Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
La statua di Wade non è la statua di Wade
28 ott 2024
Storia di un errore concettuale.
(articolo)
5 min
Dark mode
(ON)

Ieri i Miami Heat hanno svelato la statua di Dwyane Wade che accoglierà i tifosi all’ingresso dell’arena della franchigia, solo che… non è una statua di Dwyane Wade.

View post on X

Abbiamo già parlato di statue di sportivi fatte male, e il riferimento eterno è il busto dedicato a Cristiano Ronaldo fuori dall’aeroporto Cristiano Ronaldo (oggi rimosso), ma in tutti questi casi il problema fondamentale, o la cosa divertente, valutate voi, era il tentativo andato storto di attenersi alla realtà. Sempre tornando al busto di Cristiano Ronaldo, guardandolo bene era facile trovare in quel quintale o giù di lì di bronzo l’anima del portoghese, la sua espressione strafottente, il taglio di capelli iconico, la promessa di un fisico scolpito. Lì, semplicemente, l’artista non era stato in grado di rispettare il canone classico, di metterci una fronte proporzionata, degli occhi distanti il giusto, dei denti fatti a modo.

Per la statua di Wade, invece, non è possibile. È semplicemente un'altra persona che non gli somiglia neanche vagamente. I due artisti Oscar León e Omri Amrany - autori anche delle statue per Michael Jordan a Chicago e Kobe Bryant a Los Angeles - hanno mancato il senso ultimo della scultura figurativa, ovvero raffigurare, anche in maniera distorta ma riconoscibile, la persona o l’oggetto che si vuole figurare. Sappiamo bene come l’arte non sia più ancorata al reale, e se avessero svelato una scultura in stile Forme uniche della continuità nello spazio avremmo pensato: “sì, cribbio, questo non sarà Wade in maniera realista, ma rappresenta Wade, la sua velocità, il movimento, la sua capacità di sembrare acqua che scorre tra le mani degli avversari”.

Se non avessi mai visto questa statua in vita mia e mi dicessero che è una statua di Wade, direi che a guardarla bene è un bel lavoro, bravi tutti.

Ma non è mai questo, purtroppo o per fortuna, lo scopo dell’arte che chiamerò “sportiva”. Quando si fa una statua fuori da uno stadio o da un’arena non ci sono mai guizzi o riletture: si va dritti verso il realismo, un tentativo di iconografia rivolta ai tifosi che non permette voli pindarici o rischi. Tutto quello che bisogna fare è rappresentare l’uomo nella maniera più fedele possibile, perché è nello sport è l'uomo l'icona.

Qui però l’uomo è sbagliato. «Chi è questo tizio?», ha detto lo stesso Wade al microfono, con la statua alle sue spalle, consapevole di trovarsi davanti a qualcosa che non lo rappresenta, sorridente e imbarazzato. Wade è persona di mondo e subito dopo è stato in grado di mandare giù il boccone amaro e guardare oltre: «È bellissimo. So di essere di parte, ma penso che sia una delle migliori statue mai create per quello che rappresenta per noi e per me».


Paradossalmente Wade è l’unico che potrebbe relativizzare l’errore, l’unico che può guardare al senso profondo del perché le istituzioni costruiscono statue, e cioè non per abbellire una piazza (o in questo caso un’arena) ma per modellare la storia, tramandare un culto, influenzare la memoria (e anche per questo, buttarle giù o almeno sporcarle di vernice è un diritto di chi le guarda, perché non è arte, ma storia).

Magari ci riuscirà, magari non oggi, magari nei prossimi giorni. Certo, nell'era di internet e dei meme sarà difficile riuscirsi a smarcare di tutto quanto sta accadendo in queste ore, di come questa statuta sia diventata virale per quello che NON rappresenta e cioè Dwyane Wade.

View post on X

L’unico elemento che potrebbe farvi pensare a lui, oltre alla maglia, quella effettivamente la sua (ma sbagliare quella sarebbe stato oltre l’ironico) è la posa, con le due dita a indicare il terreno. È l’esultanza “This is my house” (curiosamente simile a un esultanza di Cristiano Ronaldo), nata in un momento memorabile della storia di Wade a Miami, quando mise a segno una tripla sulla sirena per vincere al secondo supplementare una partita contro i Chicago Bulls per 130 a 127. Dopo quel canestro fece quel gesto correndo per tutta l’arena e urlando «This is my house», come a rendere indelebile ed eterno il legame con gli Heat (proprio contro la squadra della sua città).

Era il 2009, ma quale Wade hanno preso (o provato a prendere) come riferimento Oscar León e Omri Amrany? Wade è stato un Heat tra il 2003 e il 2019 (con un breve intervallo a Cleveland e Chicago). Ci è arrivato bambino e se n’è andato adulto. Tuttavia qui sembra quasi più una versione futura di Wade (se proprio vogliamo dire che sia Wade, ma non lo diciamo). Sembra cioè un Wade saggio del futuro (per non dire anziano) con le rughe, una più intuibile che presente barba bianca, la testa calva e il fisico da atleta. Ecco, a me fa pensare a una persona tipo lui.

Forse, vado a tentativi, la volontà degli scultori era quella di sottolineare la longevità dell’amore tra Wade e Miami, l’idea che quel luogo è casa sua e lo sarà per sempre e per questo hanno provato a rappresentare uno Wade ideale, staccato dal tempo e dallo spazio (quindi non il primo Wade, non quello con LeBron e Bosh, non quello che ha perso la sua brillantezza per qualche infortunio di troppo, o quello andato via e poi tornato). Nessuno più di lui è stato importante nella storia degli Heat: è quello che ha disputato più partite (948), è stato in campo più minuti (32.912), segnato punti (21.556), smazzato più assist (5.310), recuperato palloni (1.492). Ancora oggi è un leader della comunità: costruisce campi da basket, aiuta i più poveri, organizza festival, sostiene iniziative LGBTQ+.

Tuttavia, come detto, l'arte sportiva non consente voli pindarici o tentativi profondi. Tra tutti gli Wade di Miami, presenti, passati e futuri, quello da immortalare sarebbe stato quello del 2006, diciamolo chiaramente.

In quegli anni Wade era davvero una statua classica in movimento, una rappresentazione anche troppo perfetta delle possibilità di un corpo. Wade era bello, proporzionato, esplosivo, veloce, sempre in controllo. E con quel corpo ha vinto da giovane e nell'arte la giovinezza è un valore troppo immediato per essere ignorato. Forse per questo la statua non è venuta: come rappresentare in maniera classica un corpo che, a suo modo, si era già fatto arte classica?

Oppure, più semplicemente, rappresentare in maniera fedele una faccia in una statua di bronzo è troppo difficile. E allora dovrebbero smetterla di cercare il realismo e buttarsi oltre anche nell'arte sportiva, chissà che non ne possa nascere qualcosa di davvero artistico.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura