Marcelo Zalayeta ha spinto il tasto della dissolvenza in uscita: si è dato sei mesi di attività ancora, cioè il tempo di durata del Clausura uruguayo, poi lascerà il calcio, come ha dichiarato qualche settimana fa. Poi si aprirà una bottega ortofrutticola, ha detto, un po’ per scherzo, un po’ forse no. La prima associazione mentale che le sinapsi mi hanno suggerito, quando ho letto la notizia, è stata questa:
Personalmente mi mettono più a disagio e in ansia i giovani che non trovano spazio pur meritandoselo dei trentasettenni che si deprimono per non riuscire a dare più quel che vorrebbero alla squadra, ai quali manca da matti segnare tutti quei gol, che si autocommiserano se non ce la fanno a tenere il passo di rivali e compagni; o forse è semplicemente che non riesco a provare nostalgia, figuriamoci proattiva, per Marcelo. In realtà credo che non ci riuscirei neppure se fossi un tifoso della Juve, o del Napoli, che sono le due squadre italiane nelle quali ha lasciato maggiore traccia di sé.
Zalayeta è stato, sul calare degli anni ’90, una delle figure più rappresentative di una serie di calciatori problematici, dove il problema è rappresentato dallo sforzo di introspezione a cui siamo costretti nella loro rielaborazione, la cui memoria ci costringe a fare i conti con qualcosa che abbiamo pensato all’epoca, e cioè che Marcelo Zalayeta, ma che ne so anche Ernesto Chevantón, fossero non solo esotici ma forti; anche se Zalayeta era lento fino a snervarti, e però la buttava dentro sempre, ovviamente quel sempre ridottissimo alle poche occasioni che gli venivano concesse.
Come è possibile che Luis Suárez o Cavani siano i figli—e di fatto i successori—di una stirpe e tradizione di attaccanti facilmente geolocalizzabili (Sudamerica, Uruguay, centro dell’area), dei quali Marcelo Zalayeta è stato archetipo, totem, massimo esponente? Voglio dire: dieci, quindici anni fa il centravanti titolare della Celeste era lui.
Una foto di qualche tempo fa, nella quale Marcelo sembra già un ex calciatore, con la maglia sdrucita, il sale e pepe nei capelli, l’occhio liquido del miglior fruttivendolo del quartiere, quello con i gagliardetti sulle casse di patate e un aneddoto da raccontarti mentre poggia le pesche sul piatto della bilancia, che fatichi a credere vero e interpreti come uno stratagemma per distrarti e ingannarti sul peso.
Dopo aver proposto alla redazione di lavorare su questo pezzo, mi sono messo a scandagliare il web alla ricerca dei suoi gol, delle sue giocate, di immagini che mi rinfrescassero le idee e mi riportassero un po’ indietro all’adolescenza, con l’obiettivo di sceglierne una manciata che surrogassero una pretenziosa visione tipo quanto era forte o quanto era sottovalutato.
Mi sono reso conto di conservare nella memoria un ricordo di Zalayeta completamente diverso rispetto al tipo di calciatore che Zalayeta è stato, è e fino ad agosto, probabilmente sempre meno, probabilmente sempre di più, sarà: e cioè un calciatore eminentemente noioso. Zalayeta è un po’ come quel conoscente con il quale una volta ti sei trovato al pub, magari ti sei divertito, vi siete visti sempre più spesso, ma poi ti sei accorto che ogni sera che ti ci vai a prendere un drink insieme ordina sempre la capiroska: e perdipiù neppure sembra che lo faccia impazzire.
E allora ho scelto dieci gol, perché dieci è la sezione aurea della malinconia, o della tristezza: dieci reti, il più possibile diverse tra loro (il 95% dei gol di Marcelo Zalayeta si possono riassumere nell’equazione passaggio a metà strada tra l’area piccola e il limite dell’area > spunta Zalayeta > la palla è in rete) ma comunque significative del tipo di calciatore che è stato, che non è diventato, che non sarebbe mai potuto diventare. Il tentativo di tenere fede al mio obiettivo principale ha rischiato seriamente di sfociare nel revisionismo.
Credo siano state tra le ore più noiose che abbia speso a riguardare giocate di calciatori del passato recente. Il che non significa che non siano state produttive.
10. Complicarsi la vita (ma solo per mettere un po’ di pepe)
Napoli - Palermo 2-1, stagione 2008-2009.
Ho un ricordo nitido di un gol di Faustino Asprilla che non riesco a trovare da nessuna parte, magari me lo sono soltanto sognato: ai tempi del Parma ad Asprilla riuscivano un sacco di cose difficilissime, ma poi capitava anche che—è il ricordo del quale a questo punto non sono poi così sicuro—sbagliasse un gol praticamente a porta vuota, salvo poi accartocciarsi su sé stesso e ribadire in gol come avremmo fatto noi a Fregene, con la sabbia calda sulla schiena. Mi pare fosse al Tardini, non ricordo contro chi però.
Contro il Palermo Zalayeta fa praticamente la stessa cosa, ma ribaltando il canone, annullando il paradigma della difficoltà intrinseca intesa come sfida.
Prima detta l’azione con precisione, poi ligio come un chierichetto segue lo svolgimento, Piá si allarga, Marcelo dal centro dell’area chiama il cross, con in testa l’inevitabile conclusione noiosa dell’azione. Ma Piá perde il tempo, allora appoggia per Hamsik che sta arrivando a rimorchio e che tira male verso la porta: Zalayeta decide di rendere difficile una cosa facile come un tap-in, ma lo fa senza la poesia dell’alambicco, piuttosto con la goffaggine di chi vuole complicarsi un po’ la vita solo per vedere l’effetto che fa. Direi quasi per cercare di rendere meno noiosa la solita, sempre uguale, fine dell’amplesso.
9. Paloma ingannevole
Uruguay - Malesia 1-1, Mondiale U-20 1997.
Se esistesse una pozione del dimenticamento mi piacerebbe poterne bere un sorso, poi guardare questo colpo di testa in tuffo (o come si chiama in spagnolo questa paloma) segnato contro la Malesia nel Mondiale U-20 del 1997 e innamorarmi di Zalayeta e scrivere un pezzo per la rubrica Preferiti nel quale descrivere le sue potenzialità aerobiche, la sua dirompente fisicità, prefigurare un futuro funambolico di gesti atletici inarrivabili per il resto dei calciatori della sua età che giocano nel suo ruolo.
Guardare e riguardare, nel video, lo stacco da cartone animato, la torsione e l’impatto poderoso, da semidivinità greca, e poi contestualizzarlo in quel che Zalayeta è finito per diventare (un gesto che avrebbe ripetuto solo in un anonimo Empoli - Venezia) mi ha regalato la stessa spiazzante sensazione di quando ho assaggiato per la prima volta una malvasia estrema a un Critical Wine: al naso mostrava una serie di promesse che l’assaggio ha avuto la maleducazione di disattendere. Era come se quello che avevo annusato e quello che avevo assaggiato fossero due vini diversi: dev’essere stato lo stesso per la Juventus, osservarlo al Peñarol e poi a Torino.
8. Il gol autocelebrativo (ma ancora una volta promesse disattese)
Peñarol - Nacional 3-1, finale di Liguilla Pre-Libertadores 1997.
Il 5 dicembre è il giorno in cui Zalayeta è nato: giocare un derby il giorno del tuo compleanno deve darti un’emozione unica, tanto più se è l’ultimo—a 19 anni—prima del trasferimento in Europa.
In quel periodo a Torino gli uruguaiani andavano di moda: Zalayeta troverà Montero e Daniel Fonseca, poco più tardi sarebbe arrivato anche il difensore César Pellegrín dal Danubio. Ha raccontato che quando in estate è volato in Italia per firmare il pre-contratto aveva un cappotto (per via dell’inverno australe) che per coerenza e rispetto non si è tolto per tutto il tempo in cui lui e il suo procuratore sono stati nell’ufficio presidenziale. E che era assai preoccupato perché aveva visto i giocatori arrivare in allenamento in giacca e cravatta: «Mentre noi uruguaiani lo sai, no, come ci vestiamo».
Nel Peñarol, nella prima stagione da professionista, Zalayeta non gioca da boa centrale: c’è ancora Pablo Bengoechea (oggi il suo allenatore), Marcelo parte molto largo sulla fascia.
In questo gol c’è racchiusa tutta la morale del perché Marcelo non è diventato altro rispetto a Zalayeta: anche quando accelera non dà mai l’impressione di essersene andato per davvero, il suo avanzare è da cingolato in discesa, non da velocista lanciato nello sprint. Se è una pantera lo è—e lo sarebbe diventato—più per la ferocia scaturita da un’apparente sornionità che per il distendersi delle leve in corsa.
Infra
Ovvero di assist e spirito del gregario
Se Luís Boccarato non avesse passato tante di quelle notti in bianco per mettere su la monumentale pagina monografica su Zalayeta ospitata su campeondelsiglo.com probabilmente non avrei potuto scrivere questo pezzo come lo sto scrivendo, forse anche nello spirito. Nel post dedicato al lancio del progetto, senza volerlo Luís enuncia una verità incontrovertibile: «Sicuramente molti penseranno che altri avrebbero meritato questo sforzo».
Il fascino che esercita Zalayeta è quello del gregario, ed è tutto racchiuso nel gesto semplice e umile, come passarti la busta di cartone per riporci le arance, con cui fornisce un assist per uno dei mille gol di Ibrahimovic.
o per l’unica e irripetibile rete di Benjamin Onwuachi, "il Martins bianconero" (1 presenza e 1 gol, questo, con la Juventus).
Non importa quanto l’ultimo passaggio sia elegante (il tacco per Zlatan) o involontario e quasi rimpianto (il trascinarsi stanco della palla fin quando non incrocia i piedi del giovanissimo nigeriano): l’assist era il barlume d’intelligenza tecnica con il quale Zalayeta riconosceva che nel calcio si possono fare cose diverse dal prendere un pallone e sospingerlo, con qualunque mezzo possibile, dentro la porta.
7. Quella volta in cui si ricorda di essere sudamericano, va alla rimpatriata, se ne pente e per una settimana non apre più Facebook
Napoli - Parma 1-0, Serie A 2007-2008.
Al contrario del miracolo del sangue di San Gennaro, che finisce quasi sempre per sciogliersi, lo sfoggio delle abilità aerobiche di Marcelo Zalayeta ha un indice di ricorrenza simile a quello delle morti di un pontefice: in tutta la sua carriera ho contato sì e no due biciclette, tutte in Uruguay. Ho incluso questa sforbiciata volante nella mia personale classifica soltanto perché la didascalia ideale sarebbe «Il Sudamerica è uno stato dell’anima»: tacco di Lavezzi per Mariano Bogliacino, assist delizioso e finalizzazione di Marcelo, che si lascia addirittura andare a una brevissima parentesi d’entusiasmo prima di tornare statuario, anche un po’ incazzato, con chi poi non si sa, forse con sé stesso per l’eccessiva lascivia di un Gesto Tecnico Eclatante.
6. Con colpevole ottimismo
Napoli - Inter 1-0, Seria A 2007-2008.
Zalayeta non è mai andato in doppia cifra durante la sua permanenza in Italia. Un po’ perché giocava davvero molto poco, specie durante la militanza alla Juventus (dove davanti a sé aveva Inzaghi, Del Piero, Fonseca, Nicola Amoruso, Michele Padovano, Zlatan, Trezeguet, insomma non è stato propriamente l’uomo giusto al momento giusto).
La stagione 2007-2008 è stata una delle sue più prolifiche, era al Napoli e qua segna uno dei gol che preferisco, contro l’Inter. Non è tanto la pregevolezza del pallonetto con il quale scavalca Júlio César quanto l’intelligenza con la quale attacca lo spazio al limite dell’area lasciato sguarnito dai difensori nerazzurri, come obbedendo a un richiamo atavico—quello di essere nei pressi dell’area durante un’azione d’attacco—dal quale le capacità fisiche, la scarsa propensione allo scatto in contropiede lo avevano distolto. Osservando il replay mi pare di capire che dopo l’impatto con la palla tenga la testa bassa, e osservi la traiettoria di sottecchi, senza troppo entusiasmo, sempre un po’ arrabbiato con sé stesso, e dài Marcelo, fattela una risata ogni tanto.
5. Volée nel derby, quattordici anni più tardi
Peñarol - Nacional 2-3, Clausura 2012.
Quattordici anni dopo aver abbandonato l’Uruguay, Zalayeta è tornato a vestire la camiseta aurinegra del Peñarol. Nel mezzo ci sono comunque stati tre (quattro?) campionati italiani, tre Supercoppe italiane, addirittura un campionato di Serie B vinti con la Juventus, esperienze in Spagna e in Turchia dove si ricordano di lui soprattutto per la gioia con cui festeggiava ogni rete per il Kayserispor (qua contro il Besiktas: il commentatore pronuncia il suo cognome Zaleta, lui sbandiera un bel puta madre di giubilo). Ma il Carbonero gli ha dato tutto: la possibilità di mettersi in luce per approdare in Europa, di comprare una casa alla madre e un furgone rosso tutto per lui. La scelta della vettura mi pare significativa di molti aspetti anche extracalcistici della maniera di stare al mondo di Marcelo.
Nel destro al volo contro il Bolso c’è un fremito di consapevolezza, una rinnovata fiducia in sé stesso, forse, la voglia e la pazzia di provare a calciare questa palla spiovente per vedere che effetto fa tornare a segnare un gol memorabile. Se avesse incocciato la palla di collo pieno e l’avesse mandata a sbattere all’incrocio della rete non avremmo mai provato la stessa compassionevole pietas che suscita una palla sporca, sbucciata, beffarda, so zalayetish come questa.
4. Debole coi deboli, forte coi forti, tanque con il Tanque
Peñarol - El Tanque Sisley 2-0, Apertura 2011.
Questa è una delle rarissime volte in cui ho visto, in ore di giocate, Zalayeta ricevere una palla nella sua metà campo e andare a segnare. Addirittura puntare l’avversario (un pugno di tre difensori che gli stringono contro con l’intento di braccarlo, per la verità), dribblarlo (uno dei fondamentali meno rilevabili nel suo gioco) e superare il portiere in uscita.
Se la sua parabola fosse un corpus di testi antichi, e io stessi arrabattandomi in un’analisi lachmaniana, dovrei accettare la lectio difficilior secondo la quale lo Zalayeta più simile all’originale sia questo. Il motivo principale per cui agli esami di filologia romanza non ho mai dato del mio meglio, e non considero Zalayeta uno coi numeri, devono affondare le radici nello stesso malmostoso terreno della diffidenza, credo.
3. Non fatelo a casa (o almeno, se proprio dovete, fatelo bene)
Peñarol - Cerro Largo 4-2, Clausura 2012.
Mi sono fatto l’idea che il rapporto tra Zalayeta e un centravanti spettacolare sia lo stesso che intercorre tra una maglia comprata ai Grandi Magazzini e una griffata: per quanto si sforzino di somigliare, c’è sempre un dettaglio, una seppur piccola, leggera imperfezione che ci fa scuotere la testa, prendere coscienza della differenza. Qua, contro il Cerro Largo, i presupposti per la rovesciata ci sono tutti, eppure la palla viene colpita in maniera sporca, non del tutto netta, non del tutto perfetta. Forse il segreto del bello non è nell’armonia delle forme, dei movimenti, dei gesti, ma nella loro caduca mortalità, fallibilità, nella sua irriducibile imperfezione.
Zalayeta mi ha ricordato certe tute che mia madre mi comprava quando facevo le medie, brutte a vedersi, ma comode, confortevoli, perfette per il compito che erano chiamate a fare: e cioè garantire comodità, confortevolezza, in una parola serenità. Forse a Marcelo non era il caso di chiedere di più di quello che ha comunque dimostrato di saper garantire: la certezza che anche nelle poche occasioni a disposizione, per quanto poco importanti, per quanto scarse, avrebbe fatto di tutto per buttarla dentro, che era poi ciò per cui veniva pagato. O almeno di questo era convinto lui.
1. (ex aequo) Ma soprattutto forte coi forti
Barcellona - Juventus 1-2 dts, Champions League 2002-2003.
Per quanto ci si voglia sforzare di illuminarlo di nuova e più alternativa luce, Marcelo Zalayeta rimarrà sempre quello del gol al Barcellona. Sul gradino più alto del podio, a ex aequo, voglio mettere anche quest’altro segnato contro il Real Madrid.
Sono legati inscindibilmente dallo stesso filo, quello che il saggio che Wei incontrò sui gradini del tempio portava riposto nel suo sacco. Il fatto è che se da una parte entrambe le reti offrono un set di pronto soccorso narrativo così completo da lasciarti credere che i cerchi che non si chiudono non esistano (parricidio dei colossi calcistici spagnoli + epicità dei tempi supplementari + rivincita nei confronti di un calcio che ti ha rifiutato), dall’altra finiscono anche per restituirci l’esatta dimensione del ricordo di Zalayeta, di ciò che ha rappresentato per i suoi tifosi: il calciatore one-shot-only. Per quanto memorabile.
Uno di quelli, per intenderci, il cui ricordo, ancora prima che decidano di premere il tasto d’avvio per una più o meno lenta, ma inesorabile, dissolvenza in uscita, sta già sfumando nel momento stesso in cui si accade.