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La morte di Yoshimitsu
22 gen 2025
Un racconto sul leggendario personaggio di Tekken.
(articolo)
8 min
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(ON)

Neve su Taitō. Il quartiere dei pidocchi è imbiancato. Yoshimitsu, steso a terra: guarda il quarto di luna crescente arcuato come l’artiglio del nibbio. Il vicolo in cui si è nascosto è buio, sporco di fango, budella di pesce. Fra due pattumiere colme di stracci e verdura marcia, cerca di muoversi meno che può. Il respiro, sotto la maschera aguzza del demone dei boschi, è pesante e graffiato. Dalla sottile apertura tra mento e collo sbuffano rivoli di condensa attorcigliati, come fili di fumo bianco.

È ferito. Uno squarcio nel costato sinistro. La corazza d’argento opaco, oscura adesso che è notte, puntellata di remote gocce lunari, è valsa a poco.

Prova a contenere emorragia e dolore: preme con la mano destra un punto preciso a metà della lacerazione, dove la ferita è più profonda. I primi rantoli, sciacquati dal vento freddo, arrivano come dal profondo di un pozzo. Yoshimitsu sta morendo. Lo squarcio è opera dell’affilato kunai dalla punta d’acciaio; la mano è quella dell’infame: Kunimitsu.

Ladra inesorabile; la ripudiata dal clan Manji è riuscita a cogliere Yoshimitsu di sorpresa, appena messo piede a Tōkyō, dopo la rincorsa nei boschi collinari. Lo aveva spiato fin dalla sera, al tempio, il Dōjō Mishima, dove Yoshimitsu aveva lanciato una solenne sfida a Ganryu, guardia del dōjō, e maestro di un sumō ormai troppo antiquato per le tecniche ninja al confine con la magia in dote al capo del clan dei ladri invisibili. Vittoria d’astuzia e ninjutsu, senza dover usare la spada. Ganryu, accettata con lealtà la sconfitta pur se ferito atrocemente nell’orgoglio, aveva acconsentito col suo silenzio, noncurante della possibile ritorsione di Heihachi Mishima, alla consegna del “tesoro del dōjō” nelle mani del rivale. Decine di miliardi di yen custoditi in una botola-caveau: Yoshimitsu, prelevata la mole esagerata di banconote, non si era nemmeno fermato a dir grazie e contare.

Fuggito alla svelta dal tempio, l’enorme sacco imbottito di contanti in spalla, Kunimitsu gli prende la scia. Corrono fra i sentieri boschivi e lei, come un’ombra che si accorcia e s’allunga a seconda di dove batte la luce, non perde mai la misura. Mentre procede nell’inseguimento tenendosi a distanza di tiro, Kunimitsu studia i movimenti e il ritmo della preda, per attaccare al momento giusto e una sola volta – quella letale. Nell’ombra delle prime rade baracche di Arakawa, Yoshimitsu rimane abbagliato dall’improvvisa scintilla accesa dalla sua corazza, seguita da un clangore d’arma bianca; si sente come tirare da un lato, e subito alleggerito d’un peso; poi cade di fianco, soffre una fiamma pungente nei polmoni. Riesce nell’impresa di trattenere a sé la sua spada. Poco a poco monta il dolore.

Prova ad alzarsi. Solo dopo vari e inutili tentativi trova finalmente l’equilibrio. Gocce di sangue scendono sulla neve disegnando rami di corallo moro. In un attimo di lucidità inattesa capisce cosa è successo. Chi è stata. Chiudendo gli occhi prova lo sforzo di astrarsi dal dolore: si mette in cammino verso Taitō.

Yoshimitsu muore. L’ultimo sussulto sfiata dalla maschera creando una medusa pulsante di vapore. La testa ricade sul petto, con lentezza, come adagiata dalla mano di una donna.

«Ti sei fatto ammazzare», dice Kunimitsu, con una voce che sembra provenire da dietro un muro. «Sapevi di esser spiato. Da me», aggiunge, con la piega di un sorriso, invisibile attraverso la maschera volpina.

«Io…», lamenta Yoshimitsu – rianimato all’improvviso da un alito demoniaco.

«Io…», comincia a scandire con un filo di fiato, una corrente d’aria che soffia dall’Ade. Una lunga pausa. Rantoli acuti, piccole bestie urlanti nella cavità toracica. Yoshimitsu punta i gomiti sul terriccio morbido imbevuto di sangue e nevischio e piega in avanti il torso. Gli occhi della maschera di demone si sono fatti cremisi. Kunimitsu, nel tempo di un breve salto all’indietro, si ritrova in guardia; Yoshimitsu contrae i muscoli del tronco e resta in posizione; si porta la testa al petto e sottovoce sembra cominci a pregare; a un tratto si muove convulso, come a gonfiare e sgonfiare il proprio corpo.

Si ferma, di colpo. Stanco, torna morbidamente a terra. Kunimitsu si avventa sul corpo stremato. «Perché…», la voce stavolta sottile, come a implorare una risposta di una domanda che pian piano le si dissolve nella mente. Yoshimitsu, con un solo fluido movimento, la grazia di un fiore che torna alla luce dopo una lunga notte, si alza in piedi con le braccia larghe, ad ampliare il compasso della propria figura. La neve su Taitō si fa più fitta. Il quartiere dei pidocchi è il più freddo di tutta Tōkyō. Yoshimitsu ritorna fra i vivi.

***

«Pago la libertà al prezzo più alto», dice Yoshimitsu, dal vetro delle iridi illuminate sul fondo della maschera. «Sono un fantasma». Con la punta del piede nascosta sotto la neve scalcia l’elsa squadrata della spada, e a mezz’aria la riprende; in un unico movimento liquido tira una stoccata di spalla al busto di Kunimitsu, che incrocia i suoi kunai e para il colpo, sbalzata all’indietro dall’impatto e adagiata sulla neve da una capriola. Kunimitsu fa in tempo ad alzare il collo e para il fendente a mannaia del nemico, di nuovo con una scintilla dei suoi kunai, che per poco non cedono. L’onda d’urto le lussa una spalla. «La promessa», ansima Kunimitsu. «Perché l’hai tradita», chiede la maschera di volpe. Yoshimitsu abbassa la guardia. «Non ho mai fatto promesse», sentenzia: e riparte d’attacco.

Nuvole di ghiaccio rendono la luce della luna una coltre d’ovatta. I fiocchi di neve cadono perpendicolari e ampi come shuriken affilati. Yoshimitsu abbandona le braccia e allenta la presa sulla spada. Ricorda la sera della promessa nella foresta del Fuji. La maschera affondata nel muschio, la pelle del viso bagnata dal sangue del tramonto. Kunimitsu al suo fianco. Fra di loro una tregua imposta da un attimo fugace di passione per troppo tempo ignorata. Yoshimitsu parla: «Me ne libero», indicando con mano voluttuosa la spada che porta il suo stesso nome: la spada che brama le anime e il sangue dei vinti. Kunimitsu si sporge fino a sfiorare le labbra del capo del clan Manji, ora raccolto in una preghiera volta alle anime che popolano la natura del luogo. «Liberatene adesso», gli implora. Ciò che ottiene è soltanto un lungo silenzio. «Terminato il compito», risponde Yoshimitsu, colto di sorpresa dalla rapidità con cui Kunimitsu poggia le sue labbra madide e leggere, del colore della peonia selvatica, sulle sue, rinsecchite e ruvide come corteccia.

Kunimitsu sfila la sua maschera. Guance e zigomi solcati da sottili torrenti di lacrime congelate. È bella e lontana nella desolata luce notturna di Taitō. «È la spada ciò che desideri», dice Yoshimitsu. Dalla maschera aguzza è calato ogni velo di pietà. Il compito prevede l’eliminazione di qualsiasi ostacolo. Il clan è volere divino.

Nel cielo brilla uno strano satellite di forma scalena, un artefatto della Mishima Zaibatsu: alterna riflessi platinati a lampi di rosso laser. La corazza di Yoshimitsu emette una condensa d’argento. Dallo spazio remoto sta per partire un colpo lineare diretto al cuore del ladro. Kunimitsu, dal volto nudo, i lunghi capelli raccolti in due code laterali, si lancia in un attacco disperato, perché ora è davvero la spada che vuole; almeno quanto la morte del suo amato. Yoshimitsu impugna l’arma e la pone verticalmente a difesa, con un movimento rapido, impercettibile, para l’affondo dell’amata, e senza esitare lascia calare la punta della spada sul lato debole di Kunimitsu, dove la spalla lussata non può alzarsi in difesa; eppure lei prevede l’attacco, lo schiva, preme con forza sui quadricipiti e salta al di sopra di Yoshimitsu, ricadendo con i kunai impugnati a martello, come a voler perforargli il cranio. Anche Yoshimitsu è sicuro e saldo nelle sue previsioni, e con un solo passo all’indietro, il tempo esatto, evita d’essere perforato.

Il satellite della Mishima Zaibatsu brilla a intermittenza di rosso e bianco. Il colpo sta per partire. Il braccio destro di Kunimitsu è un peso morto. Una smorfia accenna al dolore, ma come fosse qualcosa di lontano, perso nello spazio. «Non ti ho mai creduto» dice improvvisamente Yoshimitsu. Ricorda che dopo il bacio nella foresta del Fuji gli occhi di lei bramavano la spada, alla quale la ladra rivolgeva rapidi sguardi d’ingordigia, mentre quando gli occhi si incrociavano ai suoi sembravano vacui, finti, le pupille fisse e bestiali di una ladra morta di fame. «È tempo di ucciderti», sentenzia Yoshimitsu.

Mentre prepara lo slancio in avanti, un raggio diagonale di tremenda precisione e incandescenza trafigge il petto di Yoshimitsu, lasciando un buco nero dal diametro di due dita sopra alla ferita nel costato. Kunimitsu trattiene il fiato. Il capo del clan Manji si affloscia su sé stesso, come se qualcuno gli avesse reciso gli invisibili fili della volontà umana.

Nel vicolo più buio di Taitō, fra budella di pesce, stracci e frutta marcia, un cadavere completamente spogliato d’ogni indumento giace in obliquo tra due pattumiere di latta. Prono, gambe divaricate, è già banchetto per timidi ratti che partono a rosicchiare le guance e le cavità oculari. Sulla schiena un buco largo due dita dove una cornacchia ha già cominciato a beccare. Poco distante, sferragliando nei movimenti corazzati come un robot appena uscito nel mondo degli umani, Yoshimitsu il nuovo cammina in direzione sud, fuori dalla città. L’andatura pesante non riesce a dissimulare la gioia nel possedere la spada che brama le anime e il sangue dei vinti.

Il nome della spada è Yoshimitsu.

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