Quando un nuovo grande prospetto si affaccia sul grande mondo della NBA, è quasi la prassi che si crei un circolo immediato di hype. Se, ad esempio, un giornalista dice che quel giocatore è bravo, quello dopo deve dire che è forte. Se uno scout dice che è molto forte, quello dopo ancora non può ripetere la stessa cosa, e quindi deve alzare l’asticella un po’ più in su, dicendo che è fortissimo. E via così, mettendo in moto il treno dell’hype che rischia di far deragliare anzitempo la carriera di qualsiasi giocatore.
Nel caso di Victor Wembanyama, però, nell’ultimo mese abbiamo assistito a qualcosa di fuori scala. Che fosse un prospetto come se ne vedevano pochi in giro lo sapevamo già tutti da tempo, specialmente da questa parte dell’oceano dove già da anni si vociferava di lui e in cui le sue scelte di carriera, come quella di passare dal Nanterre all’ASVEL per poi tornare vicino casa ai Metropolitans 92 di Parigi, sono state ampiamente commentate. Ma da quando si è mostrato negli Stati Uniti, con due partite di esibizione disputate a Las Vegas a inizio ottobre contro il G League Ignite Team di Scoot Henderson (l’altro grande prospetto del prossimo Draft), il treno dell’hype si è trasformato in uno space shuttle che è detonato verso la stratosfera.
Per la prima partita sono stati scomodati addirittura Larry Bird e Magic Johnson con il loro incontro in finale NCAA nel 1979. Per la seconda, in cui Henderson si è fatto male quasi subito per una botta al ginocchio, i riflettori si sono accesi tutti su Wembanyama.
Ormai le parole degli addetti ai lavori non bastano più: per descrivere Wembanyama sono scesi in campo direttamente i giocatori, anzi proprio i mammasantissima della NBA, quelli che normalmente non si scomodano nemmeno per quei giocatori che conoscono da anni e magari hanno frequentato i loro camp da ragazzini, figuriamoci un 18enne che viene dalla Francia. Eppure l’apparizione di Wembanyama è stata talmente prorompente da costringerli a esporsi e a commentare il fatto del giorno. Steph Curry ha dovuto rifugiarsi nel mondo dei videogiochi per descriverlo: «Sembra il giocatore che ti crei a NBA 2K, uno di quelli che ha tutti i cheat». Kevin Durant ne ha fatto quasi un discorso darwiniano: «L’evoluzione del gioco ci ha portati fino a questo punto: abbiamo un ragazzo di 2.25 che sa fare tutto in campo». LeBron James, dopo averlo definito un talento generazionale, ha già coniato un nuovo soprannome per lui: «Tutti sono diventati degli unicorni negli ultimi anni, ma lui è più come un alieno». Damian Lillard, sentendosi improvvisamente vecchio dopo averlo visto pur avendo appena compiuto 32 anni, ha detto quello che in molti stanno pensando in NBA: «Sono contento che non rimarrò a lungo nella lega insieme a lui».
Ma cos’è che ha destato così tanta impressione di Victor Wembanyama? Perché, tra tutti i grandi prospetti che si sono affacciati al mondo del Draft, per lui qualcuno ha addirittura detto che se fosse uscito nel 2003 lo avrebbe preso anche prima di LeBron James?
Le misure impossibili di Wembanyama
La prima cosa che colpisce di Wembanyama non può che essere l’altezza, attorno alla quale — come in ogni prospetto internazionale che si rispetti — è già nato un mezzo mistero. Lui sostiene di essere alto 7 piedi e 3 pollici, pari a circa 221 centimetri, ma a piedi scalzi, perciò pur non essendosi mai misurato, con le scarpe da gioco dovrebbe avere almeno uno o due pollici in più, avvicinandosi più ai 2.25. Ma se fosse solo questo, sarebbe ancora nel reame della normalità: se ne sono visti di giocatori, anche molto forti, giocare a quell’altezza in NBA. Quello che ha mandato fuori di testa tutti quanti è che giocatori di quell’altezza di solito hanno problemi di mobilità e/o di capacità di tiro, mentre Wembanyama si muove per il campo come se fosse un giocatore di 20 o 30 centimetri più basso, e sfrutta questa sua mobilità insensata per essere determinante sui due lati del campo.
Di canestri assurdi ne ha segnati tanti, ma quello all’inizio del secondo tempo della seconda partita palleggiando verso l’angolo è un canestro difficile anche per giocatori 40 centimetri più bassi di lui. La capacità di creazione in proprio è quello che lo separa da tutti gli altri lunghi: Wembanyama non ha bisogno di essere messo in azione per essere efficace, è autosufficiente.
Per trovare un termine di paragone bisogna mettere assieme pezzi da vari giocatori del presente e del recente passato. Per le capacità di tiro alcuni hanno scomodato Dirk Nowitzki, che pur avendo rivoluzionato il gioco con le sue doti balistiche dal perimetro agiva più di 10 centimetri sotto l’altezza da cui parte Wembanyama. Per questo altri hanno quindi chiamato in causa Kevin Durant, non fosse altro perché abbiamo ancora negli occhi tutti i giorni quello che è capace di fare ed è quindi un riscontro più immediato, ma Wembanyama ha una dimensione spalle a canestro che KD non ha mai avuto bisogno di sviluppare. Per quanto riguarda la difesa, la comune nazionalità francese ha portato a immediati paragoni con Rudy Gobert per la capacità di coprire porzioni di campo gigantesche anche solo aprendo le braccia (siamo nei dintorni dei 244 centimetri di apertura di braccia: seduto sul sedile posteriore di un’auto può mettere entrambi i gomiti fuori dal finestrino contemporaneamente), ma Wembanyama ha piedi più veloci rispetto al suo connazionale e una fluidità di movimento insensata per quelle che sono le sue dimensioni.
Le dimensioni sono: Gobert non lo guarda neanche negli occhi (foto Garrett Ellwood/NBAE via Getty Images)
Non trovando un corrispettivo immediato tra i contemporanei, alcuni si sono avventurati nel passato. Grazie a Wembanyama forse potremo riscoprire l’assoluta modernità di un giocatore come Ralph Sampson, che non ha avuto la carriera NBA che prometteva di avere in uscita dal college e che, per via del periodo storico in cui è cresciuto, non ha mai potuto esplorare davvero il suo gioco sul perimetro, costretto a giocare in una pallacanestro che imponeva a quelli alti come lui di giocare spalle a canestro. Mettendo assieme tutto quanto, poi, alcuni hanno scomodato persino Kareem Abdul-Jabbar, non solo per il senso di dominio che Wembanyama sembra esercitare in campo, ma anche per gli effetti che sta avendo fuori.
La più grande corsa al tanking di sempre?
Jabbar, al tempo del college ancora chiamato come Lew Alcindor, costrinse la NCAA a bandire le schiacciate per quanto era dominante, cercando così di rendere più eque le partite in cui c’era in campo anche lui. Wembanyama non porterà a un cambiamento del regolamento così epocale, ma in un certo senso ha già cambiato le regole del gioco con la sua sola presenza. Secondo quanto detto da un alto dirigente NBA a Adrian Wojnarowski di ESPN, quella che si vedrà quest’anno sarà «la più grande corsa al tanking nella storia della NBA», e anche se diverse squadre che ci si aspettava come perdenti hanno iniziato sorprendentemente bene (come ad esempio gli Utah Jazz e i San Antonio Spurs), la sensazione è che attorno a gennaio e febbraio molte franchigie tireranno i remi in barca, anche perché la competizione per entrare già solo nel torneo play-in dovrebbe essere nutrita e numerose squadre hanno già ceduto la loro scelta al Draft.
C’è poi un altro aspetto da sottolineare: la grandezza di Wembanyama ha trasceso i confini delle dirigenze o delle tifoserie ed è arrivata direttamente alle proprietà delle squadre, complice anche il fatto che le due partite sono state trasmesse in diretta nazionale su ESPN e la cassa di risonanza della “Worldwide Leader in Sports” (che ha i diritti per trasmettere il Draft e quindi ha tutto l’interesse a creare hype) ha fatto il resto. In NBA ci sono diversi proprietari che non avvallano la scelta di “tankare”, perché i costi che ha una decisione del genere (perdita di interesse del pubblico nei confronti della squadra, quindi minori sponsor e presenza sugli spalti, quindi minori incassi) spesso porta i proprietari a scegliere di rimanere nell’aurea mediocrità di un paio di incassi ai playoff piuttosto che l’oblio dei bassifondi della lega. Ma se dall’altra parte del tunnel c’è un giocatore il cui impatto è già stato stimato in 500 milioni di dollari, allora la musica cambia: un conto è tankare in un anno in cui Anthony Bennett va alla numero 1, e un altro è farlo quando è in arrivo uno pterodattilo per il quale i 28 metri di campo o i 3.05 di altezza del canestro sembrano troppo piccoli per contenerne il talento.
Il commissioner della NBA Adam Silver ci ha messo all’incirca quattro secondi per capire che aria tirava, e ogni volta che ha parlato da quando Wembanyama ha giocato quelle due partite ha fatto capire a chiare lettere che non verrà tollerato un tanking sfrenato e che l’occhio di Sauron dell’Olympic Tower sarà ben vigile nel controllare tutte le situazioni al limite. «Le squadre sono sempre più scaltre e creative, ma come si muovono loro ci muoviamo anche noi per creare un sistema sempre migliore» ha detto con il tono di un professore del liceo che ammonisce i suoi studenti a non provare a copiare “perché sono stato studente anche io a mio tempo”. Il fatto è anche però che non serve essere così pessimi per guadagnarsi una decente chance di arrivare a Wembanyama: con le nuove distribuzioni delle odds della lottery, anche le tre peggiori squadre della lega avranno l’86% di possibilità di non prenderlo. L’importante è stare almeno nei sei peggiori record, che assicurano tra il 9% e il 14% di possibilità di arrivare alla 1, e c’è modo e modo di arrivarci senza necessariamente mettere in campo un prodotto inguardabile.
C’è poi un altro aspetto da considerare: il Draft e il tanking sono paradossalmente uno scenario molto forte per creare un senso di identità tra i tifosi. Il caso dei Philadelphia 76ers del Process è a suo modo emblematico: si hanno meno tifosi, ma quei pochi che si hanno rimangono legati per la vita, e trovano nella speranza di arrivare a uno come Wembanyama un modo per continuare a seguire la squadra. Il tanking, a suo modo, crea identità e abbassa le aspettative: per molti tifosi è quasi più divertente seguire i progressi dei singoli giocatori giovani che vedere l’ennesimo veterano che è lì solo per lo stipendio, accettando di buon grado la sconfitta (anche perché propedeutica al raggiungimento dell’obiettivo finale della miglior scelta possibile, e quindi di un nuovo rookie a cui appassionarsi) pur di continuare a sperare in futuro migliore. È un meccanismo contorto che la NBA vorrebbe eliminare, ma a suo modo funziona — specialmente quando la luce in fondo al tunnel è il miglior giocatore del mondo a non essere ancora sbarcato in NBA.
L’unicità di Wembanyama in campo e fuori
Ok, ma alla fine, questo Wembanyama è davvero così forte da giustificare una reazione del genere da parte delle 30 franchigie NBA? La risposta corta sarebbe un roboante “Ma lo hai visto giocare?”, ma si può e si deve andare anche più in profondità di così. Se la sua altezza, la sua capacità di tiro da qualsiasi distanza e la capacità di essere praticamente in due posti contemporaneamente in difesa sono le prime cose che saltano all’occhio, ci sono poi tutti quegli aspetti intangibili che poi fanno davvero uno sportivo di alto livello. Wembanyama sembra essere molto più maturo dei soli 18 anni che ha, parla già un inglese fluente, ha gestito bene le enormi pressioni e le aspettative che c’erano su di lui, gioca con enorme fiducia nei suoi mezzi perché sa di aver lavorato su quello che prova in campo, e sembra già sapersi muovere come si richiede a un prospetto del suo calibro, anche nei confronti delle superstar della lega — con il giusto rispetto e la giusta deferenza, ma rimarcando comunque la sua unicità rispetto a tutti gli altri.
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«Ho sempre cercato di essere originale in tutto quello che faccio, è una cosa che mi viene dall’anima: essere originale, essere unico. Non riesco nemmeno a spiegarlo, penso che sia nato così» ha detto Wembanyama nelprofilo che il New York Times gli ha già dedicato volando fino in Francia per visitare i luoghi dove è cresciuto.
Come per tutti i giocatori di quell’altezza, è naturale farsi delle domande su come possa fare un fisico di quel genere a reggere gli sforzi e le sollecitazioni che il basket professionistico gli imporrà. Tantissimi giocatori sopra i 7 piedi hanno dovuto fare i conti con problemi di infortuni, specialmente ai piedi (ne sa qualcosa Chet Holmgren, che è già ai box per una frattura prima ancora di aver cominciato la sua carriera in NBA), ed è inevitabile che questo rimanga il dubbio più grosso su Wembanyama insieme ad altri aspetti normali per un 18enne, come una mano sinistra ancora da sviluppare, una certa propensione a saltare sulle finte (vista soprattutto nella prima partita) e una tecnica difensiva sui “drop” difensivi ancora da rifinire. Ma come ha detto recentemente un dirigente NBA: «Se anche si spezzasse entrambe le gambe, lo sceglierei alla numero 1 e aspetterei che rientri». E il fatto che abbia deciso di continuare a giocare, nonostante diversi addetti ai lavori avessero suggerito al suo agente di fermarlo dopo quella partita per non comprometterne lo status di numero 1 al Draft, è stato accolto positivamente. Wembanyama parte da un punto molto alto, ma questo è solo l’inizio di una parabola di cui sinceramente non si può neanche immaginare la fine.