«Alla luce dei recenti avvenimenti nel nostro paese e comunità, annunciamo che i Washington Redskins si sottoporranno a un processo di revisione del nome della squadra». Ci sono volute enormi pressioni sociali, e soprattutto la pressioni decisive di sponsor come Nike - che ha ritirato tutto il merchandising dal sito ufficiale - e di uno come FedEx, nella figura del CEO Frederick Smith, socio di minoranza della stessa franchigia, che spende oltre 200 milioni per mettere il proprio nome allo stadio in Maryland che ospita le gare casalinghe di Washington.
Ma come siamo arrivati a un momento così decisivo per la franchigia della capitale?
Un momento così decisivo che in realtà è arrivato dopo un percorso lungo e difficile, iniziato nel lontano 1972, quando una delegazione di nativi ottenne un incontro con l’allora presidente Edward Bennett Williams per il cambio del nome. Alla fine ottennero solo il cambio di alcune parole nell’inno della squadra - che faceva riferimento esplicito agli scalpi degli avversari. La questione non si è mai sopita del tutto e col tempo è divenuta sempre più politica e mainstream, fino a ricevere il supporto da Barack Obama, più sensibile rispetto ad altre amministrazioni alle questioni delle minoranze.
In diverse occasioni durante i suoi mandati si espose in prima persona affermando che «se fossi il proprietario della squadra e sapessi che il nome della mia squadra, anche se storico, sta offendendo un considerevole gruppo di persone, penserei di cambiarlo». Nel 2015 la sua amministrazione ha addirittura bloccato l’idea della costruzione di un nuovo stadio proprio per la questione del nome.
Non è bastato nemmeno l’aver perso l’uso del trademark del nome e del logo legato ai Redskins, revocato pochi anni fa dall’United States Patent and Trademark Office perché denigratorio per i nativi americani, per far fare alla franchigia un decisivo passo indietro.
Il benaltrismo faceva parte dell’ideologia di Trump già nel lontano 2013.
C’è riuscita invece, almeno stando al comunicato in cima, la rinnovata sensibilità politica sul tema delle minoranze che sta scuotendo gli Stati Uniti in queste settimane.
La violenza nascosta nel linguaggio
Il rapporto tra gli statunitensi e i nativi americani è complicato già dalla loro denominazione. In questa comunità alcuni si fanno chiamare indiani americani, ma è tecnicamente scorretto e figlio della visione culturale dei coloni europei, che hanno cominciato a chiamarli così pensando di essere sbarcati in India. Altri preferiscono farsi chiamare nativi americani, per sottolineare con orgoglio l’antichità delle proprie radici. C’è un problema tecnico: chiunque sia nato sul continente americano è un nativo americano.
La questione è assai delicata anche all’interno delle stesse comunità, ma ci sono due nomi che nell’arco dei secoli sono stati usati con un'accezione dispregiativa negli Stati Uniti: indigeni e pellerossa. Le varie tribù dei nativi, dopo essere state decimate, sono diventate una delle minoranze più dimenticate e meno ascoltate del paese. Come per il movimento Black Lives Matter, le loro sono proteste di lungo corso, rimaste troppo a lungo inascoltate, e che ogni giorno di più stanno ottenendo uno spazio decisivo nel discorso sociale.
Alcuni si chiedono perché le proteste riguardo le franchigie vertano solamente sui riferimenti ai popoli indigeni quando altre squadre hanno adottato nel loro logo o nel loro nome riferimenti ad altri popoli: è innanzitutto un problema di appropriazione culturale. Boston Celtics, New York Yankees e Minnesota Vikings, per citarne tre, hanno scelto di prendere in prestito quei simboli in onore di una minoranza di immigrati che facevano parte dei padri fondatori. È un tributo alle proprie origini. Discorso che non si può applicare a squadre come Cleveland Indians e Washington Redskins.
Come tutte le battaglie sul linguaggio e sui simboli una parte dell’opinione pubblica ha provato a sminuirla. Secondo un sondaggio condotto dal Washington Post 9 nativi su 10 non si sentirebbero offesi dall’uso del termine redskin. Forse secondo quella regola per cui le minoranze oppresse assumono come un vanto le etichette più offensive per renderle innocue. Ma bisogna dire che altre ricerche universitarie, per metodo scientifico più affidabili del WP, condotte da California State University e soprattutto da UC Berkley, smentiscono questi risultati e parlano di una percentuale tra il 49% e il 67% di nativi che ritengono la parola offensiva.
Angelina Newsom, giornalista e nativa americana, ha così commentato - in un articolo chiamato “Dear white people, stop telling Native Americans like me whether we're offended by the Washington Redskins” - il sondaggio del Washington Post: «Non abbiamo bisogno di sondaggi per confermare che gli insulti razziali siano offensivi. Qual è il punto dei sondaggi sull'argomento? Hanno screditato il lavoro degli attivisti indigeni che hanno promosso il cambiamento e il progresso»·
Ma negli anni si sono susseguite varie ricerche sul tema, per capire che tipo di impatto sociale potesse avere l’uso improprio dell’iconografia dei nativi nello sport, arrivando a sostenere che l’uso di immagini stereotipate e storicamente imprecise amplificano una visione distorta delle popolazioni indigene e della loro cultura. L’American Psychological Association nel 2005 ha consigliato la rimozione immediata di qualsiasi forma di riferimento ai nativi in loghi, simboli e mascotte da tutte le università del paese in quanto appunto portatori di malsani stereotipi.
Squadre di tutti gli sport, a tutti i livelli, hanno perpetrato questa forma di appropriazione culturale negli anni, ma perché la bufera si sta abbattendo proprio sui Washington Redskins?
Lo spot per il cambio del nome dei Washington Redskins andato in onda durante le finali NBA del 2014.
Sicuramente perché la definizione Redskins, appunto pellerossa, negli Stati Uniti è offensiva verso i nativi più marcatamente di quanto non lo facciano altri tipi di rappresentazione. Già nel 1898 il dizionario Merriam-Webster etichettava l'epiteto come offensivo. Il presidente della Yocha Dehe Wintun Nation, una delle tribù federalmente riconosciute negli Stati Uniti, ha definito la «r-word dispregiativa tanto quanto la n-word». Ma anche perché Washington si è rivelata la franchigia meno incline a qualsiasi mediazione sul tema.
Radici antiche
Quella che a molti sembra solo una protesta figlia dei movimenti per i diritti civili dell’ultima ora, è invece un tema sensibile sin dal ‘900. Il Congresso Nazionale degli Indiani d'America già negli anni ‘40 si batteva per combattere gli stereotipi veicolati da un certo tipo di iconografia e rappresentazione nei media, e la lotta ben presto si allargò anche allo sport. Insomma sono 70 anni che i nativi chiedono che non si usino più parole come redskins.
Non tutti sanno che era questo era il logo della squadra quando Wilt ne mise 100.
Ma queste richieste non sono rimaste del tutto inascoltate. I Golden State Warriors già nel lontano 1969, durante la relocation da Philadelphia a San Francisco, tolsero dal logo il riferimento a un nativo americano. Nel 1973 l’Università di Eastern Washington cambiò nome, e logo che rappresentava proprio un nativo, da Savages, ossia selvaggi, a Eagles, e nel 1974 stessa sorte è toccata al logo e mascotte del Dartmouth College.
Ma è negli ultimi 30 anni che si sono visti i maggiori passi in avanti. A cambiare sono stati nome e/o logo e/o mascotte di università, anche storiche, tra cui Stanford, Marquette, Oklahoma, Syracuse, Eastern Michigan, St. John's, Illinois, Arkansas State e decine di altri atenei. Persino i Cleveland Indians, l’altra squadra da major league ad avere avuto spesso il dito puntato contro su questo tema, si è mossa prima di Washington nel rimuovere almeno il logo del Chief Wahoo nel 2018, una rappresentazione caricaturale che li accompagnava dagli anni ‘40. Ma anche in questo caso le contestazioni attorno a quel logo erano scoppiate in modo aspro già a metà anni ‘90.
E sempre a proposito di pellerossa, Miami University cambiò il proprio nome, e logo, da Redskins a Redhawks nel lontano 1997: 23 anni fa. Se è innegabile che l’onda lunga delle proteste attorno al movimento del Black Lives Matter stia aiutando anche la causa dei nativi, è pur vero che non sono “capricci” dell’ultimo minuto, come qualcuno vuole fare passare, ma battaglie che vengono portate avanti dagli attivisti di queste comunità, e rimaste spesso inascoltate, da oltre 70 anni. Qualcuno ha cercato di sminuire la portata storica del cambio nome dicendo che a causarlo non è stato un moto spontaneo ma la pressione degli sponsor. Ma forse non c’è sintomo più concreto della radicalità del cambiamento se addirittura grossi sponsor - non di certo l’avanguardia rivoluzionaria della società - si mettono dalla parte dei diritti civili.
Il Caso Kansas City Chiefs
Abbiamo parlato delle squadre che hanno già cambiato nome, ma i Redskins non sono l’unica franchigia di una Major League a usare ancora questo tipo di naming e iconografia e ad avere avuto problemi al riguardo. Se in MLB la questione riguarda i Cleveland Indians (che in queste settimane anche loro seguiranno Washington in una revisione del nome) e gli Atlanta Braves, in NHL abbiamo i Chicago Blackhawks, e proprio in NFL i neo campioni del mondo dei Kansas City Chiefs.
Per ora le controversie su Kansas City si sono abbattute con minore ferocia perché quel Chief nel nome non richiamerebbe i nativi ma solamente il soprannome affibbiato al sindaco Harold Roe Bartle, figura centrale nel portare la franchigia da Dallas al Missouri.
Peccato che Warpaint, il cavallo usato come mascotte fino al 1989, era cavalcato senza sella da tale Bob Johnson, che indossava anche un copricapo nello stile delle cerimonie indiane americane, e che i tifosi della squadra continuino a fare il tomahawk chop (così come, guardacaso, i tifosi degli Atlanta Braves), un gesto che simula l’azione della particolare ascia dei nativi americani. Insomma stereotipi e appropriazione culturale dei nativi fanno comunque parte della tradizione della franchigia.
E nel tempo questi tratti si sono allargati nel mondo sportivo riguardando, seppure con ben altro impatto, anche altre tipi di minoranze come afroamericani, africani, arabi, aborigeni e persino italo-americani.
Una nuova era
Ma quale nome potrebbe adottare Washington? Alcune delle proposte che potrebbe essere sul tavolo guardano al passato della franchigia come Braves (ma saremmo punto e a capo) o Hogs, in riferimento alla nomignolo della potente offensive line che li ha portati a 3 Super Bowl.
C’è chi suggerisce, come fatto appunto da Miami University, di passare a Redhawks per mantenere una affinità prettamente sonora. Altri vorrebbero cambiare il nome ma non allontanarsi dall’estetica, e passare a qualcosa come Warriors o Renegades, mantenendo quindi la semantica dei combattenti togliendo i riferimenti ai nativi.
E c’è chi invece si augura un nome in linea con l'heritage della capitale come Senators (d’altronde esistono già i Washington Capitals) o qualche collegamento agli apparati militari come Generals che potrebbe accontentare un po’ tutti. Qualunque sarà il nome scelto, difficilmente vedremo più il nome Redskins alla ripartenza della stagione NFL. Qualsiasi forma di privilegio perpetrata sulle minoranze ora, quanto meno, non può più essere nascosta. È anche dalla questione dei Washington Redskins che possiamo accorgercene.