: vecchi che giocano a carte e studenti che marinano la scuola. Pranzo: impiegati e muratori. Pomeriggio: vecchi che giocano a carte e mamme che portano i bambini a prendere il gelato. Sera: vecchi che giocano a carte e tossici in attesa del rifornimento. Nel giro di pochi mesi la droga si infiltra anche nel nostro gruppo.
Il pomeriggio del funerale di uno di noi morto per overdose, io sempre quattordicenne, mi ritrovo in macchina con tre ragazzi che conosco, anche se non troppo bene. Mentre andiamo verso la chiesa, la macchina si ferma nel piazzale davanti alla stazione. Quello alla guida tira fuori un laccio e una siringa, che si passano come fosse uno spinello. Quando sarebbe il mio turno, io preoccupato mi chiedo come rifiutare ma, per fortuna, in loro prevale il senso di protezione nei confronti di me ancora ragazzino.
1990, Italia - Inghilterra.
Ritiro per cinque anni, di tutte le squadre del Regno Unito, dalle competizioni europee: è una delle misure anti-hooligans introdotte dalla Thatcher in seguito ai morti dell’Heysel.
I Mondiali del ’90 segnano il ritorno alle trasferte internazionali dei tifosi inglesi. La loro prima volta, dopo gli anni del divieto.
Curiosi di vederli all’opera, noi delle Brigate siamo pronti a partire per Roma - dove si giocherà la finale - a cui l’Inghilterra, lanciatissima, pare destinata. Tutti rigorosamente sprovvisti di biglietto.
La capitale, assaltata da bande fuori controllo di hooligans ubriachi, è uno spettacolo che non possiamo perderci.
Contro ogni nostra previsione, sconfitta in semifinale dalla Germania, l’Inghilterra invece che a Roma dovrà giocare a Bari dove, per il terzo posto, affronterà l’Italia (sconfitta a Napoli dall’Argentina di Caniggia e Maradona).
Bergamo-Bari: quasi mille chilometri. I miei amici si tirano indietro, io decido di partire lo stesso. Risse e tafferugli in tutte le città italiane attraversate dagli inglesi fanno presupporre che la scia di devastazione non risparmierà la Puglia. Non posso mancare.
Treno notturno, arrivo a Bari la mattina. Perlustro zona stazione e vie adiacenti. Strade vuote, clima pre-incidenti.
Salgo su un autobus diretto al San Nicola. Altra perlustrazione questa volta di ore. Asfalto. Sole.
Un motorino mi si affianca mentre mi aggiro tra le case. Due tifosi del Bari. Convinti che io sia inglese, vorrebbero scambiare la loro sciarpa biancorossa con la mia maglietta “English Clan BNA”. BNA sta per Brigate Neroazzurre. “Sono di Bergamo” gli spiego. Motorino che riparte. Io di nuovo solo. Avanti e indietro. Osservo tutto, scritte sui muri, ombre dietro le persiane. Controllo persino i cassonetti (spesso usati per nascondere armi e oggetti contundenti).
Annunciato da lampeggianti ed elicotteri, ecco il corteo di inglesi.
Li vedo sbucare da una delle strade di cui ormai ho imparato a memoria anche i nomi sui citofoni. Mantenendomi a distanza, accompagno il gruppo dei quattrocento fino ai cancelli del settore a loro riservato. Nel momento in cui cominciano ad entrare, dalla tasca del giubbotto jeans tiro fuori la bandiera inglese che, trasformata in mantello, fa di me un camaleonte perfettamente mimetizzato consentendomi di superare senza biglietto il filtro (colabrodo) predisposto all’ingresso.
Tifosi di West Ham, Arsenal, Tottenham… i miei idoli. Indifferente al campo, la mia attenzione è tutta su di loro. Bandiere, tatuaggi, cori.
La partita scivola via veloce come tutte quelle in cui non gioca l’Atalanta.
Non volendo rimanere imprigionato con i miei nuovi connazionali fino a tarda sera, abbandono la curva qualche minuto prima della fine della gara. Bandiera ripiegata in tasca, carta d’identità in mano e parolacce in bergamasco, convinco rapidamente i poliziotti del fatto che non sono inglese ed esco tranquillo dallo stadio. Arrivato in stazione scopro con rabbia che il primo treno diretto a Milano sarebbe partito solo quattro ore dopo.
Sono stanchissimo, provo a sdraiarmi su una panchina ma non riesco a dormire. Soluzioni alternative: autostop… furto di automobile… dirottamento di autobus di linea...
Un annuncio mi distoglie dal potenziale compimento di reati.
In partenza dal binario 8: treno speciale per Milano, riservato esclusivamente a tifosi UK.
Vedo arrivare i primi. Dalla tasca del giubbotto ricompare la mia bandiera inglese che, per la seconda volta, mi aiuta a confondermi con loro.
Nei finestrini sfrecciano i cartelli blu delle stazioni. A Rimini i miei ex connazionali approfittano dell’apertura delle porte per scendere in massa (sul convoglio rimaniamo al massimo in settanta).
Bilancio: due pub distrutti, 280 hooligans fermati ed espulsi, 53 feriti.
Ora che siamo in pochi, è come se mi sentissi responsabile di rappresentare il gruppo con cui ho condiviso stadio e viaggio, orgoglioso di decorare quel treno ormai semivuoto e spoglio con un vessillo che possa rivendicare la mia, la nostra appartenenza a uno schieramento opposto a quello di chi ci vedrà passare.
Fuori dal finestrino espongo la bandiera inglese.
1992, Milan - Atalanta.
Bergamaschi contro polizia: minuti di battaglia. Alla richiesta da parte di alcuni atalantini (tifosi normali, non ultras come noi) di poter uscire dieci minuti prima della fine, gli agenti avevano risposto con i manganelli.
In seguito agli scontri di Milano, vengo insignito della mia prima diffida. Sono anni difficili per la nostra curva, dopo quelli trionfali di Mondonico e dell’avventura in Coppa delle Coppe. È come se, raggiunto l’apice, non solo la squadra ma anche la tifoseria si fossero, tristemente, disgregate. Faccio il possibile per tenere unita la curva, partecipo a tutte le riunioni, organizzo le trasferte, lavoro giorno e notte su coreografie e striscioni. La morte di Celestino Colombi, tifoso neroazzurro colpito da infarto durante una carica della polizia dopo Atalanta-Roma, è un’altra tappa di questa spirale che continua a trascinarci verso il basso. O ci impegniamo seriamente per riorganizzarci o, nel confronto con tifoserie più grandi e meglio strutturate, rischiamo ogni volta di soccombere. Nelle scuole di Bergamo, meno di un terzo dei bambini tifa Atalanta. Gli altri si dividono tra Juve, Milan e Inter. La nostra curva soffre per la mancanza di ricambio generazionale.
Moltiplico gli sforzi riuscendo dopo un po’ a unire i gruppi della nord, superando quello stupido settarismo da striscione che per troppo tempo ci ha penalizzato e facendo sì che da quel momento per le trasferte si parta tutti insieme. La consapevolezza è determinante, consapevolezza di rappresentare una città, di condividere lo stesso patrimonio culturale.
Se vuoi essere dei nostri, devi sapere che le mura di Bergamo sono veneziane e non romane… devi sapere che il gelato gusto stracciatella, famoso in tutto il mondo, è stato creato nel 1961 da Enrico Panattoni, titolare del ristorante “La Marianna”… devi sapere che Atalanta era il nome di una mitologica cacciatrice, unica donna a prendere parte alla spedizione degli Argonauti in cerca del vello d’oro.
L’insieme di conoscenze condivise contribuirà ad unirci, a fare di noi un popolo pronto a difendere le sue strade dall’invasione di altre tifoserie.
Allo stesso modo, se vieni in trasferta a Bergamo, superato il casello, devi sentire che questa non è casa tua… devi sentire che ti stiamo osservando… devi sentire che da un momento all’altro potrebbe succederti qualcosa.
La mia missione, la nostra missione, diventa quella di cercare nuovi adepti per diffondere il culto della Dea. Adesivi, poster, gagliardetti, qualsiasi mezzo è utile allo scopo. Muri, frigoriferi, pali della luce: qualsiasi superficie.
Il nostro è un esercito in continua espansione. Il mio amore per l’Atalanta, benché non retribuito, ormai un lavoro a tempo pieno.
1996, Fiorentina - Atalanta
Prima di ogni trasferta, effettuo (di solito il giovedì) un accurato sopralluogo della città dove andremo a giocare. A differenza del mio primo sopralluogo (Bari, Mondiali del ’90), ora parto - in genere - accompagnato da altri due del gruppo e sempre munito di taccuino per gli appunti.
Perlustriamo la zona della stazione e quella dello stadio. Strade, piazze, treni e autobus. Vogliamo essere noi a sorprendere, ogni volta, la tifoseria di casa.
Il vero punto di svolta arriva in occasione di quella trasferta contro i viola.
Sopralluogo del giovedì. Siamo in due. A Prato saliamo sul treno per Firenze.
Finestrino abbassato, studiamo ogni metro di percorso. Durante il viaggio notiamo un ampio piazzale, separato dai binari solo da un basso muro di mattoni e da un cancelletto facilmente scavalcabile.
Arrivati alla stazione di Campo di Marte (la più vicina allo stadio e quindi quella dove il giorno della partita ci aspetteranno i poliziotti per scortarci), ci rendiamo conto che quel piazzale dista solo due chilometri. Concentratissimi li percorriamo. Arrivati al cancelletto, perlustriamo la zona in cerca del modo migliore per raggiungere lo stadio. Dopo due ore riprendiamo il regionale da Firenze a Prato.
Il tempo di una birra e saliamo di nuovo sul Prato-Firenze.
Tenendo conto della velocità del treno e del tempo che ci metterà a fermarsi, tiro il freno d’emergenza.
Piano perfetto: il convoglio si arresta a pochi metri da quel cancelletto. Ora abbiamo chiaro il piano d’azione da mettere in atto il giorno della partita.
2 maggio 1996.
Salendo sul treno, tutti i mille atalantini sono già al corrente della sosta “speciale” prima di Campo di Marte.
Mi siedo nella carrozza 1 così da poter scendere in fretta e percorrere a ritroso il treno, radunando gli altri e varcando il cancelletto alla testa del corteo.
Non sappiamo quanti ci seguiranno.
A prescindere dal numero, però, anche fossimo in dieci, sfileremo senza scorta per le strade di Firenze. Da Bologna in poi, preparandomi all’azione, mi alzo in piedi e comincio a camminare su e giù per il vagone.
Al momento prestabilito tiro il freno di emergenza. Prima che il treno sia completamente fermo, forzo l’apertura delle porte e salto a terra. Eruzione di atalantini anche dagli altri vagoni. Quattrocento persone invadono il piazzale. Il tempo di raggrupparsi e la nostra lunga marcia ha inizio.
I poliziotti più vicini ci guardano impotenti dall’elicottero che sorvola la zona.
Colte di sorpresa, le vedette fiorentine in motorino corrono ad avvertire gli altri. Puntiamo verso la curva nemica. Davanti a noi, improvvisamente, un orizzonte viola pronto alla controffensiva. Inizio scontri. In un convulso, bidirezionale flusso di bottiglie, pugni, fumogeni e cintate.
Dieci anni dopo, nel 2005, atalantini in viaggio per Firenze, ultima di campionato, rischio retrocessione.
Freno d’emergenza prima di Campo di Marte, treno che si ferma all’altezza del piazzale. Esondazione, sui binari, di tifosi neroazzurri.
Siamo partiti in mille, come la prima volta, ma dal treno oggi siamo scesi tutti.
Nelle settimane successive, ho la conferma che qualcosa sta cambiando: coreografie spettacolari, cori assordanti, cariche compatte, treni e pullman sempre pieni…
È passato il tempo delle trasferte in cui partivamo in undici.
Ormai ci siamo conquistati la fiducia della gente e, forti di questa credibilità, cominciamo a pensare a un grande evento popolare… non solo per i tifosi ma anche per quelli che, a Bergamo, non sono interessati al calcio. Nasce così la “Festa della Dea”.
Prima edizione nel 2003, mezzi limitati: palco grande quanto un tavolino, stand preso in prestito dall’Associazione Alpini, bancone per le birre con due soli spillatori. Eppure, già la sera dell’inaugurazione, successo straordinario, migliaia di persone, migliaia di boccali. L’evento negli anni cresce a dismisura, diventando il megafono ideale di tutte le nostre iniziative. Raccogliamo fondi per le popolazioni colpite dal terremoto. Per aiutare l’Aquila Rugby, compriamo addirittura una quota del capitale sociale. Accogliamo sul palco Fulvio Gambirasio (il padre di Yara, la ragazza assassinata nel 2010) che, interrompendo cinque anni di silenzio, sceglie la nostra festa per presentare ufficialmente l’associazione di cui è fondatore, che offre borse di studio a figli di famiglie bisognose per aiutarli a realizzare i loro sogni.
Ma questi sui giornali sono solo trafiletti. La notizia è che, alla “Festa della Dea”, 2013, un carro armato sotto i suoi cingoli accartoccia due auto pitturate coi colori del Brescia e della Roma. Episodio inquietante, incitamento alla violenza, provocazione intollerabile, arrestate questi delinquenti, scrivono tutti. È uno scherzo, una goliardata, una trovata a effetto, ribattiamo noi… questo però non lo scrive nessuno.
2009, Albinoleffe - Empoli.
Cinque di mattina. Campanello. Forse sto sognando. Di nuovo campanello.
Staccata a fatica la testa dal cuscino, mi alzo e vado verso la porta. Spioncino: Digos. Mi arrestano.
Sto già scontando sei mesi di sorveglianza speciale: revoca della patente, obbligo di firma quotidiana nel più vicino commissariato, prescrizioni relative a luoghi, orari e frequentazioni… libertà quasi azzerata.
Primo piano, terza stanza a destra. Un maresciallo si degna finalmente di spiegarmi: violazione del DASPO.
Sono stato visto al bar dello stadio il giorno della partita Albinoleffe - Empoli.
Provo a difendermi. Ero passato solo a regalare, come ogni anno, stelle di Natale alle ragazze che lavorano nel locale… e poi quel giorno non giocava neanche l’Atalanta…
Sono attenuanti di cui il giudice terrà sicuramente conto. Il giudice le ignora: sei mesi di domiciliari, scaduti i quali devo comunque ancora scontare il restante periodo di sorveglianza speciale.
La mia libertà di movimento è ristretta a poco più della distanza tra la mia casa e la questura.
Impossibile continuare a lavorare. Vivere in una città in cui tutto mi ricorda l’Atalanta.
L’alternativa me la offre la telefonata di un amico ristoratore, che vive nelle Marche.
Gli serve un aiuto in cucina. Posso raggiungerlo a Marotta, un paesino sul mare in provincia di Pesaro, e starmene tranquillo per qualche tempo.
Stazione Centrale. Salgo sul Milano-Bari. Scorrono fuori dai finestrini le stazioni di tante trasferte, le mille città attraversate a piedi con o senza scorta. Nel silenzio di strade deserte, profanate dai nostri cori la domenica mattina.
Mi hanno levato l’Atalanta. Io che l’ho anteposta ai miei genitori, alle mie fidanzate, al mio lavoro, a tutto il resto…
Ho partecipato a scontri e vissuto agguati.
Sempre per l’onore della mia squadra e della mia città. Sempre nel rispetto della tifoseria rivale.
Mai infierito su un uomo steso a terra, mai usato coltelli, mai guadagnato soldi su questa mia passione.
In fuga da un passato che non mi ha fatto sconti, adesso mi ritrovo sugli stessi binari che - diciassettenne, faccia da ragazzino - nel ’90 mi avevano portato a Bari.
La mia faccia da adulto, sovrapposta al mare fuori dal finestrino, va incontro al secondo tempo della mia vita… ancora tutto da giocare.
Claudio Galimberti - detto “Bocia” - vive attualmente nelle Marche, dove lavora a bordo del peschereccio Caligo Guercio. Sottoposto a innumerevoli DASPO, per un totale di 30 anni, sono ormai 18 (consecutivi) che non può andare allo stadio a vedere l’Atalanta.