Quando un giovane è promettente e la sua carriera inesorabile di solito si utilizza il termine “predestinato”. Un termine che indica “chi è destinato a un fine particolare, importante”, e fin qui ci siamo, ma che si dimentica di specificare se il soggetto in questione sia cosciente o meno della propria predestinazione. È predestinato solo chi sa di avere un grande talento, chi punta tutte le fiches per raggiungere i grandi idoli del passato, o anche chi in alto ci finisce grazie alla mano invisibile del caso, come se fosse letteralmente predestinato? Weston McKennie, per esempio, da piccolo non voleva nemmeno fare il calciatore. Fino ai sei anni non aveva nemmeno mai toccato una palla tonda, per la verità, perché la sua passione era il football americano. Poi però il padre, un militare, viene dislocato nella base militare di Ramstein, in Germania, dove trasferisce anche tutto il resto della sua famiglia. E così la direzione di McKennie cambia. A Kaiserslautern nel 2004 non esistono programmi di football americano per bambini di sei anni, e allora i suoi genitori decidono di iscriverlo in una scuola calcio, nel settore giovanile del FC Phönix Otterbach. Alla prima partita ufficiale, se così si può chiamare una partita tra bambini di sei anni, segna otto gol.
L’esperienza tedesca di McKennie dura solo tre anni ma tanto basta a lasciare un segno indelebile sulla sua carriera. Non solo perché, tornato negli Stati Uniti, continuerà a giocare a calcio, ma anche perché lo Schalke 04 continuerà a tenere un occhio su di lui, fino a decidere di riportarlo in Germania una volta compiuti 18 anni, acquistandolo dai Dallas. Dietro l’ascesa nel calcio europeo di McKennie, insomma, oltre al talento, c’è sostanzialmente un colpo di fortuna, di cui il centrocampista della Juventus però non sembra curarsi troppo. Ancora oggi McKennie sembra un ragazzo americano qualunque intrappolato nella vita di un calciatore professionista europeo. Quando era ancora allo Schalke 04, ad esempio, dichiarò con un po’ di imbarazzo di non aver mai visto per intero una finale dei Mondiali, raccontando di quando andò a casa di Pulisic il giorno di Francia-Croazia e si mise a giocare a Fortnite. «Ci sono giocatori che dicono “Devo seguire il calcio 24 ore su 24. Se non ci gioco, lo devo guardare. Se non lo guardo, devo dormire con una palla”», disse McKennie facendo intendere che non era quel tipo di giocatore. «Io sono uno di quei ragazzi che preferisce giocare rispetto a guardare».
Quando McKennie è passato alla Juventus nessuno sapeva esattamente cosa aspettarsi, perché la Juventus di solito non punta su giocatori come McKennie (o come ha detto Gianluca Di Marzio qualche giorno fa: «[McKennie] Non è un giocatore da mercato»). Eppure quando si è presentato a Torino lo ha fatto con il candore di chi non sembra cosciente di tutte le incredibili eccezioni attraverso cui è dovuto passare per arrivare fino a quel punto. Quando gli è stato chiesto chi fosse il suo idolo da bambino McKennie ha tenuto a precisare ancora una volta di non guardare molto sport e quindi di non essere sicuro che la sua risposta potesse essere davvero centrata. Poi, senza alcuna esitazione, ha detto Francesco Totti. D’altra parte, ignorare la fortuna e sfidare i tabù sono lussi che le persone di 22 anni possono permettersi (tanto più nella sessione di mercato in cui la Juventus ha acquistato anche Federico Chiesa, evocando tabù ben più dolorosi).
Ma se c’è una cosa ancora più sorprendente dell’acquisto di McKennie da parte della Juventus quella è sicuramente il fatto che McKennie sia diventato un punto fermo della squadra di Pirlo in così breve tempo. Quando è arrivato, proprio perché non sapevamo cosa aspettarci né da McKennie né da Pirlo, l’idea comune era che il centrocampista americano potesse servire al nuovo allenatore bianconero per mettere in pratica l’unico principio che conoscevamo del suo gioco, e cioè il recupero immediato del pallone appena perso. Fermo restando che è un principio che accomuna quasi tutte le più grandi squadre contemporanee, McKennie sembrava avere effettivamente le caratteristiche giuste per aiutare la Juventus in questo senso, essendo l'unico centrocampista difensivo dinamico arrivato a Torino in una sessione che aveva portato in dote anche Kulusevski e Arthur. Un’idea - quella di McKennie come giocatore di fatica che regge sulle sue spalle l’equilibrio di una squadra offensiva - che, d’altra parte, resiste forte ancora oggi se persino uno dei suoi agenti si trova d’accordo nel paragonarlo a Edgar Davids.
In realtà, anche dando uno sguardo superficiale alle sue statistiche difensive ci si rende conto che c’è qualcosa che non va in quella idea. McKennie tenta molti meno contrasti (2.2 per 90 minuti) rispetto agli specialisti della Serie A, come Kucka, Leiva e Sturaro (rispettivamente 6, 5.2 e 4.8 per 90 minuti), pur vincendone molti (1.3), e lo stesso si può dire della statistica sugli intercetti compiuti (1), che a sua volta lo vede lontanissimo rispetto al primo in classifica (Vidal, che ne effettua 3 per 90 minuti). Anche quando in fase di non possesso, McKennie è in realtà legato a un aspetto offensivo del gioco della Juventus come il pressing alto essendo il giocatore tra i bianconeri che effettua più recuperi palla nella metà campo avversaria (3.8 per 90 minuti).
Al contrario, paragonandolo agli altri centrocampisti della Serie A, McKennie si ritrova in cima quando parliamo di statistiche offensive. Solo Improta, Gagliardini e Kessie tirano più di lui da dentro l’area (rispettivamente 1.4, 1.2 e 1.1 per 90 minuti rispetto all'1 di McKennie) - statistica che lo vede sopra centrocampisti che percepiamo come decisamente offensivi come Luis Alberto, Veretout e Castrovilli. Ancora più stupefacenti i numeri sulla creazione di occasioni da gol. McKennie è infatti secondo per Expected Assist in open play tra tutti i giocatori della Serie A (0.4 per 90 minuti), dietro al solo Morata, e davanti a nomi come Chiesa, Mertens e Mkhitaryan. E tra i centrocampisti, solo de Paul, Luis Alberto, Pellegrini e Brozovic mandano più volte al tiro un compagno del giocatore statunitense (1.8 per 90 minuti). La sua creatività, però, non ha molto a che fare con quella a cui questi giocatori ci hanno abituati.
Se un giocatore apparentemente così offensivo viene ancora oggi scambiato per uno difensivo è perché il lavoro che McKennie fa in campo è quasi del tutto invisibile, senza palla. La sua ascesa all’interno dell’undici titolare della Juventus ha coinciso con la decisione di Pirlo di passare a un sistema di costruzione con tre centrali di difesa e due mediani di fronte, a uno che invece avanzava uno di quei due mediani sulla trequarti, tra le linee avversarie, a occupare i corridoi verticali avversari insieme alle due punte, all’altra mezzala, a un esterno e a uno dei due terzini (di solito Cuadrado). Questi sei giocatori in teoria dovrebbero scambiarsi di continuo il ruolo tra chi attacca la profondità alle spalle della linea difensiva avversaria e chi invece viene incontro a ricevere sulla trequarti spalle alla porta. In una squadra come la Juventus, che già dall’anno scorso convive con un problema di staticità senza palla in fase di attacco posizionale, McKennie è però uno dei pochi che è portato per natura a cercare la profondità senza palla donando alla squadra di Pirlo una fluidità che senza di lui sembra non avere.
Attraverso il movimento, infatti, il centrocampista statunitense crea i vuoti di spazio e di tempo che vengono poi riempiti dai suoi compagni, che possono così ricevere in posizioni favorevoli per creare o finalizzare senza pressioni. Nella partita contro il Parma, ad esempio, i tagli esterno-interno di McKennie ad attaccare lo spazio alle spalle della difesa avversaria permettevano a Kulusevski di ricevere libero sull’esterno destro, dove poteva tirare o crossare in area nelle migliori condizioni possibili. Lo si è visto anche nel gol che ha aperto le marcature, dove l’ala svedese ha potuto tirare libero al centro dell’area grazie al movimento ad attaccare la porta di McKennie, che si è aggiunto a Ronaldo facendo collassare la difesa del Parma dentro l’area piccola.
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La posizione che gli ha affidato Pirlo insieme alle caratteristiche tecniche che già aveva in dote, portano McKennie a diventare spesso il “vero” numero nove della Juventus (anche se, tecnicamente, in questi casi bisognerebbe parlare di falso nove) - l’uomo cioè che entra in area prima e in posizione migliore degli altri. Lo si è visto recentemente anche nell'ultima decisiva vittoria contro il Milan, in cui McKennie ha segnato l'1-3 finale attaccando il primo palo da attaccante vero, tagliando davanti a Cristiano Ronaldo, che invece è rimasto alle sue spalle. Pochi minuti prima il centrocampista statunitense era andato nuovamente vicino al gol, attaccando il buco che si era venuto a creare centralmente nella difesa del Milan che era salita per un calcio d'angolo in area avversaria.
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Più spesso, però, più che come un "vero attaccante" il centrocampista statunitense deve essere considerato come una specie di esca che viene lanciata in profondità per aprire quegli spazi nella difesa avversaria che poi verranno attaccati dalle seconde linee, e cioè spesso da Ronaldo e Morata, o dagli esterni.
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Nell’esempio qui sopra McKennie, contro l’Atalanta, attacca lo spazio alle spalle di Palomino portandosi dietro de Roon. Il suo movimento in diagonale è però una falsa pista che toglie di mezzo il centrocampista olandese creando la voragine centrale in cui si andrà a inserire Morata, a cui solo un miracolo di Gollini toglierà un gol che sembrava fatto. Non tutti sono così fortunati, però. Contro il Genoa, per esempio, il movimento interno-esterno di McKennie ha portato fuori posizione Masiello aprendo la strada a Dybala, che ha segnato il primo gol dell’incontro.
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In questi ultimi due casi, il centrocampista statunitense assottiglia il contributo della tecnica al suo gioco al minimo indispensabile, sfiorando la palla di tacco per lasciarla a Morata nel primo e colpendo il pallone con la nuca per indirizzarlo verso Dybala nel secondo. Come se il suo gioco senza palla gli togliesse l’impaccio di doversi coordinare per colpire il pallone - non proprio il suo punto forte - e gli bastasse farselo rimbalzare addosso per servire i compagni. In ogni caso, McKennie, quando può difendere e attaccare in avanti, fronte alla porta, lo fa sempre con scelte estremamente intelligenti e a suo modo creative.
Parlare solo del contributo di McKennie nell’ultimo quarto sarebbe però riduttivo. Senza palla copre una porzione di campo talmente vasta, e in un tempo così ridotto, che sono tutti i giocatori dal suo lato ad avvantaggiarsi dei vuoti che riesce a creare in campo. Nella partita contro il Parma, ad esempio, Danilo si sganciava dalla sua posizione di terzo centrale in impostazione proprio grazie al lavoro senza palla di McKennie, che gli liberava lo spazio davanti.
McKennie, per il lavoro che fa e per la continuità fisica con cui lo esegue, è quindi un facilitatore di gioco, anzi per certi versi è il facilitatore di gioco della Juventus di Pirlo, il che è paradossale per una squadra che tutti immaginavamo come dominatrice del possesso palla. Il centrocampista statunitense porta con sé infatti dei limiti nel controllo del pallone, soprattutto quando è costretto a ragionare spalle alla porta, e questo spiega di converso perché l’allenatore bianconero abbia deciso di alzarlo sulla trequarti in fase di costruzione, esonerandolo dalla gestione del pallone sotto pressione. A scendere in mediana accanto ad Arthur o a Bentancur, quando la pressione avversaria lo richiede, è infatti Ramsey, che raramente commette le sbavature che McKennie ha mostrato ad esempio nella partita contro l’Atalanta, in cui in un paio d’occasioni stava per regalare dei contropiede pericolosi con retropassaggi mal calibrati.
McKennie è a suo agio se attacca e difende in avanti, e in questo senso più che alla linea dinastica dei grandi recuperatori di palla bianconeri come Davids, appartiene a quella tradizione tutta tedesca di “cacciatori di spazi”, di cui negli ultimi anni Thomas Müller è stato il capostipite (e il modo in cui nelle partite contro Milan e Parma si scambiava continuamente di posizione con Kulusevski il ruolo di esterno ricordava molto l’interpretazione che dà di quel ruolo il centrocampista del Bayern Monaco). Se proprio bisogna avvicinarlo a un centrocampista juventino, allora forse sarebbe meglio fare il nome di Sami Khedira, che ricorda nella sapienza con cui si inserisce in area di rigore.
Lo si è visto anche in quella che è per adesso la copertina della sua esperienza italiana, e cioè la sforbiciata con cui ha segnato al Barcellona, in cui ha sfruttato il movimento da esca di Ronaldo ad attaccare il primo palo per inserirsi alle spalle dei centrali avversari e bucare ter Stegen. Certo, di solito è lui a fare quel lavoro di apertura del campo, quindi questo gol non è proprio la fotografia più esatta di ciò che McKennie fa in campo, dove ogni suo movimento sembra moltiplicare gli spazi e le possibilità dei suoi compagni d'attacco.
Quest’estate si è a lungo parlato di quale fosse il compagno ideale per Cristiano Ronaldo e di come potesse la Juventus aumentare le sue possibilità offensive senza compromettere il pressing. La squadra di Pirlo, alla fine, ha risposto a questo dilemma con una molteplicità di risposte. Perché per quanto Morata si stia rivelando all’altezza del ruolo effettivo di spalla di CR7, gli ingranaggi della fluidità offensiva della Juventus vengono mossi in gran parte dalla dinamicità di McKennie. Che per l’ennesima volta nella sua carriera si è ritrovato nel posto giusto al momento giusto.