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Daniele Manusia

La vittoria del Borussia Dortmund non è stata solo fortuna

Anche lo spirito di abnegazione della squadra di Terzic ha fatto la differenza.

Come ha fatto il PSG a non segnare nella partita di ieri? Come ha fatto, anzi, a non segnare in entrambe le partite con il Borussia Dortmund, dopo 44 tiri, 6 pali, più di 5 xG accumulati? 

 

«A essere onesti penso che avremmo meritato di vincere la partita», ha detto Luis Enrique alla fine. «A volte il calcio è così: ingiusto». Lo stesso ha ripetuto Nasser Al-Khelaifi, leggendo un immaginario Power-Point nella sua testa che gli ricordava l’angolo positivo con cui interpretare la serata: il PSG ha comunque giocato tre semifinali di Champions League negli ultimi cinque anni. Quando gli hanno chiesto cosa era mancato alla sua squadra, Al-Khelaifi ha risposto: «La fortuna». 

 

Magari è davvero solo una questione di caso. Dal punto di vista francese il doppio palo colpito da Mbappé e Hakimi all’andata, o la parte inferiore della traversa che ha messo in ginocchio Vitinha ieri sera, non possono essere che piccole vanitas, che invece di ricordarci la caducità della vita, che tutti dobbiamo morire, come le clessidre, i teschi e le candele spente nei quadri del Seicento, in questo caso simbolizzano più che altro il fatto che neanche 13 anni di investimenti sregolati possono comprare la totalità dei dettagli necessari a vincere proprio tutto. In questo senso, c’è una specie di giustizia nel modo in cui il calcio è stato ingiusto, stavolta. 

 

Il contrasto non poteva essere più forte di quello tra una squadra di proprietà di un fondo sovrano, che si è garantita le prestazioni di uno dei migliori giocatori al mondo grazie all’intervento del presidente della repubblica francese, e il muro giallo di tifosi tedeschi, proprietari al 51% del proprio club, di cui uno, oltretutto, siede in panchina; una squadra attualmente quinta in classifica in Bundesliga, con Hummels trentacinquenne, Reus che ha già salutato i tifosi dopo dodici stagioni e un centravanti senza un dente che sembra scolpito in un tronco di legno come Fulkrug.

 

Di quale ingiustizia parliamo, esattamente? Il PSG ha costruito molto, è vero, e ci mancherebbe anche che non fosse stato così, ma il Borussia Dortmund non è stato certo a guardare. Ha vinto entrambe le partite e, salvo gli ultimi venticinque minuti di quella di ritorno, dopo la sostituzione di Sancho per Sule e il passaggio alla difesa a 5 (con un comodo vantaggio di due gol), ha sempre provato a rispondere anche a rischio di esporsi alle ripartenze parigine. 

 

Al dodicesimo del primo tempo, dopo un calcio d’angolo respinto di testa da Marquinhos e ripulito da Mbappé poco fuori dall’area di rigore parigina, il BVB si è ritrovato con nove giocatori nella metà campo avversaria. Mbappé ha controllato la respinta con le spalle alla porta ed Emre Can dietro di lui, si è girato verso Dembélé che ha subito trovato Hakimi libero sulla fascia sinistra. Il numero 7 ha quel punto ha sprintato sul lato opposto. Non sarebbe stato facilissimo servirlo in corsa, anche se lo spazio c’era, Hakimi comunque non può neanche pensarci perché per qualche ragione Fabian Ruiz ha deciso di seguire l’azione tagliandogli davanti, internamente, e quando Hakimi riacquista visuale il corridoio che porta a Mbappé ormai è stato chiuso. Da chi? Da Jadon Sancho. Hakimi la passa a Fabian Ruiz e a quel punto anche il resto del Borussia ripiega nella propria trequarti. 

 

 

È fortunata, una squadra il cui numero 10 recupera in transizione il giocatore più veloce avversario? È sfortunata, invece, quella in cui due giocatori si ostacolano tra di loro passandosi davanti nel momento cruciale dell’azione (e in cui Dembélé, senza apparente ragione, dopo aver passato il pallone ad Hakimi si disinteressa di attaccare)?

 

Basterebbe la partita di Matt Hummels per mettere in discussione la questione della fortuna. Una partita fatta di tocchi sporchi, di riflessi e letture tattiche immediate, di respinte di testa o di piede in area di rigore, di slittamenti su questo o quel giocatore rimasto libero perché non si può pensare di difendere contro una squadra come il PSG rimanendo passivi. 

 

L’azione che al 34esimo porta Adeyemi al tiro da dentro l’area (su cui Donnarumma compie una parata miracolosa con una mano sola) nasce da un cross diFabian Ruiz praticamente dalla riga di fondo, a sinistra dell’area piccola: Sabitzer e Ryerson difendono il primo palo davanti a Mbappé, ma il cross di Fabian è arretrato e Mbappé sta per calciare indisturbato. Sarebbe potuto essere il vantaggio, il gol che avrebbe messo il doppio confronto in parità, e invece non è stata neanche una vera occasione perché Mbappé non è riuscito a tirare. 

 

Difendere non è solo una questione di superiorità numerica e, in quel momento, anche se in area di rigore ci sono cinque giocatori del Borussia e tre del PSG, la palla sta per arrivare proprio tra i piedi dell’attaccante più letale, quello costantemente raddoppiato e triplicato. Ma un attimo prima che Mbappé calci, Hummels scivola verso la propria porta e con la gamba sinistra iperestesa devia il pallone quanto basta per mandarlo sui piedi di Schlotterbeck, che spazzando dà il via all’azione d’attacco. 

 

 

La gara del Borussia si è giocata su questo tipo di dettagli e, più in generale, sulla complicità autolesionista del Paris Saint-Germain. Come spiegare altrimenti, se non con l’inconscio desiderio di farsi eliminare, il fatto che Hummels stacchi completamente libero, sul secondo palo, con Beraldo un paio di metri davanti, sul calcio d’angolo di Brandt con cui lo svantaggio è diventato doppio? Sfortuna, che il miglior saltatore avversario rimanga solo all’altezza del secondo palo?

 

Anche la squadra di Terzic non aveva un grande margine di errore, come all’andata è bastato che Adeyemi o Sancho non spremessero ogni loro goccia di energia per correre all’indietro per creare un pericolo: il primo vero tiro della serata, sparato alto da Dembélé dall’interno dell’area di rigore intorno alla mezz’ora di gioco, arriva dopo una circolazione del Paris da sinistra a destra che ha esposto Maatsen a un due contro uno con Zaire-Emery e, appunto, Dembélé. 

 

Anche l’occasione della traversa di Mbappé nel finale nasce da una piccola pigrizia di Nmecha, entrato da poco, che si lascia davanti Nuno Mendes, libero sul secondo palo per tutta l’ultima parte dell’azione, addirittura col braccio alzato, chiedendo il cross. Quando Dembélé mette la palla dentro e Mendes la schiaccia malamente, il Borussia è a una sbavatura di distanza da prendere comunque gol: Kobel, togliendo il pallone dalla testa di Hummels, lo manda sui piedi di Hakimi, che al volo la passa a Mbappé che riesce a girarla di piatto verso la porta. 

 

 

 

Ma per ogni sbavatura da parte di uno o più giocatori del Borussia c’era la rete di sostegno del sacrificio collettivo: Kobel compie la sua più bella parata allungandosi per deviare il tiro di Mbappé e alle sue spalle, in uno spazio di non più di quattro metri che lo separava dalla riga, c’erano cinque suoi compagni pronti a respingere la palla nel caso in cui fosse passata. Quando serve, si difende anche dietro al portiere.

 

Una delle due occasioni che Goncalo Ramos sbaglia con noncuranza, come fossero scontrini che gli cadono dalle tasche quando tira fuori le chiavi di casa, nasce da un’altra piccola pigrizia di Reus che indica ai compagni l’inserimento di Mendes anziché seguirlo. Sabitzer e Ryerson restano bloccati su Mbappé in possesso del pallone, mentre Hummels è preso in mezzo al triangolo con Dembélé e Mendes, che arriva al cross basso per Ramos.

 

Anche lì c’è una lettura errata di Maatsen che, ingannato da una finta di Ramos, o preoccupato da Hakimi alle sue spalle con Sancho in ritardo, si abbassa dentro l’area piccola lasciando a Ramos la ricezione del cut-back di Mendes. Ma per ogni sbavatura del Borussia, c’era una sciatteria del PSG.

 

 

Ingiusto, quindi, che a vincere sia stata la squadra che ha fatto del proprio meglio per giocarsela alla pari – senza subire abbassandosi per partito preso, ma abbassandosi quando la qualità del PSG tracimava in tutta l’ampiezza del campo – anziché quella che sembrava volersi prendere una cosa che gli spettava di diritto?  

 

Forse l’immagine migliore per rendere la differenza tra le due prestazioni, e restituire un po’ di senso a una partita in cui la sfortuna ha avuto sì la sua parte, ma non basta a spiegare il risultato, è proprio quella del duello tra Mbappé e Hummels. E in particolare due situazioni, molto simili, arrivate a distanza di pochi minuti l’una dall’altra, dopo il 13esimo e il 16esimo minuto del primo tempo.

 

In entrambi i casi la difesa del Borussia è alta nella propria metà campo e Mbappé si è spostato sul centro-sinistra per puntare la porta. Nel primo caso Mbappé prova a ricevere la palla sui piedi, dalla sua difesa, e a girarsi verso la porta avversaria, come suo solito usando l’intero del piede destro, forse cercando lo scambio con Ramos. Hummels lo chiude di sinistro e gli porta via la palla in modo secco e pulito. 

 

 

Nel secondo caso Mbappé si abbassa sulla linea di Emre Can, che dribbla con l’esterno, e punta Hummels verso l’interno. Dopo pochi tocchi però smarrisce il pallone per strada, perde il passo e manca il tocco per portarselo avanti, proprio mentre il centrale tedesco fa un passo incontro per raccogliere l’oggetto smarrito dal francese. Hummels qui non dovuto fare altro che il suo normale lavoro, fino alla fine, mentre Mbappé provando, come spesso gli capita, a strafare, dimentica la più basilare delle cose: la palla.

 


D’accordo i pali, le traverse, gli errori sotto porta quella sensazione che il Paris Saint-Germain avrebbe potuto giocare anche per un altro paio d’ore senza mai segnare, come se un mimo avesse costruito un muro invisibile alle spalle di Kobel, ma la semifinale l’hanno vinta anche la flessibilità, lo spirito di abnegazione, la concentrazione, la sicurezza del Borussia Dortmund. 

 

Il calcio è ingiusto, certo, è frustrante, ingeneroso a volte. Ma è anche quello sport in cui ogni vantaggio tecnico o strutturale va poi messo a frutto nel confronto con gli avversari. E non c’è niente di meglio di un avversario che vende cara la pelle al punto che neanche uno sceicco può permettersela. 

 

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Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).