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L’esempio di Maya Moore
19 giu 2020
Storia di una giocatrice che ha sacrificato tutto quello che aveva per la giustizia sociale.
(articolo)
14 min
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Quando ormai una settimana fa sono emersi i dettagli della conference call organizzata da Kyrie Irving per discutere il progetto di “bolla” a Disney World, l’insider di The Athletic Shams Charania ha riportato la seguente frase pronunciata dalla stella dei Brooklyn Nets: “Sono disposto a sacrificare tutto quello che ho (per la riforma sociale)”. Sarebbe una decisione sconvolgente: uno dei primi 20 giocatori dell'NBA — e certamente uno dei 10 più conosciuti e amati — che a 28 anni lascia la sua carriera da professionista e i relativi guadagni per battersi a tempo pieno per le ingiustizie sociali e razziali negli Stati Uniti d’America. Sarebbe sicuramente una notizia di enorme impatto, capace di fargli prevaricare i limiti dello sport e di avere un reale impatto sulle vite delle persone. Sarebbe la personificazione dello slogan che Nike ha coniato per Colin Kaepernick: “Believe in something. Even if it means sacrificing everything” (cioè: credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto).

Lo sarebbe ancora di più se qualcuno, o per meglio dire qualcuna, non lo avesse già fatto. Un anno e mezzo fa. Quando si parla di battaglie sociali e impegno civile da parte di atleti professionisti, si dovrebbe sempre partire da Maya Moore, quantomeno tra gli atleti in attività. Come ha scritto recentemente Howard Bryant di ESPN: “LeBron James non è neanche l’atleta più significativo fuori dal campo della sua generazione. Quella distinzione, e non c’è nemmeno da discuterne, appartiene a Maya Moore”. Oppure, per prendere in prestito le parole di un commento su Instagram di Lou Williams degli L.A. Clippers: “La sua immagine ora colpisce in maniera differente. Perché è una donna che mostrerò ai miei figli dicendo loro: lei è un vero modello di vita a cui ispirarsi”.

https://twitter.com/TaylorRooks/status/1271918118613536769

Il tweet di Taylor Rooks di Bleacher Report.

Sulla strada verso la leggenda

Maya Moore pochi giorni fa ha compiuto 31 anni e in un mondo normale si starebbe preparando per affrontare una nuova stagione WNBA, la decima della sua carriera. La lista dei suoi trofei e dei suoi risultati basta e avanza per riempire due o tre carriere intere: in quattro anni al college a U-Conn ha vinto due titoli NCAA, giocando un ruolo chiave in quella che al tempo era la striscia di vittorie più lunga nella storia dello sport universitario (90 successi in fila). Dopo essere stata scelta alla numero 1 del Draft del 2011 ed essere diventata la prima giocatrice a firmare con Jordan Brand, ha immediatamente vinto il titolo WNBA con le Minnesota Lynx portandosi anche a casa il premio di rookie dell’anno e venendo nominata per l’All-Star Game, aggiungendo poi altri tre titoli ad anni alterni (2013, 2015 e 2017), un premio di MVP delle Finals (2013), uno di MVP della regular season (2014) e tre dell’All-Star Game in sei convocazioni. Durante i mesi invernali ha poi vinto per due volte l’Eurolega (2012 e 2018), tre volte il campionato cinese (dal 2013 al 2015) e tutto ciò che si poteva vincere con la nazionale USA (due ori mondiali e due olimpici). In tutte le partite disputate sul suolo americano, ha vinto 515 volte a fronte di 95 sconfitte complessive in tutte le competizioni. Vincere più di così è pressoché impossibile.

Continuando su quei ritmi, Maya Moore avrebbe potuto diventare la giocatrice più vincente di tutti i tempi e giocarsela per il titolo (platonico, ma pur sempre significativo) di GOAT della pallacanestro femminile. Secondo il sito FiveThirtyEight, solamente Cynthia Cooper ha generato più vittorie a stagione di lei (5.75 per ogni annata) e se avesse continuato si sarebbe piazzata solamente alle spalle di Tamika Catchings per vittorie generate totali (78.4). Per questo il suo annuncio del 5 febbraio 2019 ha fatto particolarmente rumore, tanto da attirare paragoni con quello del primo ritiro di Michael Jordan nel 1993.

La top-10 del suo anno da MVP.

Il cambiamento

Con una lettera anche piuttosto breve per quelli che sono gli standard di The Players’ Tribune, Maya Moore quel giorno ha annunciato che nel 2019 non sarebbe scesa in campo: “Non giocherò basket professionistico quest’anno. Ci sono diversi modi per misurare il successo. Quello che ho avuto nella pallacanestro mi fa esplodere la testa ogni volta che ci penso. Ma il modo principale con cui io misuro il successo nella vita non è qualcosa che si può enfatizzare esplicitamente attraverso la pallacanestro professionistica. Il modo in cui io misuro il successo è chiedendomi: ‘Sto vivendo con uno scopo?’”.

In quel momento lo scopo principale di Moore era la fede cristiana, con l’obiettivo di utilizzare il tempo a disposizione per rendere realtà il sogno di intraprendere una carriera come pastore e dare maggiore importanza alla sua famiglia. “Sono sicura che sarà dura in maniere che ancora non conosco, ma sarà anche gratificante in modi che ancora devo vedere” dice prima di ringraziare le Minnesota Lynx e chi le è stato vicino durante questo cambiamento.

È solamente più tardi, nel giugno dello stesso anno e dopo che il suo annuncio aveva scioccato il mondo della pallacanestro, che in un articolo sul New York Times viene spiegato come Moore avrebbe impiegato il suo tempo lontano dalla pallacanestro: aiutando Jonathan Irons a ribaltare la sentenza di condanna a 50 anni di carcere che secondo Moore aveva subito ingiustamente nel 1998, quando non aveva ancora compiuto 18 anni. Combattere per la liberazione di un altro essere umano — scarcerazione che era stata rifiutata varie volte per più di 20 anni e di cui non c’era alcuna certezza — utilizzando la propria piattaforma come atleta professionista era diventato il motivo per cui aveva lasciato ogni cosa.

Il caso di Jonathan Irons

Maya Moore viene da Jefferson City, Missouri, dove sua madre Kathryn si è trasferita da Los Angeles mentre la figlia doveva ancora nascere. Lì Maya, cresciuta senza il suo padre biologico, ha conosciuto Reggie Williams e sua moglie Cherilyn, pilastri della comunità cittadina e diventati poi suoi padrini. Mentre Maya si è poi spostata ad Atlanta insieme alla madre facendosi notare sempre di più per le sue qualità cestistiche (tanto da posare per questa incredibile foto con Lou Williams, anche lui cresciuto nella zona), le sue radici l’hanno spesso portata a tornare vicino a Jefferson City per le vacanze. In una di queste occasioni si è interessata al lavoro di Williams come pastore del carcere cittadino ed è entrata a conoscenza del caso di Jonathan Irons.

Le carte investigate da Williams erano decisamente particolari. Il crimine per cui Irons è stato giudicato si è svolto a O’Fallon, in Missouri, un sobborgo prevalentemente bianco e lavoratore di St. Louis. Il 14 gennaio 1997 il 38enne Stanley Stotler, tornando a casa per cambiarsi i vestiti prima di un appuntamento dal parrucchiere, scoprì un ladro nella sua abitazione sentendo un rumore proveniente dal suo armadio. Dopo aver minacciato di chiamare la polizia e di essere in possesso della pistola, un giovane afro-americano uscì dall’armadio e tre colpi di pistola vennero esplosi — due da parte del ladro con una calibro 25, uno per difesa da parte di Stotler con la sua 9 millimetri. Il ladro riuscì poi a scappare mentre Stotler, gravemente ferito alla spalla e alla tempia, riuscì a malapena ad arrivare in cucina per chiamare la polizia ed a salvarsi dopo un’operazione d’emergenza al cervello e sette settimane di convalescenza.

Una settimana dopo Irons venne arrestato perché nel giorno del crimine era stato visto in quel quartiere con una pistola. Sebbene avesse solo 16 anni, una precedente accusa per manomissione di automobile lo portò a essere giudicato come un adulto a partire dal 19 ottobre 1998, data di inizio del processo. La prova fondamentale di quel caso fu la testimonianza di un detective in un’udienza preliminare, che raccontò di un interrogatorio in cui Irons aveva ammesso di essersi introdotto nella casa di Stotler, ma di non ricordare nulla perché era ubriaco. Di quell’interrogatorio — in cui Irons non era assistito da nessun avvocato o responsabile e neanche erano presenti altri ufficiali di polizia — non esistono né appunti né tantomeno registrazioni.

Irons ha sempre negato di aver deposto quella confessione al detective e, pur ammettendo di essere in quel quartiere quella sera (aveva dei conoscenti a cui vendeva marijuana) e di possedere un’arma al tempo, anche se non si trattava di una calibro 25 ma di una calibro 38. Per dirla con le sue parole al New York Times: era nel quartiere sbagliato nel momento sbagliato — e nell’era sbagliata. “Sono il primo ad ammettere che non ero uno ragazzo del coro di chiesa: ero un giovane delinquente e ho preso un sacco di pessime decisioni” dice oggi. A testimoniare contro di lui fu anche Stotler, che lo identificò come l’aggressore in una delle udienze preliminari del caso nonostante nel febbraio del 1997 avesse ammesso di non essere sicuro di chi gli avesse sparato.

Il caso di Irons ha dei punti in comune con quello dei Central Park Five raccontato in maniera straordinaria in “When They See Us”, specialmente per la mancanza di prove concrete: nessuna arma del crimine, nessun testimone, nessuna impronta digitale, niente DNA, nessuna macchia di sangue che potesse associarlo al caso. Ciò nonostante, anche lui è rimasto vittima di un sistema giudiziario che incoraggiava pene severissime per i giovani anche per mandare loro un messaggio. Nelle carte giudiziarie, un membro dell’accusa disse esplicitamente: “Non andateci piano solo perché è giovane: è pericoloso tanto quanto una persona che ha cinque volte la sua età. Dobbiamo mandare un messaggio a questi giovani: se si comportano come quelli più vecchi, verranno trattati come quelli più vecchi”. Il 4 dicembre 1998, solo un mese e mezzo dopo l’inizio del processo, il 18enne Jonathan Irons venne condannato a cinquanta anni di reclusione per furto con scasso e aggressione a mano armata. Nei successivi 20 anni una lunga serie di appelli sono stati respinti — fino a quando non è arrivata Maya Moore.

Maya Moore racconta il caso di Jonathan Irons in televisione.

Il legame speciale tra Maya e Jonathan

Tramite l’intercessione di Williams e della famiglia Moore, Jonathan e Maya si sono incontrati nel 2007 poco prima che lei partisse per University of Connecticut dove sarebbe diventata una delle più grandi giocatrici collegiali di sempre. Irons pensava che fosse una visita di cortesia come altre ne aveva ricevute dalla famiglia Moore, ma Maya ha dimostrato da subito di volersi interessare al suo caso e, dopo averlo battuto in una partita a dama, gli ha detto che non gli avrebbe dato un’altra chance fino a quando non fosse uscito di prigione.

I due hanno poi continuato a rimanere in contatto per i successivi anni, tanto da cominciare a considerarsi ormai parenti acquisiti e a scambiarsi libri e letture spirituali, oltre che chiamate prima e dopo le partite importanti. Moore ha poi continuato a vincere ogni competizione possibile in tre continenti diversi senza mai fermarsi, ma nell’estate del 2016 diversi casi di cronaca di brutalità della polizia (e anche dell’omicidio di 5 poliziotti di Dallas da parte di un cecchino) portarono lei e le sue compagne delle Minnesota Lynx a indossare delle maglie nere con la scritta “Change Starts with Us. Justice & Accountability” sul fronte e “Black Lives Matter” con i nomi delle vittime e lo stemma della polizia di Dallas sul retro.

(Foto di David Sherman/NBAE via Getty Images)

Una decisione che portò quattro ufficiali di polizia ad abbandonare l’arena in aperto contrasto con il gesto delle giocatrici, cancellando i propri nomi dalle liste per le partite successive. Ennesima conferma — con quattro anni di anticipo — di un problema di razzismo strutturale all’interno del corpo di polizia di Minneapolis emerso in maniera drammatica con l’omicidio di George Floyd. Il presidente della Minneapolis Police Federation del tempo, il sergente Bob Kroll, elogiò i poliziotti per la loro decisione minacciando che “se le giocatrici continueranno a mantenere quella posizione, tutti gli ufficiali potrebbero rifiutarsi di lavorare lì”.

Era stata Moore a proporre quel gesto e fu lei a metterci la faccia in conferenza stampa per anticipare la decisione di quella maglietta: “Se ci prendiamo il tempo necessario per capire che questo è un problema umano e ne discutiamo tutti assieme, possiamo enormemente diminuire la paura e creare un cambiamento”. Quattro giorni dopo agli ESPYs LeBron James, Dwyane Wade, Chris Paul e Carmelo Anthony aprirono la cerimonia con un discorso sulla violenza sistemica, incoraggiando gli atleti a ispirare un cambiamento. Più tardi quell’estate Colin Kaepernick cominciò a inginocchiarsi durante l’inno nazionale.

Burnout

Per questo la decisione di lasciare la pallacanestro nel 2019 ha sorpreso molti, ma non era totalmente inaspettata visto il suo già comprovato impegno sociale e civile — e anche dal punto di vista cestistico si erano intraviste le prime avvisaglie di stanchezza. Dopo sette anni vissuti a mille all’ora senza praticamente mai fermarsi, nel 2018 Moore aveva vissuto la sua peggior stagione in carriera, in un’annata in cui le Lynx — con Cecilia Zandalasini nel frattempo diventata titolare — superarono a malapena il 50% di vittorie, venendo eliminate al primo turno. Già in quella stagione si era intuito che Moore avesse perso il fuoco che prima la contraddistingueva, ma la sua decisione di lasciare il basket ha creato inevitabilmente dei problemi alle Lynx, che negli anni successivi hanno continuato a mantenere una parvenza di competitività invece di iniziare una ricostruzione nell’attesa che lei tornasse.

La conferma della sua decisione di non tornare in campo nel 2020 nello scorso febbraio — e di saltare le Olimpiadi di Tokyo, poi rimandate per il coronavirus — hanno poi fatto di nuovo storcere il naso a molti a Minneapolis, dove lei non si è più ripresentata a vedere le sue ex compagne in campo. Senza mai dirlo esplicitamente, con la decisione di rimanere fuori anche nel 2020 Maya Moore sembra aver messo i suoi giorni in campo alle spalle sia per il burnout fisico e mentale che aveva provato, sia per il nuovo scopo trovato — specialmente dopo quanto successo ad Irons e con l’importanza sempre maggiore che hanno le lotte sociali e razziali in questo momento storico.

“Ho deciso di dedicare la mia vita alla liberazione di Jonathan come ho dedicato la mia carriera alla pallacanestro”.

How to save a life

Magari tra un anno le cose saranno diverse, ma ora il focus principale della sua vita sembra essere diventato quello delle lotte sociali e del far sentire la propria voce, forte di un esempio che ha precorso i tempi ed è stato preso a modello da tantissimi. Solo nell’ultimo mese hanno scritto di lei il Los Angeles Times, il già citato FiveThirtyEight e giusto ieri ESPN, mentre a marzo il New York Times ha pubblicato il terzo pezzo sulla sua lotta annunciando il ribaltamento della sentenza di Jonathan Irons.

Il giudice di Jefferson City Daniel Green, davanti a un’aula giudiziaria gremita principalmente per il lavoro fatto da Moore nel portare attenzione sulla vicenda, ha annullato la sentenza di condanna di Irons e ha ordinato che venisse scarcerato dalla prigione di massima sicurezza in cui è stato rinchiuso per 23 anni. A ribaltare la sentenza sono state delle impronte digitali sulla porta di casa che non erano state rese note dall’accusa nel processo iniziale e che non appartenevano né ad Irons né alla vittima — un dettaglio notato dieci anni prima dal padrino di Moore, Reggie Williams, nelle sue ore passate a studiare il caso di quel ragazzo che aveva incominciato a trattare come uno di famiglia. Secondo l’avvocato di Irons, Kent Gipson, la cui parcella è stata in larga parte coperta da Maya Moore, lo stato ha nascosto quelle prove per evitare che qualcun altro potesse essere trovato responsabile per quel crimine. Serviva un colpevole e un colpevole è stato trovato, anche se per 23 anni a pagare è stato un innocente.

Quando Irons, che oggi ha 40 anni, ha parlato con il Times della sua reazione e dell’importanza che Maya Moore ha avuto per lui, ha detto semplicemente: “Ha salvato la mia vita. Non avrei avuto questa opportunità se non fosse stato per lei e per la sua splendida famiglia. Ha salvato la mia vita e non saprei quali altre parole utilizzare”. Il suo caso però non è ancora concluso, visto che non è ancora stato liberato dal carcere in una sequenza di rimbalzi del suo caso tra varie corti e appelli. Potrebbe averne ancora per un altro mese, forse di più.

Per questo Maya Moore, pur esprimendo soddisfazione e felicità per quella sentenza (paragonandola alla vittoria di una Final Four NCAA) e un certo senso di “redenzione” per la sua decisione di abbandonare tutto per seguire il caso di Irons, ha sottolineato più volte che manca ancora molto per giungere a una conclusione definitiva. Per questo non ha mai smesso di parlare, specialmente in questo periodo storico e soprattutto rispondendo alle recenti parole del Quarterback dei New Orleans Saints, Drew Brees. Ora Maya Moore, anche se molti di quelli che la conoscono pensano che la sua carriera sia conclusa, ha trovato un nuovo scopo. Per raggiungerlo ha deciso di sacrificare tutto ciò che aveva — soldi, carriera, vittorie —, ma ogni volta che si parlerà di atleti impegnati socialmente, non si potrà fare a meno di partire dal suo esempio.

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