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Wimbledon: le semifinali
10 lug 2015
Quattro giocatori per due posti in finale. La presentazione di Djokovic - Gasquet e Federer - Murray.
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Novak Djokovic vs. Richard Gasquet

di Teo Filippo Cremonini (@tieffecci)

Sono passati otto anni dal ritorno di Richard Gasquet all'interno di una semifinale a Wimbledon. Era contro il numero uno del momento, è contro il numero uno del momento. Era Roger Federer, con cui il bilancio prima dell'incontro era di una sola vittoria contro cinque sconfitte, è Novak Djokovic contro cui il bilancio è di una sola vittoria contro dodici sconfitte.

Finì tre set a zero per Roger Federer, dopo aver vinto in cinque tiratissimi set contro Andy Roddick nei quarti di finale in una partita molto simile a quella giocata contro Wawrinka due giorni fa, entrambe vinte con la consapevolezza che non servisse qualcosa in più dell'avversario, ma solo limitare gli errori nelle scelte. Gasquet riuscì a battere Roddick non giocando il suo miglior tennis, quello fatto di punti vincenti lungo scambi di rovescio e talento sopraffino ai limiti dell'inopportuna classe, ma realizzando che le partite si possono vincere anche non imponendo il proprio gioco, ma adattandosi agli errori e le soluzione dell'avversario. Con Wawrinka, Gasquet in cinque set ha totalizzato appena 24 errori gratuiti contro i 48 dell'avversario, a fronte di 73 vincenti contro 43, servendo peggio, 22-6 gli ace per lo svizzero, ma vincendo il 66% di punti con la seconda palla di servizio.

L'inopportuno talento

Sarà difficile da ammettere, soprattutto da chi all'età di 9 anni trascinava Gasquet tra i grandi tennisti del futuro sulle copertine di riviste del settore, ma i migliori risultati, il francese li ha raggiunti giocando partite di mantenimento, dove non ha imposto il proprio gioco. È sempre il 2007, siamo a Shanghai, Gasquet batte 6-4 6-2 Novak Djokovic, in quella che è stata l'unica vittoria del francese negli scontri diretti fra i due. In quei gironi eliminatori il francese perse con David Ferrer e sfiorò la vittoria contro Rafael Nadal. Fu una buonissima annata a 21 anni, in grado di far presagire una strada in discesa verso l'olimpo del tennis. Ma da quel momento i brutti pensieri, la tenuta mentale, e forse persino un’eccessiva fiducia nel proprio talento, hanno rallentato, fino quasi a fermare, la sua ascesa. Per vincere nel tennis, come in qualsiasi altro sport, non basta essere dotati o avere il colpo estetico migliore del circuito: bisogna adattarsi alle situazioni, riconoscere i propri difetti, essere umili. Gasquet ha puntato in alto con integralismo aristocratico, senza realmente scendere a compromessi con i propri limiti, nonostante non abbia né un dritto capace di offendere né un servizio in grado di poter chiudere l'avversario alle corde.

Gasquet è stato, lungo tutta la sua carriera, vittima del proprio talento, consapevole che sarebbe bastato poco, ma quel poco ha preso le sembianze di una montagna che il francese non ha avuto la voglia di scalare.

Capitalizzare i propri mezzi.

Djokovic chiude il 2007 alla posizione numero 3 al mondo. Senza aver vinto nessuno slam, ma giocando la sua prima finale—persa con Roger Federer negli Stati Uniti in tre set. Djokovic perde, ha solo 20 anni, ma riesce anche a vincere. Appare un giocatore solido soprattutto nei match a 5 set, ma senza il colpo necessario per poter affondare all'interno di una competizione lunga due settimane. Vent'anni, un fisico in totale costruzione e la coscienza di saper aspettare. Djokovic nel 2007 è umano, forte ma umano. Otto anni dopo, Djokovic è un cannibale.

Cilic, nei quarti di finale, è stato battuto in meno di due ore con un triplice 6-4 senza particolare sforzi e travolto da un tennis efficace che le statistiche non restituiscono completamente. Momenti decisivi, il 56% di prime palle giocate dal croato in tutta la partita e quindi un servizio mai capace di mettere in difficoltà il proprio avversario hanno permesso a Djokovic di vincere, tessendo la propria tela nel mantenimento dei propri ruoli all'interno dello spettacolo in corso.

Agonismo, Anderson, autorevolezza

Perso il secondo tie-break consecutivo nella sfida contro Kevin Anderson negli ottavi di finale, Djokovic ha saputo elevare il proprio livello di agonismo alla modalità “partita importante”. Era da tempo, quasi 6 anni, che il serbo non si trovava a servire per restare nel match (quinto set 5-4 Anderson) prima di un quarto di finale in un torneo dello slam. Djokovic non ha tremato, il game è stato chiuso a 15, dopo un 40-0 iniziale e nessuno ha mai davvero pensato che potesse riuscire l'upset.

Anderson ha compiuto un tale sforzo per fare partita pari con Nole nei primi due set che nel terzo è scoppiato come un palloncino gonfiato troppo.

In conferenza stampa Nole ha spiegato come si fosse trattato di una delle partite più difficili giocate sull'erba londinese nella carriera. Punti di riferimento imposti e adattabilità precaria, ma quando il livello di agonismo sale, Novak Djokovic trova sempre la soluzione ai suoi problemi. Cosa che non è riuscita in Francia nella finale contro Wawrinka, reo di aver mantenuto una semplice narrazione: io gioco così, tu vedi cosa puoi fare. Il principio di autorevolezza, più che le statistiche, sarà la base dell’incontro con Gasquet. Le possibilità di vedere una partita aperta derivano soprattutto dal modo in cui il francese riuscirà a variare il proprio gioco lungo i primi game: avrà bisogno di creare soluzioni per non restare incastrato nello scambio di ritmo da dietro, dove Nole può sfinire l'avversario con la semplice forza mentale, senza dover forzare le statistiche o alzare il livello agonistico. Può essere una sconfitta silenziosa, con buone statistiche in meno di due ore e una serie di applausi, ma nell'orgoglio del francese la grande opportunità di poter raggiungere la prima finale in carriera, lì tra i nobili del tennis, arrivandoci però da sconosciuto, ironia della sorte, come un semplice borghese.

Roger Federer vs. Andy Murray

di Emanuele Atturo (@Perelaa)

Quando ci si lamenta che ad arrivare alla fine dei tornei siano sempre gli stessi ci si dimentica di quanto questi tennisti cambino nel corso del tempo. Restare per così tanto tempo ai vertici di una disciplina sportiva richiede un incessante lavoro su sé stessi, sul proprio gioco: non cambiare equivale a estinguersi. Murray e Federer si sono già incontrati a Wimbledon, ma entrambi sono giocatori molto diversi da quel giorno.

Murray non era solo un unico fascio di nervi, ma anche un giocatore molto più banale di quanto non sia attualmente. Federer tendeva a fidarsi maggiormente dello scambio lungo da fondo campo.

Quella partita rimane tuttora l’ultimo successo di Federer in uno slam. Murray riuscirà vincere Wimbledon l’anno successivo, in finale contro Novak Djokovic, ma invece di essere un trampolino di lancio per i successi futuri quella vittoria rimane ancora la sua ultima in un grande torneo.

Il percorso zen di Andy Murray

Da quel giorno Murray ha collezionato altre due finali (sempre in Australia), perdendole entrambe, per poi precipitare, tra infortuni e crisi interiori, in una palude dalla quale difficilmente sembrava poter uscire. Lo scorso novembre ha perso contro Roger Federer per 6-0 6-1 in una partita per lunghi tratti umiliante, che non è arrivata nemmeno all’ora di gioco: «Molte persone nel mio team erano preoccupate dopo quella partita. Io no, ero molto calmo. Chiaramente il punteggio era imbarazzante, ma ho pensato ai match che avevo giocato contro Novak in quel periodo, agli altri match che avevo giocato durante il Master, e mi sono chiesto razionalmente dove stessi sbagliando contro i top player, e cosa potevo fare per tornare a competere con loro. E così a gennaio sono tornato a giocare un ottimo tennis. Quindi sì, è stata una dura sconfitta, ma l’ho gestita nel modo migliore».

Il telecronista usa spesso l’aggettivo “majestic” riferito al tennis di Federer, una sensazione di dominio inusuale negli ultimi anni.

Da quel momento qualcosa deve essere scattato nella testa di Murray: ha resistito alle pressioni che volevano licenziasse Amélie Mauresmo e ha iniziato a ricostruirsi da capo come giocatore, provando a migliorare sia l’aspetto tecnico che quello mentale. Ma nonostante i progressi, è difficile essere Andy Murray a Wimbledon. Lo scorso anno, dopo l’eliminazione dai Mondiali dell’Inghilterra, un giornalista gli ha chiesto come ci si sentisse ad avere sulle proprie spalle tutte le attese di un’intera nazione in certa di riscatto. Lo scozzese ha risposto: «Wow».

Allo stesso tempo l’amore di Wimbledon nei confronti di Murray non è così incondizionato. Nell’intervista pre-partita un giornalista è arrivato a chiedergli se fosse consapevole che contro Federer non tutti avrebbero tifato per lui.

Federer incarna più di Murray un ideale classico di talento tennistico: la capacità di vincere le partite senza dare l’impressione di affaticarsi deve eccitare gli inglesi, riportandoli agli anni dell’amatorialità aristocratica. Murray è scozzese, ha i denti larghi e il suo gioco di rete non possiede la stessa compiutezza apollinea del Maestro. Gli inglesi gli chiedono di vincere, ma senza assicurargli che la sua vittoria li renderà davvero felici.

Eppure in questo Wimbledon Murray è stranamente tranquillo, anche nei momenti in cui sembra potersi lasciar andare alla solita negatività, riesce lentamente a rincollare i pezzi di sé stesso e a tornare focalizzato sul tennis. Sembra aver accettato l’ingiustizia di fondo del proprio ruolo narrativo. Come quando Ivo Karlovic non gli ha fatto toccare la pallina e lui è rimasto tranquillo, in allerta sul primo servizio “rispondibile”, in attesa della propria occasione come un samurai. Come quando ha perso 6-1 un set contro Andreas Seppi e la spalla sembrava essersi sciolta, ma invece che crollare è tornato tranquillamente in campo a vincere la partita al quarto set.

Pare consapevole di giocare il tennis più efficace del circuito su questa superficie: finalmente più incline alle variazioni e al controllo dello scambio, migliorato anche nella frequenza delle discese a rete dal lavoro di Jonas Björkman, entrato nel suo staff negli ultimi mesi.

Si tratta di un tennis misurato, completo, che rinuncia all’alto ritmo da fondo per trovare una soluzione diversa, la migliore possibile, in ogni situazione. Murray è per certi versi distante da alcuni paradigmi del tennis contemporaneo: non travolge di vincenti i propri avversari (ne ha fatti meno di Pospisil nei quarti), non realizza grossi numeri. È un tennis percentuale, che mette in equilibrio componenti fisiche e tecniche, fase difensiva e offensiva, e che troverà la propria nemesi ideale in Roger Federer.

Giocare sul filo

Dopo due anni e mezzo di lavoro con Stefan Edberg, lo svizzero ha portato il proprio tennis all’apice della sua aggressività. Il talento con cui riesce a interpretare e a eseguire ogni situazione di gioco maschera il rischio che si nasconde dietro un gioco esasperato, folle per qualsiasi altro giocatore. L’attuale tennis di Federer ha i contorni di una corda tesa fino all’estremo, che solo il suo controllo superiore riesce a non far spezzare.

Bautista è stato lo spettatore privilegiato di uno show fulminante. 92% di punti vinti con la prima palla.

Anche oggi Federer proverà ad aggredire la partita, a velocizzarla, a renderla scivolosa. Proverà a tenere i punti sotto i tre-quattro scambi, portando il tennis a dei tempi di gioco a cui lui solo può accedere. Da parte sua Murray dovrà sperare innanzitutto che lo svizzero non sia in giornata mistica, ma anche in quel caso rimanere tranquillo, imparando la lezione dal più affilato duellante di Federer, Rafa Nadal: «Quando gioca bene bisogna solo aspettare che la tempesta passi».

Non sarà una partita dai ritmi lineari e progressivi come siamo ormai abituati negli ultimi anni: ci saranno tempi brevi, spezzature improvvise. Più i punti e i giochi andranno via velocemente e più Federer avrà possibilità di vincere, più si allungheranno più si entrerà in un terreno in cui Murray diventa difficile da insidiare.

Sarà soprattutto la partita del servizio contro la risposta. Prima di perderlo contro Simon, Federer aveva tenuto gli ultimi suoi 116 turni di battuta (!), arrivando alla percentuale fantascientifica dell’85% di punti vinti con la prima palla.

Murray è sotto l’80% con la prima, ma soprattutto ha percentuali preoccupanti con la seconda, che arriva a servire anche a 20 km/h in meno dello svizzero. In questo incide il problema alla spalla, che lui dice migliorato, ma che non lo vede ancora certo al massimo della condizione. Contro Pospisil ha servito solo 4 ace e i pochi punti diretti con il servizio rappresentano un grave gap di partenza, soprattutto contro un giocatore come Federer, che gli offrirà una pressione costante sulla seconda palla.

D’altra parte Murray è forse il miglior risponditore del circuito. Se Federer è sotto il 50% dei punti vinti in risposta sulla seconda; Murray arriva quasi al 70%. Una delle questioni tecniche più interessanti degli ultimi anni è quella dell’incidenza nelle vittorie della risposta rispetto al servizio e questa partita offrirà probabilmente chiavi di lettura interessanti.

Se in molti si riferiscono a questa partita come a una delle semifinali più attese degli ultimi anni non è solo per il bagaglio narrativo che si porta dietro, ma anche perché vedrà in campo due giocatori arrivati a un punto molto definito del proprio tennis. Lo stile versatile e all-around di Murray contro l’offensività esasperata di Federer. Se dovesse piovere, e se il centrale verrà coperto, le condizioni di gioco cambieranno radicalmente e il gioco di Federer potrà esprimersi su un canale preferenziale. In ogni caso buona parte dell’esito del match dipenderà dal suo inizio: se Federer riuscirà a imporre il proprio ritmo di gioco, comandando con la prima di servizio e trasformando il primo set in una lingua di fuoco, diventerebbe il favorito: a quel punto Murray sarebbe costretto a uno sforzo enorme per riportare la partita nella dimensione della razionalità. Se, al contrario, lo scozzese riuscirà a domare l’avvio di Federer potrà creare i presupposti per una vittoria anche più agevole del previsto. Comunque vada, il pubblico di Wimbledon vedrà vincere il proprio beniamino.

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