Quella sottile compiacenza verso il razzismo
di Emanuele Atturo
A un certo punto, durante Atalanta-Juventus, si sentiva una sola frase: “Sei uno zingaro”. Forte, chiara e ripetuta fino alla nausea, fino a sovrastare tutto il resto, fino a renderla l’unico orizzonte sonoro della partita di calcio che si stava giocando. Dusan Vlahovic, la vittima di questi insulti, probabilmente ha provato a ignorare quello che stava accadendo, ha provato forse ad aspettare che passasse come una nuvola passeggera. La partita è proseguita, i calciatori hanno continuato a tirare calci al pallone, fino a che forse non è diventato semplicemente assurdo fare finta di niente.
Allora Vlahovic si è avvicinato all’arbitro, ha allargato le braccia e gli ha chiesto “Non lo sentite?”. Era cominciato pochi minuti prima, quando Vlahovic aveva avuto un battibecco con Joakim Maehle. I tifosi dell’Atalanta stavano usando la sua provenienza slava come un insulto. Non è la prima volta che succede in uno stadio italiano, non sarà l’ultima. Eppure non è una cosa che si può fare. Di fronte a reiterati insulti razzisti un arbitro ha il dovere di sospendere la partita. Dall’altoparlante dello stadio si è chiesto al pubblico di smetterla con gli insulti razzisti, poi la partita si è fermata.
Quando la partita è ricominciata, anche gli insulti sono ricominciati. Nel frattempo l’arbitro ha allungato il recupero a causa della sospensione della partita, dando un piccolo vantaggio all’Atalanta che era in svantaggio e doveva recuperare il risultato. Quasi al centesimo minuto Vlahovic segna, si porta l’indice alla bocca e sembra scrollarsi di dosso un po’ dello schifo che gli hanno tirato addosso durante quei minuti. Ancor prima che quell’esultanza potesse diventare apertamente polemica - se mai lo sarebbe diventata - l’arbitro Doveri si avvicina a Vlahovic e lo riprende, poi lo ammonisce per “eccesso di esultanza”. Un altro esempio di una certa smania che in Italia abbiamo nel punire le vittime di insulti razzisti.
Il calcio italiano, ma sarebbe meglio dire la società italiana, ha una solida tradizione di “victim blaming”. È qualcosa che riguarda le vittime di razzismo, o le vittime di stupro, o di altri episodi gravi. Questo fenomeno mette le vittime di fronte a una specie di dissociazione cognitiva, riassunta da un vecchio articolo del New York Times: "Se vieni aggredito durante un passeggiata a mezzanotte nel parco, qualcuno avrà della compassione per te, mentre qualcun altro ti ammonirà per essere lì, innanzitutto. Se vieni stuprata da un conoscente dopo esserti ubriacata a una festa, qualcuno si commuoverà per la tua disgrazia, mentre altri ti chiederanno perché ti sei messa in una situazione del genere".
Mentre lo stadio di Bergamo insultava Vlahovic, la maggior parte del pubblico - a casa o allo stadio - ha empatizzato con lui, che stava subendo una violenza in un contesto sportivo, mentre qualcun altro si è affrettato a sanzionarlo. La stessa cosa (con alcune differenze) era successa nel 2019, quando Moise Kean aveva esultato verso il settore dei tifosi del Cagliari che gli stavano rivolgendo insulti razzisti. La maggior parte delle persone ha empatizzato verso Kean, qualcun altro, come Leonardo Bonucci, si è affrettato a precisare che la colpa era sua quanto dei razzisti.
Un mese fa, era stata una parte della curva della Juventus a rivolgere degli insulti razzisti a Romelu Lukaku. Anche in quel caso gli insulti erano chiari e scanditi e dopo il gol su rigore il centravanti dell’Inter aveva fatto la sua solita esultanza: il dito portato alla bocca e il saluto militare. L’arbitro l’ha interpretata come polemica e ha ammonito Lukaku. Era il secondo cartellino giallo, Lukaku è stato espulso e quindi squalificato per la semifinale di ritorno di Coppa Italia. Eravamo arrivati a un paradosso indecifrabile: la vittima degli insulti razzisti veniva punita dall’ufficiale di gara mentre gli autori degli insulti razzisti restavano impuniti?
Il senso d’ingiustizia si è acuito dopo che il giudice sportivo ha revocato la squalifica della curva della Juventus, confermando invece la squalifica di Lukaku. Una pratica di victim blaming praticamente istituzionalizzata. Il presidente della Federcalcio Gravina a quel punto era intervenuto per revocare la squalifica come un sovrano illuminato. Una conferma, per riflesso, che il sistema protegge i carnefici più delle vittime, e che serve un gesto eccezionale, una specie di grazia monarchica, un’assoluzione papale, per restituire un senso di decenza.
Per quanto assurda, dovremmo interpretare questa situazione per quello che è: espressione della nostra cultura. Il calcio ha introiettato il razzismo della società italiana in maniera così profonda da aver creato un sistema che ne protegge gli estensori; da aver creato una campagna anti-razzista usando un linguaggio razzista; da aver creato una giustizia sportiva che punisce chi prova ad accennare qualsiasi ribellione verso le violenze razziste ricevute.
Poco tempo fa, sempre a Bergamo, altri cori razzisti avevano portato Vlahovic sull’orlo delle lacrime. Era davanti al cartellone degli sponsor, di fronte a un microfono, mentre i tifosi dell’Atalanta lo insultavano con assurda determinazione a partita ormai finita. Lui rideva per trattenere le lacrime, ma per noi - noi italiani e bianchi che non subiamo insulti razzisti - è così normale, un semplice tappeto sonoro, che il giornalista chiede a Vlahovic di proseguire: «Vado?». Vlahovic è evidentemente su un altro pianeta, e il giornalista gli mette le mani addosso, col telefono in mano: «Scusa? Vieni? Scusa?».
È dolorosa la discrepanza tra lo stato emotivo di Vlahovic, distrutto, logorato, e la nostra indifferenza. Ed è difficile non trovare una correlazione tra questa nostra indifferenza e la costanza con cui questi episodi continuano a ripetersi.
Ogni volta che si verifica, ovviamente, è forte l’indignazione. Ma è un’indignazione meno generalizzata di quanto la nostra bolla tende a farci credere, e soprattutto meno efficace di quanto pensiamo. I tweet del pubblico, gli editoriali addolorati dei giornalisti (come questo), il senso di sbigottimento generale, fanno parte di una stanca coreografia che ogni volta si ripete un po’ più mesta, un po’ più consapevole della propria irrilevanza.
Una parte di noi crede che il progresso civile sia una linea retta, un insieme di conquiste che si imporranno sulla società con il semplice peso del tempo e della storia. Come se la società umana dovesse naturalmente progredire verso un senso di giustizia. Come se l’essere umano assecondasse una natura buona. Non c’è niente di dato, in realtà, e anche i diritti che consideriamo più acquisiti fanno presto a deteriorarsi, a scomparire. Il diritto all’aborto, che consideriamo una conquista data, oggi viene messo in discussione negli Stati Uniti con un radicalismo che ci sembra fuori dal tempo - e che invece è proprio espressione del nostro tempo.
E così anche una società più varia e complessa di qualche anno fa, non ha generato una maggiore tolleranza, anzi si trova ad essere ancora più razzista. Il calcio italiano, questo, non manca di ricordarcelo ogni volta che può, e quest’anno siamo stati spettatori di episodi di razzismo quasi ogni settimana.
A gennaio del 2022 la curva sud della Roma ha rivolto cori razzisti nei confronti di Ibrahimovic, costringendo Mourinho a chiedere di smetterla. La stessa cosa è successa un mese fa, sempre all’Olimpico, contro Dejan Stankovic, con Mourinho che ha chiesto alla Curva Sud di fermarsi: mentre il sistema resta in sostanza impotente, sono i protagonisti a doversi spendere in gesti eroici per arginare il razzismo in campo.
A gennaio, appena ripreso il campionato, la curva nord della Lazio è stata squalificata in seguito agli insulti razzisti rivolti a Banda e Umtiti del Lecce. La Curva Nord allora ha diramato un comunicato in cui ha accusato tutti di ipocrisia: organizzate un Mondiale in Qatar e noi non possiamo fare un coro razzista? A marzo, sempre la curva della Lazio, invitava i tifosi della Roma ad andare in sinagoga, mentre in tribuna era presente un tifoso con la maglia numero 88 e il nome “Hitlerson”.
«Una curva intera che canta cori antisemiti, un 'tifoso' in tribuna con la maglia Hitlerson e il numero 88 e noi, come sempre, gli unici a indignarci e a protestare. Possibile che tutti continuino a far finta di nulla?» aveva commentato il presidente della comunità ebraica di Roma. Sempre la curva della Lazio aveva rivolto chiari insulti razzisti a Singo e Karamoh del Torino, con quest’ultimo che ha scritto sconsolato su Instagram: «Come possono queste persone entrare ancora allo stadio?».
Pochi mesi prima la curva della Lazio aveva fissato uno standard inarrivabile, insultando in chiave razzista uno steward dello stadio. Un episodio in cui decade anche l’argomentazione principe dei tifosi in questi casi, una delle più stupide che si possono sentire, e cioè che non c’entra il razzismo ma il desiderio di ferire un giocatore avversario là dove può far più male. I tifosi, quindi, rivendicano il diritto di ferire un altro essere umano, e di poterlo ferire in un modo qualsiasi - che però non è mai un modo qualsiasi ma quello più vile e doloroso, quello che ha a che fare con i pregiudizi, con la discriminazione storica, con l’emarginazione sistemica.
Forse non è un caso che tanti di questi episodi si verifichino a Roma, dove l’estrema destra nell’ultimo mezzo secolo ha continuato a vivere e a proliferare sotto forme sempre diverse, fino a prendere anche aspetti istituzionali, fino a entrare nei palazzi del potere. Ma Roma non è sola. Quest’anno a La Spezia ci sono stati insulti razzisti a Filip Kostic, a Torino quelli a Romelu Lukaku. In seconda categoria veneta è stata sospesa una partita per insulti razzisti a un direttore di gara di origini guineane.
Un report dell’AIC (Associazione Italiana Calciatori) segnala 121 casi verificati di insulti discriminatori nei confronti dei calciatori. Il 39% degli insulti, secondo questa analisi, viene rivolto a calciatori neri, l’11% a calciatori dei Balcani e l’8% a calciatori dell’America Latina.
E però, dopo la partita di Bergamo Allegri ha invitato i giocatori a ignorare questi insulti, quando accadono, come se l’indifferenza possa davvero aiutare. Poi ha chiesto di inasprire le pene, di prendere provvedimenti, come aveva fatto anche Stefano Pioli un mese fa. Gli strumenti di contrasto a questi episodi oggi sembrano inadeguati. I club si occupano raramente dei propri tifosi, probabilmente per non creare troppe divisioni interne, e anzi spesso ne prendono le difese. Allora deve intervenire la giustizia sportiva, che però senza la collaborazione dei club, ha strumenti spuntati e grossolani.
Può essere inflitto un daspo dallo stadio, ma solo di fronte a casi di razzismo così eclatanti da costituire un reato. Come scriveva Il Post ormai qualche anno fa: "Le condotte incivili e aggressive, o i casi di razzismo meno evidenti e più controversi, cioè tutto quello che non costituisce reato, possono essere trattati soltanto dai club. In Italia non succede, e questo contribuisce in modo decisivo alla scarsa efficienza di tutto il sistema". Ci sono state delle eccezioni naturalmente. La Lazio, poi, ha dato un daspo a vita a quel tifoso che aveva la maglia con su scritto “Hitlerson”, che curiosamente era un tedesco che faceva un po’ di fascioturismo nella capitale. La Juventus ha individuato i tifosi che avevano fatto dei cori fascisti contro Lukaku, evitando così la squalifica di tutta la curva. Ogni volta l’impressione è che sia tutto vano, un esercizio di stile.
Bisogna aggiungere che durante i match gli arbitri molto molto raramente si assumono la responsabilità di sospendere le partite - nonostante le norme gli darebbero ampio margine di manovra (basterebbero anche dei cori discriminatori cantati da un piccolo gruppo di persone, purché siano percepibili).
Le norme sono importanti, perché possono correggere i comportamenti, ma l’impressione è che siano comunque insufficienti ad arginare questi fenomeni che sono espressione di una cultura, delle relazioni che agiscono nella nostra società. Accanto all’indignazione, di fronte a questi casi, esiste un altro sentimento che ha un potere tossico particolare. È meno evidente, più sottile, ma è un rumore di fondo difficile da ignorare. È la tendenza a minimizzare, a voler far finta di niente, a dire che il razzismo è altro, che si è ossessionati dal politicamente corretto come una stupida forma di cosmesi.
Perché si dicono queste cose? Un po’ per non scontentare nessuno, un po’ perché spesso in Italia prendere posizioni ambigue viene rivendicato come un segno di intelligenza e non di vigliaccheria. E così a forza di minimizzare si crea un sottile strato di compiacenza. Il razzismo, allora, viene ristabilito come l’ordine naturale delle cose.
Dopo la partita Giampiero Gasperini ha detto che il razzismo è altrove. Il semplice fatto che l’Atalanta ha in squadra giocatori slavi (?) dovrebbe far capire che Vlahovic viene insultato perché se lo merita. Non lo ha detto, ma lo ha fatto capire dicendo che «sono cose individuali». Gasperini ha declassato tutto a “maleducazione”, una questione di galateo, equiparando questo tipo di insulti a quando si grida “pezzo di merd*” o “figlio di pu**ana”. Forse faceva riferimento a quando i tifosi della Fiorentina lo avevano insultato al Franchi.
Lui, in quel caso, non l’aveva presa certo bene: «Mia madre ha fatto la guerra per dare diritto di parola a questi deficienti». Era stato meno diplomatico, forse perché non stava parlando dei suoi tifosi.
Ogni volta di fronte al razzismo proviamo disgusto e indignazione, e ci sentiamo impotenti perché in fondo sappiamo che c’è qualcun altro che farà di tutto per minimizzare, per inquinare la dialettica in malafede, per permettere a questi comportamenti di ripetersi come se fossero normali, o quanto meno inevitabili.
Quindi? Facciamo finta di niente?
Di Daniele Manusia
Guardatelo bene. Guardate la concentrazione e l’agilità. Guardate l’importanza che, in assoluta buona fede, dà alle sue azioni. La serietà di un fiero rappresentante delle istituzioni, se non proprio della legge quanto meno delle regole. Siamo a metà del 98esimo minuto di gioco, Doveri è stanco quanto i calciatori in campo e comincia il suo scatto dal limite dell’area di rigore juventina, insegue Vlahovic e Chiesa come i difensori dell’Atalanta e quando l’azione finisce, con la palla sotto l’incrocio, è arrivato al limite dell’area opposta.
A quel punto indica il centro del campo, il punto di battuta, ma subito cambia direzione e - come un bigliettaio che insegue un ragazzino che ha scavalcato i tornelli della metro - taglia la strada a Dusan Vlahovic, che forse avrebbe voluto esultare sotto la curva avversaria. Si frappone tra calciatore e curva, a protezione della seconda, dei sentimenti, dell’irritabilità dei tifosi.
Meno di dieci minuti prima, quando il pubblico aveva iniziato a offendere Vlahovic, l’arbitro aveva chiesto sì di passare l’annuncio (la minaccia di sospensione della partita) ma aveva anche chiesto a lui di non rispondere alle offese, con la faccia dura e severa che comunicava il solito paternalismo italiano perché ok, loro ti stanno chiamando zingaro, ma te comportati bene altrimenti significa che te le cerchi.
Alla fine, anche se Vlahovic poi non è andato sotto la curva bergamasca, dato che si era portato l’indice alla bocca immediatamente dopo aver infilato la palla all’incrocio, Doveri infervorato dalla propria passione per la burocrazia lo ha ammonito.
Il gesto tecnico di Doveri, la corsa a fermare Vlahovic in anticipo sull’infrazione, tipo Minority Report, è stato lodato dall’esperto di arbitri e regolamento Luca Marelli, che in fase di commento post-partita ha parlato di «opera di prevenzione» e poi, su Twitter, si è difeso dalle critiche dicendo di aver «evidenziato un gesto a tutela dell’ordine pubblico». Chi lo sa, magari sarebbe scoppiata una rivolta di piazza in nome dell’odio per Vlahovic, una rivoluzione razzista pronta a sovvertire l’ordine borghese e liberale (sembra sciocco, ma ci sono tifosi che ci vedono davvero una forma di ribellione nei cori razzisti quindi magari ha ragione Marelli).
Questo è il punto in cui siamo, dopo anni in cui parliamo di razzismo negli stadi. Siamo sempre alla mano di Bonucci sulla bocca di Balotelli. Siamo sempre a «il razzismo vero è una cosa seria» (Gasperini). Siamo sempre a «sono cori che vanno ignorati» (Allegri). Come si spiega questo atteggiamento? Perché l’unica risposta che siamo riusciti a dare di fronte a un problema che si è ripetuto così spesso, e per così tanto tempo, è far finta di niente? Dovremmo essere degli esperti in materia e invece cadiamo ogni volta dalle nuvole.
La mia impressione è che in Italia si sia deciso di lasciar perdere perché se un numero così grande di tifosi è razzista che ci possiamo fare? Come se fosse diventato ormai parte inevitabile dell’esperienza di chi va allo stadio a tifare la propria squadra e l’unico vero problema siano le vittime. Che comunque sono poche e si fa sicuramente prima a impedire a Vlahovic di correre sotto alla curva che far smettere la curva di chiamarlo zingaro.
Allora mi è venuto in mente un film che ho visto poco tempo fa: R.M.N. del regista rumeno Christian Mongiu. Dove, in un paesino della Transilvania, si crea un caso intorno a tre lavoratori dello Sri Lanka in una panetteria industriale. Il prete del paese li caccia dalla chiesa perché se la maggior parte dei credenti non li vuole in chiesa cosa ci può fare. Poco importa che siano dei pessimi cattolici, il prete va persino a parlare con la proprietaria della panetteria chiedendole di “tenere conto” del volere della massa.
La proprietaria, d’altra parte, ha fatto venire legalmente quei due lavoratori solo perché doveva chiedere i fondi europei per aziende sopra i 30 dipendenti e paga così poco che nessuno nel paese voleva lavorare per lei. Anzi, il paese si svuota, le persone emigrano. E in Germania sono loro quelli discriminati, è a loro che danno degli “zingari”, anche se loro stessi gli zingari non li amano e anzi se ne vedono uno lo cacciano dal villaggio.
(Sono situazioni che hanno persino dei risvolti comici. Gasperini, per minimizzare, ha mischiato nella stessa “etnia” Vlahovic con Djimsiti con Pasalic con Ilicic, ovvero un serbo con un albanese con un croato con uno sloveno, nessuno dei quali “rom”. Sarebbe interessante anzi chiedere ai giocatori di Gasperini che ne pensano delle sue parole, magari potrebbero spiegargli che nei paesi dell’est Europa il razzismo nei confronti dei rom è persino più forte che da noi).
In una scena molto bella di R.M.N. i cittadini fanno una petizione per cacciare i lavoratori dello Sri Lanka e ne discutono in una specie di consiglio cittadino e non si vergognano che le loro motivazioni siano esclusivamente razziste - “mettono le mani nel nostro pane”, “portano le malattie” - proprio perché l’alternativa sono le ragioni e l’ipocrisia del capitalismo.
Ecco ho l’impressione che sia questo il punto in cui ci troviamo veramente. Che c’è il razzismo e i messaggi vuoti contro il razzismo. Ma dire che i tifosi, gli ultras, non possono capire, che non ci si può fare niente perché si considera il razzismo quasi alla stregua di una legge di natura, una tradizione italiana, è solo un modo per deresponsabilizzare i commentatori, gli allenatori, i giornalisti, le istituzioni.
Sono loro che dovrebbero dare una risposta chiara, invece sembrano altrettanto confusi su quali valori siano prioritari - viene prima il rispetto delle regole o il rispetto delle persone? - e in alcuni casi nascondono semplicemente la propria ignoranza dietro quella dei tifosi. Questo mi pare un problema persino peggiore di una curva intera che chiama zingaro un giocatore avversario.
Perché mettiamo davvero che la maggior parte dei tifosi di un settore dello stadio o, perché no, dello stadio intero, siano razzisti: che facciamo, facciamo finta di niente, accettiamo passivamente di essere diventati una società apertamente razzista? Anzi, ci vogliamo impegnare ancora di più per evitare di provocare la sensibilità dei razzisti? Vogliamo mettere delle regole, delle leggi, magari, per andare incontro ai razzisti, che ne so facciamo entrare i giocatori con la pelle nera in campo a testa bassa, gli imponiamo di chiedere scusa dopo i gol anziché esultare?
E queste regole, queste leggi, come vogliamo chiamarle? Io un’idea ce l’avrei…