Uno dei tanti punti di forza di Vladimir Putin è il mistero. Già la sua faccia è enigmatica come quella della Monna Lisa: quando è serio sembra sul punto di scoppiare in una fragorosa risata, quando sorride in realtà pare voglia ucciderti. Di lui sappiamo relativamente poco, almeno per uno che è stato il presidente della Russia da più di vent’anni, e c’è da dire che non aiuta il fatto che ce ne interessiamo solo quando diventa una minaccia tangibile o diretta. Aggiungete la distanza linguistica con il russo e l’alfabeto cirillico, e il fatto che proviamo una naturale diffidenza verso la stampa di un Paese che di fatto non è più una democrazia da un po’ di tempo, ed eccovi la ricetta perfetta per la creazione di un animale mitologico di cui siamo costretti ad interpretare l’ambiguità da lontano, attraverso ombre proiettate su un muro.
Di fronte a questa macchia di Rorscharch fatta zar qualsiasi dettaglio diventa una metafora buona per le nostre proiezioni. Il suo passato nel KGB è una metafora, perché ne sappiamo pochissimo e le interpretazioni abbondano. La sua apparente nostalgia per l’Unione Sovietica e l'impero russo è una metafora, come è una metafora il suo passato indissolubilmente legato all’assedio di Leningrado/San Pietroburgo - lo sapevate che Putin aveva due fratelli e che uno di questi, Albert, è morto dieci anni prima della sua nascita proprio durante l’assedio dei nazisti? In quelle ore drammatiche in cui la madre perse i sensi per la fame e venne scambiata per un cadavere fino a quando qualcuno non sentì i suoi rantoli, Albert Putin venne messo in una fossa comune, e da questa breve storia chissà quante interpretazioni sul Vladimir Putin di oggi potete ricavarci. Soprattutto, è una metafora il suo amore per lo sport, perché non c’è nulla al mondo di più metaforico.
Vladimir Putin, lo sappiamo, ama farsi fotografare o riprendere mentre pratica qualsiasi tipo di sport. Sul sito del Cremlino c’è un’intera pagina dedicata ai suoi interessi sportivi al di fuori della politica, che si apre con una sua dichiarazione sull’amore per imparare cose nuove ogni giorno: «Semplicemente amo tutto ciò che è nuovo. Mi piace imparare cose nuove. È lo stesso processo che mi dà gioia». Penso che le foto le abbiamo già tutti in mente. Putin che sfreccia sulla neve con gli scii ai piedi e addosso una tuta rossa della Mizuno (il campione sovietico Leonid Tyagachev, si legge sul sito del Cremlino, dice che la tecnica di Putin è molto stabile e che scende dalla montagna a velocità elevatissime). Putin alla guida di una macchina sportiva. Putin nella foresta che spara un sonnifero a una tigre siberiana (ok, questo forse non è propriamente uno sport). Putin in canoa che guarda verso il futuro. Putin che pesca sul delta del fiume Volga, con una maglia attillata che ne mette in mostra l’impressionante bicipite. Putin a cavallo vestito da cosacco. Putin che, con i pattini ai piedi e il caschetto in testa, batte nettamente il presidente bielorusso Lukaschenko, segnando ben sette reti in una partita di hockey su ghiaccio. Putin, infine, che in un soleggiato giorno d’estate a Sochi, si prende il suo tempo per allenarsi in una sala pesi all’aperto, mentre Medvedev imbarazzato fa finta di partecipare come qualcuno che sta cercando di sfuggire dallo sguardo del personal trainer.
Tra tutti gli sport che pratica, o fa finta di praticare a favore di fotocamera per restituirci un'immagine di forza e salute, il judo è probabilmente l’unico per cui Putin prova un amore sincero. Non che non si possa estrarre qualche metafora anche dal judo, anzi, anche sulla stampa italiana sono comprensibilmente rifioriti nelle ultime settimane gli articoli che cercano di leggere la delicata situazione geopolitica attuale con la lente della celebre arte marziale giapponese. Su formiche, ad esempio, ci ha provato Dario Quintavalle: “L’essenza del Judo consiste nello sfruttare la forza degli avversari trasformandola in debolezza. Non vince il più forte, ma il più flessibile. Non perde il più debole, ma il più irruento, il più sicuro di sé, il più sbilanciato […] Nei suoi discorsi ufficiali [Putin], pur vantando le forze di cui dispone la Federazione Russa, e non lesinando toni minacciosi, è persino disarmante nella sincerità con cui riconosce lo sfavorevole divario militare, tecnologico, demografico, di PIL, con gli Stati Uniti. Non è modestia: semplicemente, la disparità di forze, nell’ottica del judoka, non è un problema, ma addirittura una opportunità”. È un’interpretazione affascinante, anche per me che non so quasi niente di judo, ma che nasconde il fatto che tra Putin e il judo c’è una storia reale.
Da bambino, a quanto pare, Vladimir Putin era una vera peste. Il sito gol.ruparla di scommesse vinte con gli altri bambini delle elementari - che lo sfidavano a salire sulla ringhiera di un balcone al quinto piano della scuola, arrampicarsi sul cornicione dell’edificio e utilizzarlo come leva per lanciarsi sul davanzale di una finestra vicina - del tentativo di imporsi sulla dura legge della violenza infantile nella San Pietroburgo dei primi anni ’60. Per sopravvivere intorno ai dieci anni Putin si avvicina alla boxe, ma l’approccio è un fallimento. In uno dei primi allenamenti si rompe il naso e forse in quel momento scopre la mortalità del suo corpo: «Il dolore era terribile, non riuscivo nemmeno a toccarmi la punta del naso per quanto mi faceva male». Per evitare che la realtà gli sferrasse un altro pugno in faccia cambia sport e inizia a praticare il sambo, un arte marziale russa che era diventata una cosa in Unione Sovietica quando l’Armata Rossa l’aveva adottata per addestrare i suoi soldati al combattimento corpo a corpo. Uno dei pionieri del sambo, Vasili Oshchepkov, aveva passato i primi anni del Novecento in Giappone ad allenarsi con il maestro e fondatore del judo, Kano Jigoro, ma quando tornò in patria per seminare la sua nuova arte marziale venne accusato di essere una spia giapponese e venne giustiziato in un gulag durante una delle grandi purghe staliniane (solo nel 1957 l’Unione Sovietica ammise che non aveva commesso nessuno dei crimini dei quali era stato accusato). Non credo che Putin sapesse tutto questo: forse lo aveva scelto solo perché “sambo” - letteralmente - in russo significa “difesa personale senza armi”, o più probabilmente perché in una piccola palestra vicino casa sua, talmente piccola che erano stati costretti a mettere dei materassi sui muri per evitare che chi ci si allenava si spaccasse la testa cadendo, l’allenatore Anatoly Rakhlin aveva iniziato a reclutare ragazzi di 12 e 13 anni per aprire una sezione di sambo.
I suoi genitori inizialmente erano contrari a quell’arte marziale che si allontanava dalla cerimoniosità senza sangue del judo per avvicinarsi alla lotta vera e propria, e Rakhlin, che poi divenne una persona incredibilmente importante nella vita di Putin, fu costretto ad andare personalmente a casa loro per convincerli. «Credevano che mi distraesse da scuola, che dovevo concentrarmi e cose del genere. Generalmente a loro il sambo sembrava qualcosa di sbagliato. Dicevano che era una sorta di lotta, e che quindi non bisognava cimentarcisi», ha dichiarato Putin anni dopo «Allora Anatoly è venuto da me in famiglia, ha parlato con i miei genitori, e li ha convinti che lo sport mi avrebbe aiutato, non solo nei miei studi, ma che mi avrebbe tenuto in forma e mi avrebbe dato qualcosa nella vita».
Rakhlin e il suo gruppo di ragazzini crescono insieme. Il maestro inizia a insegnargli anche il judo, se li porta dietro per le competizioni nei dintorni di San Pietroburgo. «Ci capitava di allenarci per strada, nel fango o sotto la pioggia, di passare la notte nelle stazioni dei treni», dirà Rakhlin. In quel gruppo Vladimir Putin conosce anche Arkady Rotenberg, che nel tempo diventerà il suo storico sparring partner nel judo nonché uno di quelli che oggi chiamiamo oligarchi. Nel 2016, insieme, scriveranno un libro sul judo che verrà distribuito a milioni di bambini russi, Gentle Way, pubblicato dalla casa editrice dello stesso Rotenberg, la Enlightenment. Non era la prima volta che le aziende di Rotenberg riuscivano a stipulare ricchi contratti con lo stato russo: per le Olimpiadi invernali di Sochi la sua fetta di torta ammonta a 7 miliardi di dollari in appalti vari, poco dopo una delle sue aziende si aggiudica la costruzione del ponte che unisce la Russia alla penisola di Crimea (3 miliardi di dollari).
Nel 1969 Rakhlin decide di spostarsi dalla piccola palestra dove aveva iniziato alle strutture del Leningradsky Metallichesky Zavod, la fonderia della città dove i lavoratori degli impianti industriali avevano di fatto fondato lo sport a San Pietroburgo. Lì dove la squadra dei lavoratori della fonderia diede vita a quello che poi diventerà lo Zenit, Putin affina la sua tecnica nel judo, in quello che formalmente è chiamato club Turbostroitel. Circa un anno dopo, poco prima di entrare nella facoltà di Giurisprudenza e abbandonare definitivamente l’allenamento a tempo pieno, riesce ad ottenere l’equivalente sovietico della cintura nera.
A quel punto la storia del suo rapporto con il judo diventa più sfocato, i suoi confini meno nitidi. Gli organi di informazione ufficiali, come l’agenzia di stampa TASS, riportano che divenne campione di sambo della città nel 1973 e di judo nel 1976, cioè un anno dopo la sua entrata nel KGB. Non so quanto ci si possa fidare di queste informazioni, ma è probabile che per tutti gli anni ’70 Putin abbia continuato a frequentare Rakhlin, magari per allenamenti più saltuari. Fu lui, per esempio, a farlo entrare nel giro della casa di produzione cinematografica Lenfilm, facendo da comparsa in alcuni blockbuster sovietici come Blokada e Izhorskiy Batalion, dove Putin mise i panni della sua vita precedente interpretando soldati russi e tedeschi durante l’assedio di San Pietroburgo.
Eppure il judo, pur sfumando, rimane, come una pennellata che passa gradualmente dal nero al bianco della tela ma senza mai esaurire del tutto la vernice (al contrario del sambo di cui gradualmente si perdono le tracce). Allo stesso modo, negli anni rimane anche Rakhlin, che nella narrazione ufficiale sarà una sorta di vecchio saggio che lo accompagnerà anche dopo quel periodo. Dopo la sua morte, nel 2013, Putin vorrà presenziare personalmente al funerale per lasciare un mazzo di rose rosse, anche se in maniera meno emotiva di quanto gli organi ufficiali non volessero dipingere. Putin si farà inquadrare parlando con i presenti con la solita aria di chi in realtà si sta guardando intorno, e poi in una lunga passeggiata solitaria per le strade deserte e grigie di San Pietroburgo, come se volesse mostrarsi in fuga dal dolore. Una scena suggestiva ma non proprio spontanea.
Oggi Putin dice di dedicare circa due ore allo sport ogni giorno, e di praticare judo di tanto in tanto, se uno sparring partner è disponibile. In compenso, con il tempo i suoi sparring partner sono diventati alcuni dei più grandi atleti di questo sport. Ezio Gamba, oro olimpico a Mosca 1980 e oggi allenatore della squadra olimpica russa, a volte si allena con lui, che in cambio ha tenuto a dargli personalmente il passaporto russo. Gamba ha dichiarato che Putin si allena ogni 15-20 giorni e che è «un judoka vero» - cosa che però non gli ha impedito di infortunarsi a un dito quando, in uno slancio di virilità, a Sochi, dove era impegnato in un incontro diplomatico con Iran e Turchia, nel 2019 ha tentato una presa al bavero al campione olimpico Beslan Mudranov.
Putin che si allena prima con Ezio Gamba e poi con la judoka russa Irina Zabludina.
Negli ultimi anni dalla nostra parte del mondo si sono sollevati diversi dubbi sulle reali abilità da judoka di Putin - una persona di cui non sembra si possa essere sicuri di niente. Una delle motivazioni principali è che su internet ci sono moltissimi video in cui appare Putin mentre pratica judo e nella maggior parte di questi lo vediamo mettere a terra avversari più grossi e atletici di lui. Tecnicamente questo è avvenuto perché Putin in pubblico pratica quasi sempre il cosiddetto randori, la versione del judo in cui i due avversari si affrontano solo per provare delle mosse uno sull’altro, e gli organi ufficiali russi sono ben attenti a pubblicare solo i momenti in cui Putin è il cosiddetto tori, cioè il judoka che prova la mossa sull’avversario (che è detto uke, che invece è tenuto a cooperare con il suo avversario accompagnando i suoi movimenti). È un espediente molto semplice, ma che restituisce immediatamente un’immagine di forza nonostante le avversità, ma anche di compostezza ed eleganza. Quando parla del judo, Putin è sempre attento a sottolineare che è molto più di uno sport: «In un certo senso è anche una filosofia, che insegna a trattare l’avversario con rispetto» (ironico, letto oggi). Anche se sono rari, esistono dei video in cui Putin fa l'uke: il mio preferito è quello in cui si fa schienare da un bambino di una decina d'anni durante una visita ufficiale in Giappone nel 2000.
L’attenzione di Putin verso l’universo valoriale del judo, e alla sua diffusione in Russia (se siete interessati e se capite il russo su YouTube trovate anche un video di quasi un’ora e mezza in cui vi spiega le principali mosse passo passo), ha comunque convinto la comunità dello sport a conferirgli molte delle maggiori onorificenze. Nel 2006 è stato nominato presidente onorario dell’Unione Europea di Judo. Nel 2010 l’università sud-coreana di Yongin gli ha consegnato un certificato onorario di Dottore in Judo. Nel 2012, infine, la Federazione Internazionale di Judo lo ha insignito dell’ottavo dan, facendolo diventare il primo judoka russo della storia a raggiungere un livello così alto. Dopo l'invasione dell'Ucraina, però, la Federazione Internazionale di Judo ci ha ripensato, e gli ha tolto alcune delle cariche onorifiche che gli aveva conferito, come quella di ambasciatore e presidente onorario.
In ogni caso, lo spirito cerimoniale del judo non era riuscito a convincere tutti quelli che prendono lo sport in maniera ancora più seria ancora prima che la situazione precipitasse. Negli Stati Uniti, dove lo sport è lo strumento per dividere i vinti dai vincitori, e Putin ai primissimi posti tra i nemici della patria da sempre, la vita da judoka del presidente russo è percepita come un oltraggio all’onestà e alla trasparenza. Nel 2017 il Washington Post si chiese esplicitamente se Putin a judo in realtà non fosse un bluff. Due anni prima il blogger e analista americano Benjamin Wittes andò addirittura oltre, sfidando ufficialmente Putin per un incontro in un posto del mondo dove non l’avrebbe potuto arrestare. Le sue richieste al Cremlino, che attirarono l’attenzione anche di Garry Kasparov, sono rimaste inascoltate, ma rappresentano un’immagine nitida di come gli Stati Uniti sognerebbero di risolvere definitivamente tutte le proprie dispute con la Russia: su un ottagono di MMA (Putin potrebbe usare le sue conoscenze nel sambo), in un incontro che lo veda finalmente e inequivocabilmente sconfitto.
Troppo astratto, troppo meditativo il judo, incapace proprio come Vladimir Putin di darci risposte semplici e immediate.