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Volevamo tutti bene a Carlo Mazzone
20 ago 2023
Ricordo di un'icona del calcio italiano.
(articolo)
13 min
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Il 27 novembre del 1994 la RAI trasmetteva la partita in chiaro. A ripensarci oggi, mi sembra inverosimile, un ricordo deformato dal tempo. Era pomeriggio e si giocava il derby di Roma, e per ragioni di ordine pubblico, in effetti, i cittadini del Lazio potevano guardare la partita in chiaro su Rai 3. A casa non avevamo abbonamenti alla pay tv: costavano molto e mio padre era nel mezzo di un periodo di disamoramento per il calcio e per la Roma. Avevo 6 anni e mi dichiaravo tifoso giallorosso per burocrazia familiare, ma di fatto non avevo mai visto davvero una partita della mia squadra. La sensazione di cosa fosse il calcio, e di cosa fosse la Roma, era larvale e misteriosa.

Qualche mese prima, però, c’erano stati i Mondiali. Roberto Baggio aveva sbagliato il suo rigore e forse in quel momento, attraverso quelle lacrime, avevo cominciato a sviluppare quella specie di sentimento nodoso che ci muove verso il pallone. All’epoca era ancora qualcosa di puro e incomprensibile. I traumi e le delusioni non si erano stratificati e non capivo nemmeno cos’era, di preciso, che doveva farmi ansimare per undici giocatori vestiti allo stesso modo.

Quel giorno, per la prima volta, questa cosa indefinita prende una forma riconoscibile.

Undici maglie della Roma compaiono sul prato verde, undici maglie giallorosse, davanti ad altre undici maglie biancocelesti. Le maglie della Roma chiuse sul collo da leziosi laccetti, lo sponsor Nuova Tirrenia, il mullet di Daniel Fonseca che dondola sulla fascia, un cross e il colpo di testa di Abel Balbo. La partita era appena cominciata e la Roma era già andata in vantaggio. La vita da tifoso sembra facilissima. I ricordi sono un sottosuolo limaccioso ma ricco di schegge di felicità. L’azione ubriacante di Moriero sulla fascia destra nel gol di Cappioli, la faccia di Signori sformata dalla maschera protettiva; la rete dell’Olimpico che si gonfia a dismisura dopo i gol, come le bolle di lava delle lampade. E poi le corse, le braccia larghe, i baci alla Curva Sud. Le esultanze enfatiche e disperate. L’estasi di Santa Teresa di Cappioli, che dopo il gol crolla con le ginocchia sul prato. La corsa tronfia ed elegante, da capobanda, del Principe Giannini, quella a torso nudo di Fonseca, col suo petto gracile da uccellino, la maglia accartocciata e sventolata. La gioia cupa di un calcio forse più romantico ma anche più violento. Non la violenza ovattata e capillare dei social network, ma la violenza di un mondo in cui la fede calcistica occupa una parte vasta dell’identità delle persone e i discorsi corrono nei bar, negli uffici, agli angoli delle strade. Di un’idea di Roma e Lazio più intime e anche più misere e più grandiose. Gli articoli dei giornali sul frigo dei gelati vengono decriptati come sacre scritture e in quei giorni prima del derby, sui giornali, si dicevano cose molto semplici: la Lazio è più forte della Roma, Zeman è un allenatore migliore di Mazzone. Più aggiornato, più divertente, più contemporaneo. Zeman stringe gli occhi e tira lunghe boccate di Merit. Emana un fascino orientale alla Bruno Ganz in Pane e Tulipani. Mazzone invece è calvo da vent’anni, leggermente sovrappeso, la bocca stretta. L’aria sempre stressata di chi ha un genitore anziano a cui badare. Arrivati a quel novembre la Lazio ha già segnato 21 gol in 10 partite; erano stati 5 la settimana prima al Padova. Si dice che possa farne 7 o 8 alla Roma.

Mazzone è orgoglioso, è furbo e soprattutto odia la sconfitta. «Voleva vince, voleva vince sempre» dice di lui Claudio Ranieri, nel documentario Come un padre dedicato a Carlo Mazzone. Il martedì entra nello spogliatoio e mostra i titoli dei giornali ai suoi giocatori «La Lazio di Zeman asfalterà la Roma di Mazzone». Il giorno dopo porta altri giornali«La Roma sfavorita contro una grande Lazio»; «Gli undici biancocelesti superiori ai giocatori della Roma». E così fa fino al giorno della partita, caricando all’inverosimile una squadra composta da una quindicina di giocatori romani e romanisti. La RAI intervista dei tifosi fuori dall’Olimpico. Un laziale che ancora non ha imparato la scaramanzia dice: «Nun c’è partita. Da una parte c’è Zeman e dall’altra Mazzone. Uno fa giocare e l’altro è un catenacciaro». Una Roma provinciale, dalle ambizioni modeste, o comunque non ancora esplose, che quel giorno vince 3-0.

Ricordo le panche di legno duro del salone di casa, la scenografia della mia passione sportiva. Ricordo il televisore massiccio, il sorriso contenuto di mio padre e la corsa di Mazzone sotto la curva sud, col cappotto grosso, il pugno agitato. Batte le mani, indica i tifosi e dice «È vostra». «Forse con quel gesto mi sono reso ridicolo, ma è la cosa più bella che mi sia mai capitata» dice dopo la partita. Non era la prima corsa fatta sotto la curva, gli era già capitato ad Ascoli. Non sarà l’ultima, gli capiterà ancora a Brescia, quando non correrà sotto la propria curva ma incontro a quell’avversaria dell’Atalanta, stringendo i pugni e digrignando i denti, mentre un suo collaboratore prova a trattenerlo in affanno. Un meme prima dei meme, ma anche un’immagine poderosa del calcio che Mazzone rappresentava. «Mi è stata toccata la cosa più bella che ho avuto nella mia vita, mia madre. E poi la mia città» spiegò anni dopo.

Le sue corse sotto ai settori non erano un gesto istintivo. Mazzone le studiava e preparava, riservandole ai momenti speciali. Un regalo che si concedeva, e che per lui rappresentava l’apoteosi del calcio: l’incontro con i tifosi. Durante la partita, dentro lo stadio, Mazzone sembrava scomodo al centro del palcoscenico. Entrava in campo tutto imbacuccato. Il cappotto Asics tirato fin sopra il naso, lo zuccotto calato fino agli occhi, guardava a terra mentre si infila i guanti, più intirizzito dalla tensione che dal freddo. Seduto sulla punta della sedia, la mano “a cucchiara”, pareva gridare le indicazioni direttamente dagli spalti. “Amedeo”. Carboni: “Sì, mister?” Mazzone: “Quante partite hai fatto in serie A?” Carboni: “350, mister”. Mazzone: “E quanti gol?” Carboni: “4, mister” Mazzone: “Ecco, allora vorrei proprio sapere ‘ndo ca*** vai! Torna subito in difesa!”. Recita l’arcinota citazione.

Dentro al campo non cercava l’astrazione concentrata degli atleti, ma amava sguazzare nel caos e nelle contraddizioni emotive delle partite. Non scappava dalle emozioni del calcio, viveva per quelle ed era palpabile. Emanava quella gioia auto-distruttiva - quel far diventare la propria passione il proprio lavoro, e poi la propria catena - che è singolare degli allenatori italiani.

In una recente intervista Massimiliano Allegri ha separato gli allenatori che amano gli allenamenti e quelli che amano le partite. Gli allenatori italiani sono spesso allenatori da partite. Carlo Mazzone era un allenatore da partite. «Corete che venerdì, sabato e domenica arriva mi fratello» minacciava i giocatori. Il fratello era sé stesso, la sua versione maligna. Il doppelganger feroce di Mazzone. Fino al mercoledì nemmeno si faceva vedere, guardava gli allenamenti distratto dalla hall del centro sportivo. «Il giovedì si metteva la tuta e si trasformava» ricorda Pirlo. «C’ho un fratello gemello che fa l’allenatore. Arriva la domenica a mezzogiorno, mi prende il fischietto e mi dice “tu, pedala”».

Circolano in queste ore foto assolutamente iconiche. Foto in cui spesso Mazzone è imbestialito: la bocca più grande di quella dell’orco di Bomarzo, la mano aperta a cinquina e agitata contro la vita. Ha rappresentato l’archetipo dell’allenatore irascibile ma buono e caro. Dell’uomo che cerca di essere ruvido col mondo, ma che non riesce a nascondere del tutto la propria tenerezza. L’uomo alto un metro e novanta che appena arrivato a Roma chiama il capitano Giannini nel suo ufficio per cazziarlo. L’uomo che da calciatore si è rotto la gamba in un derby tra Ascoli e Sambenedettese. L’uomo già calvo a vent’anni. L’uomo che quando entra nello spogliatoio fa calare il silenzio; l’uomo il cui sguardo bisogna evitare almeno nei giorni della sconfitta. L’uomo che però quando torna a casa - e che torna sempre a casa a cena - racconta di essere rimproverato dalla moglie «Perché fai sempre il pazzo la domenica». L’uomo che dopo la corsa sotto la curva dell’Atalanta disse a Collina «Buttame fori, perché me lo merito». L'uomo che poi chiamò subito a casa per chiedere scusa. L’uomo nato il giorno della festa del papà, e che tutti quelli che hanno conosciuto chiamano padre.

Carlo Mazzone ha rappresentato l'idea del padre burbero e dal cuore grande, che agli italiani piace da morire - come dimostra il successo di Chef Cannavacciuolo. Nei suoi gesti è facile riconoscere una romanità dolce, disincantata ma affettuosa. Una romanità da pastarelle al pranzo della domenica, da vetrinetta in salone. L’odore di naftalina negli armadi, l’aperitivo analcolico, il vino dei parenti ciociari, le giacche spesse e i pantaloni morbidi un po’ infeltriti. Il mocassino college nero, le camicie dai colletti ampi, i venti euro “vatte a pia ’n gelato”. La partita a briscola, i pranzi di pesce allo stabilimento di Ostia, i centrotavola all'uncinetto, il baccalà a natale. La chiacchiera molle che si appuntisce all’improvviso sullo scherzo. La battuta un po’ greve, la lamentela fine a sé stessa ma poi smorzata con un “ma nun me lamento”. Quando voleva far intendere che non gli piaceva un giocatore di lui diceva “è un bravo ragazzo”.

Col tempo è diventato chiaro che questi tratti non erano solo quelli di un’icona di romanità ma quelli, più in generale, di una persona per bene. Tutti hanno voluto bene a Carlo Mazzone: ad Ascoli, a Cagliari, a Lecce, a Roma, a Bologna, a Brescia. Nessuno ha un ricordo che non sia d’amore. L’amore delle persone qualunque, e l’amore dei suoi giocatori. Chiunque parli di lui nelle interviste pare illuminarsi, sorride con gli occhi e la bocca. «Non avemo vinto niente ma ammazza le risate che se semo fatti» ha detto andando via da Roma, ricorda Gigi Di Biagio. A marzo aveva compiuto 86 anni e la Curva Sud lo aveva omaggiato con uno striscione: «Non bisogna solo vincere per essere ricordato, dal tuo popolo sarai sempre omaggiato. Auguri Sor Carletto simbolo di tutti i papà romanisti». Lui sui social aveva ripreso la foto e ringraziato i tifosi con frasi irrituali nella loro semplicità, come «Vi voglio un mondo di bene». Non ha mai posseduto un telefono cellulare, ma in questi anni il nipote lo ha aiutato a mantenere una presenza sui social amorevole e mai fuori contesto. Le foto di famiglia, i festeggiamenti per i 60 anni di matrimonio, gli auguri buffi di natale. Il tempo che scorre tranquillo.

Era nato povero, «Non è un segreto. Siccome giocavo a calcio, solo io mangiavo la carne tutti i giorni, e le mie sorelle mortadella. Queste cose non si dimenticano». La sua vita ha continuato a essere modesta. Ad Ascoli durante l’anno, ai bagni di San Benedetto l’estate.

La figura del padre ha oscurato quella dell’allenatore, forse perché abbiamo finito per dimenticare il tempo in cui è stato anche all’avanguardia tattica in Italia, quando è riuscito a trascinare l’Ascoli a una doppia promozione e faceva un calcio leggero, fluido, con la zona. Mazzone ha rappresentato anche l’archetipo dell’allenatore maniacale, che vive per il calcio, trasfigurato fino alla follia. Ci sembra una figura d’altri tempi ma in modo diverso è il tipo d’allenatore che poi sarà Spalletti, Conte, Mazzarri, Simone Inzaghi. Prima di loro, Mazzone è stato spesso sull’orlo di una crisi di nervi. In un’intervista a Repubblica Gianni Mura gli disse di non lamentarsi, «E chi si lamenta? Ma l’angoscia, lo stress, quelli li conosco solo io». Non si fermava mai: programmava anni sabbatici che puntualmente smentiva alla prima chiamata di qualche presidente. Quando sbottava davanti ai microfoni - «Scusa ma me tocco le palle» - lo faceva sempre per i nervi tesi e mai per piacioneria.

Gli piaceva anche litigare. Appena conosceva un giocatore lo chiamava da parte per “sbroccargli”, così, d’ufficio, per vedere di che pasta era fatto. Gli piaceva anche dare un significato alle sue litigate, e interpretare la figura del ribelle, dell’antagonista; diceva di aver sempre mostrato i denti ai grandi signori del calcio italiano. «Non ho mai telefonato il lunedì a nessuno dei grandi presidenti, a nessuno dei grandi direttori dei giornali».

L’emotività con cui viveva la sua professione gli ha appiccicato l’immagine di allenatore naif che non gli apparteneva realmente. Mazzone era ruspante ma conosceva il calcio. Ha iniziato ad allenare nel 1968 e ha finito nel 2006: quasi quarant’anni in cui non è mai sembrato davvero superato. Detiene il record di partite allenate in Serie A. Tra le sue mani sono passati tre dei più grandi geni del calcio italiano: Francesco Totti, Andrea Pirlo, Roberto Baggio. I primi due gli devono lo svezzamento tra i grandi; il terzo è riuscito a mostrarci gli ultimi bagliori, forse i più luminosi, grazie a lui. Ha regalato un bel fine carriera anche a Guardiola e a Signori, raccogliendoli dall'emarginazione del calcio d'alto livello. Non ha mai allenato in grandi squadre, ma sapeva gestire i campioni, anche i più capricciosi. Non li trattava come gli altri. A Baggio concedeva cose che nessun altro gli aveva concesso prima, lo definiva «Un amico che mi fa vincere le partite la domenica». Il "Divin codino" era così legato a Mazzone che fece inserire una clausola per rescindere il suo contratto in caso di esonero del tecnico. La figura del padre, in effetti, si mescolava con quella dell'allenatore. Teneva alla famiglia più di ogni altra cosa, e cercava di avere un approccio famigliare anche nel lavoro. Voleva essere una figura di riferimento, con cui poter parlare e di cui potersi fidare, e domandava fiducia. Telefonava ai genitori di Totti per sapere cosa aveva fatto la sera prima, se era uscito o restato a casa. Diceva a Totti di mollare il motorino, e diceva a Giannini di convincerlo a non comprare il Mercedes.

Era però anche pieno di intuizioni tattiche. Pirlo era un trequartista e con lui diventò un regista, protetto dai gemelli Filippini. Come tutti gli allenatori italiani, l’equilibrio - raggiunto spesso con la somma delle caratteristiche dei giocatori - era la cosa più importante: «Mi piace il tridente, ma guai a farlo diventare stridente». Si lamentava spesso di dover ripartire dai fondamenti tecnici, quando avrebbe preferito parlare di tattica avanzata: «Ma se nun stai stoppa’ il pallone non te lo posso insegna’ io» diceva, forse un po’ dispiaciuto di non aver mai potuto allenare una grande squadra, anche se il suo Brescia ci si è molto avvicinato. «La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica è il pane dei poveri» e lo diceva da povero, ma sapendo che anche i poveri ogni tanto vogliono sedersi al tavolo dei ricchi. Aver allenato Baggio, Totti, Pirlo, Signori o Guardiola è stato il suo grande orgoglio, e sa di esserselo guadagnato. Ha telefonato a Baggio mentre si allenava in giardino col suo preparatore, facendogli vestire la maglia del Brescia, quando il grande calcio lo aveva buttato via come un oggetto logoro e pericoloso.

Dicevano fosse un catenacciaro ma era un pragmatico, si adattava al materiale che aveva («Io come cuoco ho cucinato di tutto e senza mai rifornirmi al mercato delle prime scelte»). Ha giocato 3-5-2 e le marcature a uomo, ma anche 4-3-3 e con la zona. Ad Ascoli la strada che porta allo stadio è chiamata “Via del bel calcio”. Si faceva registrare le partite su videocassetta e tornato a casa, dopo cena, le riguardava per notare gli errori della sua squadra. Non ha mai vinto trofei ma ha ottenuto promozioni e salvezze spesso leggendarie. I presidenti hanno continuato a chiamarlo anche oltre i settant’anni perché raramente sbagliava una stagione.

La sua longevità ne ha forse migliorato la percezione, o forse l'ha solo resa più esatta. In questo paese non siamo d’accordo su niente, ma tutti vogliamo un gran bene a Carlo Mazzone, tutti gli abbiamo dedicato un pensiero di tenerezza. Forse davvero il mondo che rappresenta Mazzone - quel linguaggio, quei gesti, quel modo di vivere il calcio - non esiste più, e oggi ci sembra distante, eppure in qualche modo ancora ci appartiene.

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