A mia madre piaceva Roberto Mancini, perché era bello ed elegante, col ciuffo sempre perfetto, come se giocasse con un pettine nei pantaloncini; per anni mamma ha mimato con le mani i colpi di tacco di Mancini in un modo tutto suo, come se quei colpi di tacco lasciassero scie di profumo.
A mio padre piaceva Attilio Lombardo, perché era pelato come lui e perché a Genova gli avevano dato quel soprannome, Braccio di Ferro, che a papà - marinaio e pescatore - faceva simpatia. A mio fratello, che era (ed è ancora) genoano, di quella Sampdoria non piaceva nessuno. Ad allenarla c’era Vujadin Boskov, che piaceva a tutti. A me piaceva Gianluca Vialli.
Negli album delle figurine degli anni Ottanta eravamo abituati ad appiccicare facce di attaccanti che sembravano davvero troppo adulti per permetterci di immedesimarci. Erano gli anni di Bettega, Rummenigge, Graziani, Virdis, Pruzzo.
Poi arrivò Vialli, dapprima a due dimensioni, con la maglia della Cremonese e quei riccioli neri che parevano quasi cotonati, qualcosa che stava a metà tra i capelli perfetti della pasionaria Angela Davis e il Michael Jackson della copertina di Billie Jean. Vialli, all’epoca, era solo mezza figurina, perché quello era lo spazio che spettava ai giocatori di Serie B.
Quando, nel 1984, lo acquistò la Sampdoria, divenne una figurina intera e poi, grazie a quel po’ di tv che c’era all’epoca un calciatore in carne, riccioli e ossa. M’innamorai subito di quella falcata che sembrava rubata a un mezzofondista a cui era venuta fretta. Ogni volta che c’era un’azione in campo aperto della Sampdoria, da un angolo dello schermo spuntava lui, che portava avanti la palla con una grazia particolare, che si sposava all’urgenza; i calzettoni sempre, rigorosamente, abbassati (in un’epoca in cui i parastinchi non erano obbligatori), la maglia col numero 11 che gli sbuffava un po’, sopra a un corpo da ragazzino - ancora esile - e i pantaloncini tirati su ai lati.
Se rivedete i suoi gol con la Sampdoria, spesso c’è lui che si trova davanti una prateria e poi un portiere in uscita disperata, al limite della propria area: Vialli lo salta sempre rallentando un po’ e poi ripartendo di slancio, come i corridori dei 3000 siepi arrivati davanti alla riviera, l’ostacolo con la pozza d’acqua che rende quel momento della gara un momento speciale.
Vialli giovane leader dell’Under 21 di Vicini che sfiora l’Europeo contro la Spagna, Vialli con i calzettoni abbassati e la falcata libera e leggera, Vialli con il polsino e l’orecchino. Vialli, con l’aria da ragazzo che finalmente corrispondeva all’età da ragazzo sugli almanacchi, era per noi bambini perbene di metà anni Ottanta - né ricchi né poveri, cresciuti in famiglie qualunque, in quartieri qualunque - il massimo della ribellione che potevamo permetterci: e andava benissimo così. Eravamo troppo piccoli per cercarci in campo un idolo maledetto, e avevamo già visto troppi preti, suore e indossato troppe volte la tunica da chierichetto la domenica anche solo per pensare di trasgredire oltre. Vialli era perfetto. E in qualche modo lui stesso certificò quell’idea che mi sono portato avanti negli anni, quando disse: «Io sono cresciuto all’oratorio, come tutti. E come tutti ho imparato a giocare a pallone dai preti, a patto di frequentare anche il catechismo». Insomma, era uno di noi che era passato dall’oratorio, dove eravamo, alla Serie A, che era dove volevamo andare.
Vialli la figurina diventò a tre dimensioni in un giorno che ho cercato di ricordare meglio tirando in ballo mio fratello, il genoano, che ha cinque anni più di me e c’era anche lui, anche se non sopportava la Samp e tutto il resto. Ci siamo detti che c’era il sole e che era primavera inoltrata, o forse fine estate. Ci siamo anche detti che era il 1985, o forse il 1986. Insomma non ci ricordiamo granché, tantomeno il risultato. Ma Vialli ce la ricordiamo.
Era il giorno dell’amichevole Varazze-Sampdoria, a Celle Ligure, dove ogni tanto la Samp andava ad allenarsi. Il campo sportivo era nuovo, e anche se le tribune erano poca roba, a noi - abituati a giocare sulla terra - quel campo verde brillante sembrava Wembley.
Amichevoli così erano un evento, eppure il Varazze le pubblicizzava come una partita qualsiasi sui soliti manifesti azzurri e la scritta della squadra avversaria sempre uguale, che fosse la Sampdoria, appunto, o una squadra di quartiere. Al massimo mettevano - e quella volta l’avevano messo - un foglio bianco attaccato con la colla con una scritta un po’ sensazionalistica e molto provinciale, come faceva il circo quando allungava di un paio di giorni il tour in città. Se andavi a vedere la partita con la tuta delle giovanili del Varazze non pagavi l’ingresso, ti dicevano, e io l’avevo messa. Ma tanto tutti conoscevano tutti, e alla fine non pagava quasi nessuno, tuta o non tuta.
Arrivammo al campo con l’auto di papà, una Lancia Prisma in cui, negli anni, aveva tenuto più tempo tra le mani le sigarette che il volante, e che sapeva sempre di fumo, così una volta usciti sapevamo di fumo anche noi. Parcheggiammo davanti a un’altra macchina che non avresti detto potesse essere di un calciatore. Non avresti detto potesse essere di Gianluca Vialli. Io non avevo ancora dieci anni e, probabilmente, stavo guardando a due metri di distanza la persona più famosa che avessi visto in vita mia.
Accanto a Vialli c’era Pino Lorenzo, un attaccante di belle speranze rimasto due anni in quella Samp che si era abbonata alla Coppa Italia e stava costruendo la squadra che l’avrebbe portata a vincere prima la Coppa delle Coppe e poi lo Scudetto del 1991. Lorenzo scivolerà via senza lasciare traccia, a tal punto che di lui ci si ricorda più che altro per un episodio datato 9 dicembre 1990, quando al 73’ minuto di un Parma-Bologna, entrato da appena dieci secondi, rifilò una gomitata al difensore del Parma Apolloni, rimediando l’espulsione più rapida della storia della Serie A.
In quella giornata di primavera, che però forse era estate, Vialli e Lorenzo furono gentili e si fecero anche scattare una foto completamente inutile, nei loro abiti da paninari con i soldi, davanti all’auto. Nessuno della mia famiglia ebbe il coraggio o la prontezza di infilarmi tra loro due, e così per anni girò per casa questa fotografia che non voleva dire niente, e che al massimo era la testimonianza dei due autografi rimediati su un piccolo bloc notes. Mentre Vialli firmava l’autografo gli dissi che giocavo con i calzettoni abbassati come lui, che volevo diventare lui. Forse rispose qualcosa, ma ero troppo concentrato su quel che dicevo io, come quando ti presenti a qualcuno e ti concentri così tanto sul dire bene il tuo nome che poi il suo non lo senti mai.
Poi arrivarono le qualificazioni agli Europei del 1988, un torneo dove l’Italia non riusciva quasi mai a entrare. Vialli la trascinò di peso con una doppietta contro la Svezia in uno dei quei sabati pomeriggio che ora non esistono più e in cui la Nazionale giocava partite decisive appena dopo pranzo.
Euro ’88 fu il primo torneo in cui ero abbastanza grande da capirci qualcosa, e Vialli era la nostra stella. Il suo gol alla Spagna, in cui sfrutta un velo di Altobelli, aggira il proprio marcatore e poi calcia in diagonale di sinistro battendo Zubizarreta è uno di quei gol generazionali che - per chi c’era, o aveva l’età per ricordarselo - vale il cucchiaio di Totti o la sassata di Balotelli contro Neuer. Quella rete diceva che avremmo avuto una squadra difficile da battere a Italia ’90 e anche un attaccante capace di farci sognare. Non andò così, per la Nazionale, che trovò il modo di farsi battere, dall’Argentina, senza perdere mai, e per Vialli, che s’infortunò calciando (e sbagliando) un rigore con gli Stati Uniti, lasciando via libera al mese da predestinato di Totò Schillaci.
Io, romanista, nel frattempo mi ero innamorato di Rudi Voeller. Ma tifare una squadra lontana da dove vivevi negli anni in cui le tv ancora non avevano accesso alle dirette (che inizieranno solo nel 1993) voleva dire “accontentarsi”. Per chi voleva il calcio dal vivo e viveva a pochi chilometri da Genova c’erano il Genoa di Scoglio e poi di Bagnoli o la Samp di Boskov: abbracciai entrambe le squadre e Marassi divenne un luogo familiare. Il Genoa con mio fratello, la Samp con gli amici doriani, che nel frattempo si erano moltiplicati, insieme ai loro successi: andavo matto per Aguilera, ma Vialli era Vialli. Il suo corpo si stava modificando, la chioma di riccioli neri era sempre più schiacciata, la corsa da siepista si era fatta via via meno agile e più potente, come le sue gambe. Vialli si stava trasformando come la mia infanzia che diventava adolescenza. Segnava gol bellissimi eppure non li sentivo più miei. Erano lontani i tempi della rovesciata all’Empoli, nel campionato 1987-88, quando ricadde a terra dopo l’acrobazia con la stessa leggerezza di un astista sul materasso. Non so perché, ma ogni volta che mi immagino il Vialli dall’estetica più pura, penso all’atletica leggera, come se coi suoi gesti sfondasse la parete del calcio finendo altrove, in uno sport dove della palla non c’è nemmeno bisogno.
Il 15 settembre 1991 ritrovo il mio Vialli in un gol non particolarmente importante in trasferta contro il Bari. Il tiro di un compagno sbatte sul palo, e lui, sul campo bagnato, si tuffa girando quasi su se stesso, segnando uno dei pochi gol di testa rasoterra che abbia mai visto. Anche qui rompe la parete del calcio: il suo è il tuffo disperato del giocatore di baseball che cerca la base, o del rugbista che prova ad andare in meta.
Di tutte le acrobazie che gli ho visto fare in aria - e che ne hanno fatto uno dei massimi esponenti della rovesciata - questa scivolata a pelo d’erba resta la più bella, forse anche perché la più vicina a quel modo di intendere il calcio che si ha da bambini, quando tuffarsi sull’erba o nel fango non ha nemmeno bisogno di un pallone per darti piacere.
Un piacere me lo negò mio papà, nella primavera del ’91, quando portò tutta la famiglia allo stadio per Sampdoria-Legia Varsavia di Coppa delle Coppe. Qualcuno ci aveva regalato dei biglietti. Vialli e compagni avevano perso 1-0 all’andata e avevano bisogno di una vittoria con due gol di scarto. All’inizio del secondo tempo la Samp è sorprendentemente sotto 2-0. Dopo il 2-1 di Mancini, papà cominciò a premere per andare via, ma mancava quasi mezz’ora. Certo, avrebbero dovuto fare tre gol per qualificarsi, ma a me bastava solo vederne uno di Vialli. La Samp colpì pali e traverse, si vide negare un paio di rigori. A due minuti dalla fine, nonostante la mia resistenza, i miei genitori mi trascinano via. Appena rientriamo nella pancia dello stadio, sentiamo un boato: ha segnato la Samp, ha segnato Vialli. Io mi arrabbio come solo un ragazzino sa fare, protesto, dico che non si fa così. Giurerò a me stesso che non me ne andrò mai più da uno stadio prima del novantesimo, e così ho fatto finora, anche davanti alle sconfitte più cocenti. Tengo il broncio per tutto il viaggio nella macchina che sa di sigarette. Quando arriviamo a casa mio padre mi dice che possiamo aspettare quel gol in qualche telegiornale se proprio ci tengo tanto. Ma io volevo vederlo allo stadio, e così nei giorni successivi eviterò quella rete come si evita a quell’età lo sguardo della ragazza che ti piace. Deciderò che non lo voglio più vedere, quel gol, e cosi è stato.
Da quella partita tutto sommato marginale, poco importante per la Samp - che quell’anno vincerà lo Scudetto - e anche per me, romanista, che quell’anno vivrà la gioia di una Coppa Italia vinta, proprio a Genova contro la Sampdoria, e l’amarezza di una finale di Coppa Uefa persa (contro l’Inter) sono passati quasi 32 anni. Dentro ci sono un sacco di vite. Due, soprattutto.
Ora che papà non c’è più, che Vialli non c’è più, ho pensato che certe promesse che facciamo a noi stessi non devono per forza essere per sempre. Alcune hanno la data di scadenza. E allora sono andato a vedermelo quel gol perduto e poi evitato: Vialli dribbla un avversario poco dentro l’area, all’altezza del vertice destro - proprio sotto a dove avremmo dovuto essere seduti noi, se non ce ne fossimo andati - si accentra rientrando sul sinistro e calcia forte verso il secondo palo. La palla rimbalza a terra e passa tra le braccia del portiere, un certo Szczesny (il padre del portiere della Juve), ed entra in porta: è gol. Gol di Gianluca Vialli.