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Il volo di Clyde Drexler
06 dic 2022
La storia di una stella trascurata dai telescopi.
(articolo)
27 min
(copertina)
Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images
(copertina) Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images
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“Qualche volta riesci a catturare l’orso, più spesso è l’orso che cattura te”

Clyde Drexler dopo aver rubato un pallone a Michael Jordan

Come avviene in natura, forse anche nel basket nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma. La prima volta che il pubblico fa la conoscenza con lo step back è nella stagione 1980-81, quando il rookie Kiki Vandeweghe dopo vari esperimenti diede alla luce il movimento, diventato celebre nella pallacanestro contemporanea grazie a Steph Curry e James Harden. Quella in uso ai giorni nostri è un'evoluzione velocizzata e semplificata, ottimizzata per valorizzare ogni isolamento e andare a braccetto con ritmi sempre più frenetici. La paternità di questa scoperta va condivisa con Larry Bird che aveva abbozzato una routine simile tra le mura della sua alma mater, la piccola università di Indiana State. Il numero 33 (scartato da Portland nel Draft 1978) modella invece il concetto moderno di fade away, cristallizzato e reso leggendario da Michael Jordan e la sua innata capacità di cogliere l’attimo fuggente.

Vandeweghe nel 1989 è ormai al tramonto e i Trail Blazers decidono di metterlo alla porta, provocando la reazione furente del leader in pectore Clyde Drexler. Kiki è uno dei motivi per cui Portland nel 1984 ha preferito Sam Bowie al giovane Jordan, ma è con questa cessione che prende inerzia un domino che si traduce in un periodo aureo per la franchigia in Oregon. Ed è anche grazie alle sue skill balistiche e un costante tutoraggio se Drexler è uno dei migliori giocatori della lega quando gli anni Novanta irrompono nelle nostre vite. Senza arrivare a scomodare la teoria dei sei gradi di separazione, le similitudini tra "The Glyde" e sua maestà "Air Jordan" sono molteplici e le sliding door della carriera che li accomunano sono la prova empirica che incrociare i flussi non sempre è una cattiva idea. Se il basket odierno è una forma di atletismo che si eleva a forma d’arte, il numero 22 ha contribuito significativamente.

La mistica del Phi Slama Jama

Come nelle migliori tradizioni, la carriera liceale di Drexler conosce l’onta di un taglio che rischia di allontanarlo dalla pallacanestro. Coach Clifton Jackson è il responsabile dei provini alla Sterling High School e rimane impressionato dalla forma di un ragazzo che non va oltre sei flessioni in luogo delle 25 richieste. Valuta il trasferimento mentre mastica amaro e trascorre i primi due anni giocando con buoni risultati nella formazione di baseball come prima base. Scottato dalle critiche, Drexler comincia ad allenarsi con intensità, a frequentare la sala pesi e si diletta a riprodurre le schiacciate che ammira in televisione nei playground di Houston. Alla vigilia del terzo anno sfiora i due metri e in particolare registra un aumento di quasi 10 centimetri di altezza nel periodo estivo, tanto che alla ripresa delle lezioni i compagni stentano a riconoscerlo. Si guadagna il nomignolo di "The Glyde" (ovvero “Il Veleggiante”) proprio nei campetti dove si costruisce una solida reputazione da cosplayer di Julius Erving. Scortato dal fratello maggiore nei meandri della città, investe il tempo libero in lunghe sessioni di gioco che affinano il suo istinto primordiale nell’uno contro uno. Sviluppa uno stile lineare che mette al servizio di mezzi atletici fuori scala che assecondano le improvvisazioni di stampo jazzistico quando attacca il ferro. A dispetto di queste evidenti qualità, disputa per intero solo la stagione da senior e soffre notevolmente la mancanza del basket organizzato.

A complicare il quadro è la carenza di talento e di alternative in squadra sotto le plance, che lo costringono a giocare come centro sottodimensionato facendolo faticare a dimostrare le potenzialità agli osservatori. Drexler accumula numeri impressionanti dal punto di vista statistico ma il suo range di azione appare limitato, quando nel 1980 ottiene il diploma lo cercano con convinzione solo piccoli college come Mexico State e Texas Tech. L’università di Houston è una grande istituzione e presta grande attenzione al talento locale, tuttavia il suo allenatore Guy Lewis non muove un dito per reclutarlo. L’approdo al campus è merito del futuro compagno di squadra Michael Young (fiero rivale nel campionato liceale) che muove i fili con gli assistenti del coach e lo promuove senza sosta. In un paio di guide è indicato erroneamente con il nome di Charles: per gli esperti e per i tifosi è un oggetto non identificato, ma le cose cambiano in fretta. Il roster diventa un'attrazione nazionale proprio grazie a lui, una fantastica pattuglia di ragazzi cresciuti a pochi isolati di distanza (Larry Micheaux, Young, Rob Williams, tutti visti poi in NBA) e la clamorosa addizione del centro africano Akeem Olajuwon, al tempo ancora senza h. La squadra è costruita per correre in contropiede e giocare al limite dal punto di vista fisico, provocando i conservatori che vedono ancora le schiacciate come il male assoluto. Con la crisi e il fallimento della ABA, la NCAA è nel suo massimo momento storico e culla nuove tendenze, ma preferisce l’ortodossia.

Una delle sue schiacciate più memorabili.

Il roster è ricco di personalità carismatiche e sopra le righe (tra tutti spicca Benny Anders), poco inclini alla disciplina, spesso mercuriali. Questi ingredienti, uniti allo stile di gioco considerato provocatorio, genera una pessima fama tra gli scout che fanno gli occhi dolci solo ai margini di crescita di Olajuwon. I "Cougars" arrivano a minacciare l’egemonia delle squadre di football texane e conquistano una copertura stampa degna di una boy band al suo apice. Per migliorare i rapporti con l’esterno, il volto di The Glyde e il suo fare riservato diventano, suo malgrado, l’immagine pubblica dell’ateneo. Il fattore X con i media si rivela presto un boomerang: si esprime miscelando understatement tipicamente anglosassone, sarcasmo e un atteggiamento formale che non accende la fantasia dei giornalisti.

Coach Lewis in compenso ne intuisce dal principio le doti di universalità cestistica: lo allontana dal canestro, ne rielabora i fondamentali e lo trasforma progressivamente in un'ala piccola che assolve al compito di playmaker occulto. Drexler è una perfetta macchina da doppia doppia, il cui tallone d’Achille nelle prime apparizioni è la precisione ai tiri liberi, ma nondimeno le percentuali salgono con lenta regolarità dal 57 al 73% di media. Il gruppo nel suo triennio guadagna il nickname “Phi Slama Jama” che diventa un fenomeno di marketing e si trasforma in una confraternita (con tanto di rito iniziatico) che vive di adrenalina, prepotenze fisiche e di escursioni sopra il ferro.

Dopo un breve periodo di rodaggio raggiunge due Final Four consecutive al secondo e al terzo anno. Cede il passo nel 1982 alla North Carolina di MJ (con una bella prestazione contro James Worthy) e nella finalissima del 1983 alla North Carolina State di Jim Valvano, in una sfida che ha contribuito a cementare il concetto di March Madness. I favoriti texani perdono per due punti, imbrigliati da una impeccabile interpretazione tattica dei "Wolfpack" e i suoi problemi di falli che fanno deragliare le certezze del gruppo. Ci sarebbe ancora un anno a disposizione per tentare un altro assalto al titolo ma, tra la sorpresa generale, decide di passare professionista con una stagione di anticipo. La metamorfosi tecnica in esterno forse convince poco gli esperti che non riescono a inquadrare il ruolo da fargli recitare al piano di sopra. Dominare a livello NCAA e aver costretto la stampa a sfornare neologismi a getto continuo per descrivere le sue giocate non è detto che paghi dividendi. Il Draft è dominato dalla figura di Ralph Sampson, eppure Drexler è certamente il miglior giocatore della classe 1983, con ampio margine sugli altri inseguitori, invero non indimenticabili (Byron Scott, Doc Rivers). Eppure precipita al pick numero 14, scontando l’ostracismo verso i Cougars che risparmia l’anno successivo solo Olajuwon. I Rockets dispongono della scelta numero uno e della numero tre: le convertono in Sampson e nello specialista difensivo Rodney McCray che vince la concorrenza del ragazzo locale, con evidente cruccio della fanbase di Houston.

Un goonie alla conquista di Portland

I Blazers si assicurano i suoi diritti su impulso di coach Ramsay (condottiero del titolo 1977), tuttavia la dirigenza è alla ricerca di un giocatore interno e quando cominciano le negoziazioni per il contratto, le trattative sono quasi infinite. Il GM Stu Inman prova a sondare il mercato senza successo: l’ondata di panico derivante dall'introduzione del salary cap blocca sul nascere quasi ogni trade con alta percentuale di rischio. Con un monte salari di 3.6 milioni, investire 200 mila dollari per una matricola, quando la media per i veterani è di 246.000, fa storcere il naso a molti dirigenti. I concetti avanguardisti di flessibilità e di spazio salariale contribuiscono a tenerlo ancorato in Oregon, anche se le perplessità che continuano a inseguirlo non accennano a diradarsi. Firma solo alla vigilia dell’ultima partita di pre-stagione: gli analisti non si fidano del tiro da fuori e delle sue letture, anche se ai "Cougars" ha collezionato oltre 300 assist e ha dimostrato di essere molto di più che un distributore automatico di schiacciate tomahawk.

Alla prova dei fatti ci vogliono solo un paio di mesi per traslare il suo gioco alla NBA, minacciando il posto dei titolari e spingendo molti tifosi a sostenere la causa di un maggiore impiego sul parquet. Ramsay lo utilizza con il contagocce ma respinge ogni richiesta di trade da parte di Drexler, che nel frattempo ha cominciato a far ricredere molti general manager e cerca di affinare ulteriormente le sue skill tecniche. Il roster ha già due realizzatori di peso in Calvin Natt e Jim Paxson, e il tecnico non vuole indispettire i veterani stravolgendo le rotazioni.

Una matricola di spessore.

Al suo primo anno gioca in 82 partite con sole 3 apparizioni da titolare producendo 7.7 punti, 2.9 rimbalzi, 2.0 assist e oltre un pallone recuperato in soli 17 minuti di utilizzo. Dopo l’eliminazione nei playoff a causa di una nuova sfilza di infortuni (una costante in Oregon), la stagione 1984-85 è contraddistinta da numerosi movimenti di mercato per plasmare il roster intorno alle sue caratteristiche. Per allargare il campo e migliorare la fase offensiva arriva il tiratore Kiki Vandeweghe mentre al pick numero due del Draft fa capolino il centro Sam Bowie che precede d'un soffio tale Michael Jeffrey Jordan. Il numero 23 sembra troppo simile a Drexler e Inman non prende in considerazione l’ipotesi di farli giocare assieme, una scelta condivisa da tutti gli uomini nella stanza dei bottoni. Gli Houston Rockets al contrario provano a imbastire uno scambio incentrato su Ralph Sampson per metterli entrambi sotto contratto con Olajuwon: un’operazione che avrebbe stravolto la geografia della lega e, per certi versi, la storia dello sport mondiale. Ramsay pianifica di far vincere a Drexler il premio di sesto uomo dell’anno rimandando la consegna delle chiavi della squadra, ma in primavera lo promuove in quintetto a furor di popolo. Negli ultimi mesi di campionato colleziona 19 punti con 7 rimbalzi, 7 assist e oltre due palloni rubati di media portando a braccetto una completezza di gioco esaltante e la possibilità di dominare il confronto fisico con i pari ruolo. Quello che stupisce è la creatività che sprigiona in campo aperto nonostante il gioco flemmatico dei Blazers: la stampa locale si spinge a paragonarlo a Pablo Picasso costretto a colorare dei libri per ragazzi e restare suo malgrado entro le linee tratteggiate.

Drexler continua a mordere il freno ma le sue prospettive esaltano una città che l’epopea di Walton e il titolo del 1977 ha posizionato sulla mappa della NBA, facendola diventare un modello per i piccoli mercati che soffrono problemi economici e di visibilità. In Oregon hanno fallito in pochi anni la possibilità di scegliere Larry Bird (fu preferito Mychal Thompson, il padre di Klay con la prima assoluta), Michael Jordan e hanno poi assistito al triste declino fisico di Sam Bowie, che dopo un paio di stagioni di sofferenza abbandona i sogni di gloria. Drexler però è il brivido che tiene a galla i sogni dei tifosi anche se i numerosi nervi scoperti alimentano un senso di rabbia che spinge a un profondo rinnovamento. Inman si immola come capro espiatorio e viene sostituito da un tandem che si compone di John Spoelstra (il padre di Erik, già dirigente di lungo corso) e di Bucky Buckwalter. Mike Schuler assume l’incarico di allenatore con la promessa di modernizzare il gioco della squadra e di sviluppare al meglio le risorse disponibili.

Il nuovo coach è un innovatore della fase difensiva, un pioniere nell’utilizzo delle statistiche, ossessionato dai dettagli e pianifica di raddoppiare l’intensità e la qualità degli allenamenti. Al di là dei vari incidenti di percorso nella composizione del roster, Inman lascia in eredità un nucleo solido composto da Clyde, Terry Porter, Jerome Kersey e Kevin Duckworth che assembla sfruttando al meglio pick di scarso lignaggio nel Draft e attraverso gli scambi. Portland inoltre è un riferimento assoluto nello scouting europeo: nel 1985 è stato scelto Arvydas Sabonis, nel 1986 Dražen Petrović e nello stesso anno viene messo sotto contratto il talentuoso Fernando Martín che diventa il primo spagnolo a giocare in NBA.

Lontano dal radar

Drexler è accompagnato da un certo clamore mediatico quando fa l'ingresso nella partita delle stelle nel 1986: al terzo anno è il miglior assist man di squadra (8 di media che lo fanno entrare nella top 10 della lega), recupera quasi 3 palloni a sera (terzo nella NBA), è spesso il miglior rimbalzista, talvolta il marcatore principe anche se il peso maggiore delle responsabilità balistiche è sulle spalle di Vandeweghe. Schuler conquista il premio di allenatore dell’anno al primo tentativo e in un paio di stagioni trasforma un gruppo di belle speranze in una concreta realtà che comincia a fare ombra alle potenze tradizionali e viene lentamente inserita nel rango delle fringe contender. Il coach sceglie un approccio offensivo basato su veloci transizioni in campo aperto che strizza l’occhio allo Showtime dei Lakers, anticipa la mistica del Flying Circus di Jason Kidd ai New Jersey Nets e quello della Lob City di Chris Paul ai Clippers.

Drexler non è un playmaker tradizionale, ma le sue improvvisazioni e le repentine accelerazioni in contropiede appena recuperato il rimbalzo sono il propellente di un gruppo dal buon talento e dalla generosa fisicità. Come per i "Cougars", questa strategia viene metabolizzata con fatica da molti analisti che considerano il pace molto elevato dei Blazers come un indicatore di bassa qualità di quoziente cestistico. Clyde non possiede un arsenale classico di armi d’attacco, anzi quando si lancia verso il canestro mette in scena una sorta di arte marziale: un sistema complesso e fluido di movimenti che non fa prigionieri. Quando si avventura contro la difesa schierata, levita leggiadramente tra le maglie degli avversari e può scegliere con eguale efficacia una conclusione agile al ferro o una schiacciata in grado di scuotere dalle fondamenta il marcatore. Il confine tra un tiro buono e uno cattivo nel suo caso è indefinito: mantiene regolarmente il 50% dal campo con una consumata disinvoltura.

Una rivalità sottovalutata.

I buoni risultati e il rilancio della franchigia, che reagisce alle varie disavventure con un nuovo ciclo, fanno notizia per un periodo di tempo molto breve. Nel 1987 Drexler non viene convocato per la partita delle stelle (compare solo nella gara delle schiacciate), una vetrina che in quel periodo è fondamentale per accattivarsi le simpatie del pubblico generalista e permettere ai giocatori di attirare lucrosi contratti pubblicitari. Il carattere introverso e la sua natura vagamente bohémien sono merce rara in una NBA che sta scalando le classifiche di gradimento e imponendo personaggi di grande carisma; oltre a MJ, Bird e Magic che sono ancora in vetta, si fanno strada Charles Barkley e il gruppo dei Detroit Pistons. Lui non spende risorse per coltivare pubbliche relazioni, non fa mai rumore e sceglie di sua iniziativa degli sponsor di secondo piano (le sue KangaROOS e le sue AVIA sono un cult) che intaccano poco il tempo libero a disposizione. Anche per i compagni è spesso illeggibile e in spogliatoio viene ribattezzato l’uomo conchiglia per l’assoluta impermeabilità verso l’esterno e la intransigente riservatezza.

In compenso si allena con grande etica, è uno dei giocatori che presta maggiore attenzione alla preparazione fisica e passa tutte le estati nella palestra privata di Kiki Vandeweghe per migliorare la meccanica di tiro e il trattamento del pallone. Schuler si rivela una eccellente basketball mind ma è corrosivo: rimprovera aspramente i suoi giocatori in pubblico e il numero 22 è il bersaglio di riferimento. Secondo molti critici è anche grazie al fuoco sacro del coach se i Blazers vanno oltre i pronostici e il suo leader tecnico alla fine degli anni ‘80 sgomita con entusiasmo per entrare nel salotto buono dei primi cinque giocatori della lega.

Vive da separato in casa, ma viene travolto positivamente dal senso d’urgenza di un allenatore che lo convince persino a schiacciare delle palline da tennis al rientro dalle trasferte per affinare la sensibilità dei polpastrelli. A febbraio del 1989 quando il gruppetto dei giocatori scontenti raggiunge la doppia cifra, la dirigenza non può fare altro che procedere al licenziamento in favore di Rick Adelman, forse l’assistente più in sintonia con Drexler. Per buona parte della comunità NBA che si esprime per bocca di Don Nelson è il principale responsabile del fattaccio, ma il volto della franchigia non si lascia coinvolgere in polemiche. Per gestire personalità esuberanti come quella di Terry Porter ha bisogno di aiuto da parte del nuovo timoniere che dal principio si impone su un gruppo turbolento. Adelman deve ammortizzare gli effetti della trade Vandeweghe (necessaria per dare minuti Jerome Kersey), bilanciare il numero di tiri della sua stella che sfiora i 30 punti per partita e fa ombra ai vari senatori, lanciare Cliff Robinson e Dražen Petrović che firmano nella offseason di qualche mese dopo. La stagione successiva si apre con un 12-3 che spiana la strada a una cavalcata esaltante: i Blazers sfiorano le 60 vittorie e bilanciano magistralmente un quintetto con due lunghi (il tandem Buck Williams-Kevin Duckworth) con le corse in transizione di "The Glyde" che ormai ha fatto del contropiede un’espressione artistica. Gli infortuni nei playoff (come al solito) sconvolgono parte delle alchimie di Adelman, in modo particolare un problema alla mano di Duckworth rischia di rimandare ancora la scalata alla vetta. Dopo vari momenti difficili nella serie contro i San Antonio Spurs che dominano le plance con un giovane David Robinson e forzano la settima partita, i Blazers salgono di livello e non si voltano più indietro. Conquistano agilmente il titolo della Western Conference contro i Phoenix Suns e tornano in finale NBA a distanza di 13 anni dall’ultima volta, per affrontare i campioni uscenti dei Detroit Pistons da underdog di indiscutibile lusso. La qualità è palese, ma a difettare è l’esperienza.

Il gruppo capitanato da Isiah Thomas è molto profondo e affronta in modo chirurgico i momenti chiave delle partite. Portland riesce a strappare gara-1 in trasferta per poi cedere nelle quattro partite successive che sono in ogni caso molto tirate. Drexler chiude la serie con 26.4 punti, il 54.3% dal campo, 7.8 rimbalzi, 6 assist e quasi 2 palloni recuperati, cifre che non rendono giustizia al contributo complessivo. Queste finali promuovono il suo status mediatico a livello nazionale e con grave ritardo proiettano la sua immagine all’interno dell’olimpo della lega. Fino a questo momento è quasi sempre rimasto lontano dalle foto di gruppo dei migliori: un anno prima che Jordan entri definitivamente nel gotha NBA riprendono vita i paragoni tra i due che indispettiscono molto "His Airness". Il lavoro con Kiki ha trasformato il suo jumper in un'arma di un certo spessore: se nelle prime annate solo il 20-30% della produzione offensiva era frutto di tiri in sospensione, adesso le difese sono costrette a onorare anche il tiro da fuori. Il rapporto tra coach Adelman e Petrović non decolla nonostante la buona chimica con il resto della squadra, e per fornire più opzioni nel backcourt Portland acquisisce il veterano Danny Ainge dai Sacramento Kings. A conti fatti lo scudiero di mille battaglie di Larry Bird e Kevin McHale prende il posto del croato che viene scambiato qualche mese dopo ai New Jersey Nets. La sintesi tra il feroce integralismo tattico di Schuler, la versatilità del roster e i pazienti aggiustamenti del nuovo corso tecnico hanno prodotto una delle squadre più competitive della NBA: nel 1990-91 si punta in alto.

Flow Offense.

Al vertice della carriera

Gli anni di relativo anonimato hanno inciso sull’approccio di Drexler che comincia a curare la sua immagine in modo più assertivo e consapevole. Uno dei problemi più spinosi è quello del contratto: la scelta di un accordo pluriennale alla metà degli anni Ottanta lo ha trascinato in una situazione simile a quella ben più famosa e chiacchierata di Scottie Pippen. La franchigia nel frattempo è stata acquistata dal facoltoso Paul Allen, più che mai determinato a risolvere la questione nel rispetto del salary cap: viene pattuita una estensione di 12 mesi con uno stratagemma battezzato balloon (palloncino) per la sua natura ascensionale. Nell’ultimo anno del suo accordo riceverà quasi 9 milioni di dollari (al momento della firma il compenso più alto nello sport), una cifra destinata a compensare una media annuale che supera di poco il milione. Il gruppo intanto sembra inarrestabile: la regular season si trasforma in una marcia trionfale di 63 vittorie con una impressionante supremazia a livello di rating offensivo e difensivo. Nei primi mesi di stagione si stabilizza una rotazione di 7 elementi che al di là delle ottime statistiche sembra una macchina quasi perfetta: le strisce di sconfitte non superano le due partite e nessuna squadra sembra in grado di reggere l’impatto fisico quando i beniamini dell’Oregon schiacciano sull'acceleratore. San Antonio, che solo qualche mese prima li aveva messi in ambasce, viene spazzata via con 30 punti di differenziale, e i Lakers capaci di raggiungere 9 finali in 12 anni vengono sconfitti con scioccante disinvoltura in un paio di statement game primaverili che sembrano non lasciare molte possibilità alle speranze dei gialloviola.

La truppa di Adelman non delude nei primi turni di playoff a dispetto di avversarie che vendono cara la pelle: nel primo turno i giovani Seattle Supersonics di Gary Payton e Shawn Kemp vengono regolati in cinque partite, nel secondo turno il leggendario duo composto da John Stockton e Karl Malone riesce a vincere solo una sfida contro avversari che confermano un grande equilibrio e la capacità di giostrare sia in campo aperto che a difesa schierata. La finale di conference si annuncia come una marcia trionfale e il momento del definitivo passaggio di testimone con Los Angeles, tradizionale monopolista della Western. A sovvertire i pronostici ci pensa il “solito” Magic Johnson, che mette in scena la miglior serie della fase matura della carriera. Portland per la prima volta si scopre vulnerabile e dopo un paio di passaggi a vuoto è chiamata alla prova di appello nella decisiva gara-6, una sfida programmata in trasferta con una partita di svantaggio sul groppone. Il match sembra intenso come un incontro di pugilato e prende la direzione degli smaliziati californiani quasi subito. Sull’orlo del baratro, i Blazers cominciano a costruire una rimonta culminata con un pallone recuperato e una schiacciata di Drexler che fissa il punteggio sul -1 a poco meno di un minuto dal termine. I Lakers sono sulle gambe, ma gli avversari sprecano un contropiede 4 contro 1 per un banale malinteso tra Jerome Kersey e Cliff Robinson e all’ultimo secondo Terry Porter indirizza un jumper ad alta percentuale (su passaggio di Clyde che sceglie di non forzare) direttamente sul ferro. In Oregon cominciano processi sommari che durano tutta l’estate, ma sembra ormai evidente che senza una stella di primissima grandezza al fianco del numero 22 sia oggettivamente impossibile replicare la storica impresa del 1977.

La cocente delusione ridimensiona nel giro di pochi mesi l’intero roster dei Blazers che imbocca la strada dell’involuzione e vede diversi componenti chiave fare i conti con un rapido declino. La dirigenza prova a esplorare la possibilità di una trade con qualche talento a relativo buon mercato, ma alla fine conferma in blocco un gruppo che appare svuotato e sembra procedere per inerzia. Il 1991-92 è un anno in cui la squadra si appoggia quasi completamente sulle sue spalle e si lascia trascinare dalla furia agonistica di un protagonista che continua a ricevere poche attenzioni e ha voglia di spaccare il mondo. Quando vengono resi noti i primi dieci nomi per il Dream Team di Barcellona non viene incluso nella lista, un fattore che lo motiva ulteriormente a griffare una stagione memorabile che lo vede primeggiare nelle varie classifiche individuali, assicurando 57 vittorie per i Blazers che restano in vetta alla Western Conference. Arriva secondo nella votazioni per l’MVP dietro a MJ, secondo classificato come MVP dell’All Star Game dietro a Magic che fa il commovente ritorno dopo l’annuncio della sieropositività. In modo particolare la partita delle stelle è un terreno di scontro tra i vari componenti della spedizione di Barcellona che devono ancora canalizzare il testosterone e le ambizioni personali al servizio del collettivo. Il premio di Johnson arriva sul filo di lana e appare il frutto comprensibile di una certa emotività, ma Drexler a torto o ragione si sente depredato. Solo quando viene incluso nella spedizione olimpica nel maggio del 1992 comincia a far scendere il tasso di conflittualità.

Musica maestro.

Nelle file di Portland l’unico giocatore che segue la sua scia in regular e mantiene un impeccabile livello di rendimento è il solito Terry Porter, ma arriva a primavera giocando spesso in condizioni precarie e sempre al limite delle sue possibilità. A fine marzo una distorsione al ginocchio destro rischia di bloccare la sua corsa, ma in accordo con lo staff sanitario della franchigia decide di continuare a scendere in campo anche con la certezza di un problema alla cartilagine. Durante i playoff riesce a gestire il dolore e galvanizzati dal suo esempio anche i compagni si scuotono e si lasciano trasportare dalla sua leadership. Nei primi tre turni si rivede parte della magia dell’anno precedente: i Lakers (privi di Magic) vengono spazzati via e soprattutto nelle complesse serie contro i Phoenix Suns e gli Utah Jazz c’è traccia del vecchio gioco corale che comincia a far sognare anche gli scettici. Le ultime energie fisiche e mentali però se ne vanno per battagliare contro la squadra dei mormoni: quella che si presenta alla finale del 1992 al cospetto di Jordan è una squadra sfibrata che deve gestire le poche risorse con il contagocce. Il numero 23 nel frattempo arriva a questo appuntamento più motivato che mai, deciso a far ricredere i vari analisti che hanno dipinto la meccanica del suo tiro da fuori nettamente inferiore a quella del rivale. MJ in gara-1 dà vita al celebre show con sei triple drammaturgiche e a dispetto delle sei partite complessive con cui si conclude la serie, questo è certo l’atto finale più semplice nell’epopea dei Bulls. In Oregon è finita la benzina.

Gli anni della maturità

Il titolo non spegne la sete di competizione di Jordan che, pur consapevole degli acciacchi del suo fiero avversario, lo prende di mira anche nella preparazione a Barcellona. Solo dopo il tempo passato assieme e numerose partite di golf in solitudine scatta un certa intesa, anche se nel celebre documentario TheLast Dance non se ne scorgono tracce. Il suo rendimento alle Olimpiadi va oltre le aspettative: Drexler chiude il torneo in doppia cifra, tira con il 72% e spesso si assume la responsabilità di cucire il gioco a causa delle condizioni non ottimali di John Stockton. Quando torna dal trionfo olimpico arriva il momento di scendere a patti con il suo ginocchio: nel settembre del 1992 viene finalmente operato per rimuovere i frammenti di cartilagine che lo stanno tormentando ormai da sei mesi. Quando si riaffaccia in campo è completamente un altro giocatore: ha perso quasi tutta la sua esplosività e deve ricostruire integralmente le abitudini di gioco. I Blazers hanno firmato in estate il free agent Rod Strickland nel tentativo di togliere pressione dalle sue spalle ma i vertici della lega sembrano ormai oggettivamente irraggiungibili. "The Glyde" comincia a collezionare una serie di lunghi infortuni muscolari e nel 1992-93 si ferma a quota 49 partite giocate; nell’annata successiva la situazione migliora leggermente ma sta ancora reinventando se stesso e alla soglia dei 31 anni sembra aver imboccato la fase calante della carriera. La città si stringe intorno al suo beniamino, ma ha il cuore spezzato per non aver vinto un altro titolo pur avendo raggiunto due finali NBA.

La proprietà in compenso è meno sentimentale: vuole costruire un nuovo ciclo e mette sotto contratto il GM Bob Whitsitt (architetto dei Sonics di Gary Payton e Shawn Kemp, successivamente dei famigerati Jail Blazers) con l'obiettivo di smantellare il roster delle finali del 1990 e del 1992 in tempi brevi. Quando arriva il momento di discutere il futuro di Drexler comincia una guerra fredda che si trascina per diversi mesi con colpi bassi distribuiti equamente da entrambe le parti. Nel 1995/96 è previsto il pagamento del contratto balloon, ma quando le squadre fiutano il clima e si fanno avanti per una trade, si dileguano subito per il difficile incastro a livello salariale. Non è ancora in voga l’usanza di accumulare spazio nel salary cap per sfruttarlo in un secondo tempo: buona parte dei suoi estimatori arrivano dagli expansion team come Miami che bramano un grande nome per motivazioni più commerciali che sportive. Il giorno di San Valentino del 1995 si arriva al sospirato scambio che manda in tilt i media locali: Drexler viene spedito a Houston per ritrovare Olajuwon in un accordo che coinvolge anche il lungo Otis Thorpe. Si tratta di un'operazione relativamente conveniente per Portland che alla fine decide di dimostrare in modo signorile la sua riconoscenza all’uomo prima che al giocatore, mandandolo nella città che lo ha visto crescere e nella quale, oltre agli aspetti romantici, Drexler sa di poter vincere.

Dopo due anni tribolati la nuova dimensione tecnica è pronta: una costante applicazione gli ha restituito una buona verticalità, la forza bruta e l’imponente muscolatura hanno lasciato spazio a un fisico asciutto e movimenti molto più agili. I Rockets al momento del suo arrivo devono difendere il titolo del 1994 ma faticano a navigare nelle tumultuose acque della Western, nonostante il nuovo arrivato infatti terminano al sesto posto in classifica senza beneficiare del fattore campo nei playoff. Spinti dall’orgoglio, fissati i problemi di natura tecnica, i texani si spingono in una clamorosa corsa in post-season che li vede eliminare gli Utah Jazz, i Phoenix Suns di Charles Barkley e i San Antonio Spurs alle prese con l’ammutinamento di Dennis Rodman. Anche in finale sembrano esserci poche speranze, ma Houston conquista l’anello con un perentorio 4-0 ai danni degli Orlando Magic di Shaq e Penny, incapaci di riprendersi da una grande occasione sfumata in gara-1 con i celebri tiri liberi sbagliati da Nick Anderson.

Drexler ha contributo con la solita versatilità: 20.5 punti, 7.0 rimbalzi e 5.0 assist di media, con un numero praticamente incalcolabile di letture importanti nel cuore dei momenti clou delle partite. Questa versione statica di "The Glyde" evidenzia definitivamente la sua intelligenza cestistica, un fattore messo in dubbio per anni da buona parte della lega, evidentemente intossicata dalle gesta atletiche. I Rockets non riescono più a restare sulla breccia dopo le due vittorie consecutive, ma lui si dimostra ancora valido nelle stagioni successive, anche se nel 1996 è necessaria una nuova operazione alla cartilagine del problematico ginocchio destro.

Abbandona il basket giocato nella stagione 1997-98 quando è ancora il miglior marcatore della squadra (18.4 punti) e il miglior passatore (con 5.5 assistenze). Termina la sua carriera con oltre 20.000 punti, 6.000 rimbalzi e 3.000 assist a referto, statistiche che al momento del ritiro lo fanno entrare in un club che prevede soltanto la presenza di Oscar Robertson e di John Havlicek. Quando appende le sneakers al chiodo risponde all’appello dei "Cougars", getta il cuore oltre l’ostacolo e si siede sulla panchina del vecchio college. Questa avventura dura solo un paio di stagioni difficili che finiscono in archivio con un record negativo di 19-39 e, nonostante le buone premesse iniziali, culminano con le dimissioni. Dopo un prevedibile revival legato alla conquista del sospirato titolo, la sua figura è finita ancora una volta nel dimenticatoio anche per la riluttanza a comparire in eventi pubblici o nei media NBA specializzati.

Al giorno d’oggi divide ancora la sua vita e i suoi affari tra Portland e Houston, frequentando le tribune di entrambe le franchigie. A quanto è dato sapere non si è ancora convinto a guardare una singola puntata di TheLast Dance. In fondo, le rivalità non hanno una data di scadenza e anche il documentario della sua avventura in Oregon, pur neanche lontanamente famoso come quello di MJ, non è affatto male. A pensarci bene, la sua carriera sta tutta qui.

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