Nicolò Zaniolo stacca i piedi dal campo, devia il pallone con la testa – e fa già strano questo, conoscendolo – e prima che l’Olimpico torni a respirare si è già tolto la maglietta. Corre come un pazzo: ha segnato il gol che chiude la partita, che porta l’Atalanta all’ottava vittoria consecutiva, ma la sua prossemica suggerisce qualcosa di diverso. È un momento intimo che Zaniolo vive e mostra davanti a cinquantamila persone.
Probabilmente starà pensando che è il gol che può svoltare la sua stagione, renderlo un pochino meno bistrattato agli occhi dell’opinione pubblica, togliere qualcosa al personaggio televisivo che i media gli hanno cucito addosso e spostare per un attimo l’attenzione sul fatto non scontato di essere lì, in una partita di alto livello di Serie A, tornato dopo anni difficili in Turchia e in Inghilterra. E invece, paradossalmente, tra tutte le cose che avrebbe potuto fare, Zaniolo è riuscito a scegliere quella che gli ha portato più fischi, più rancore, più odio. Esultare in modo sfacciato, gaudente, contro la propria ex squadra è d’altronde uno dei pochi gesti che su un campo da calcio mettono a dura prova la nostra moralità. Per questo è più facile vedere il contrario, cioè calciatori che reprimono la propria esultanza contro ex squadre per non mancare di rispetto - o almeno così si dice.
Il rapporto tra Zaniolo e la Roma, del resto, è controverso. Pochi giocatori sono stati amati e difesi a oltranza quanto lui, ed era un amore ricambiato. Zaniolo diceva cose come "ogni volta che non sono in campo la Roma mi manca" e uscendo dal campo al derby faceva gestacci contro i tifosi della Lazio. I tifosi gli scrivevano messaggi d'amore, quasi commossi, dopo i suoi infortuni. Vedevano in lui l'erede di qualcosa.
Ma gli ultimi giorni nella capitale - quelli in cui non sembrava voler accettare la cessione nelle squadre che preferiva la società, hanno lasciato brutti strascichi (scritte sui muri, minacce). Strascichi arrivati anche ieri in campo, tra fischi e un atteggiamento particolarmente determinato (sadico) di Zaniolo.
Per questi motivi quel momento di Zaniolo è stato molto teatrale.
Ogni settimana vediamo le esultanze più disparate, più brandizzabili, da parte di calciatori che cercano di catturare la nostra attenzione per raccontare solo un lato di sé. Inventano un personaggio o citano un videogioco, cercano di rendersi, insomma, riconoscibili attraverso le esultanze. È perciò raro che un’esultanza provochi veramente un’emozione negli spettatori. E, come si dice, se l’odio e l’amore hanno lo stesso "interruttore" nel nostro cervello, forse dovremmo iniziare ad apprezzare quegli sparuti momenti di farsa? Mi riferisco a quelle esultanze che ci danno fastidio non tanto per il gol in sé, ma per il significato che hanno: la fine di un amore. E non solo: rinfacciare all'altro, a distanza, mentre stai con un'altra persona, la fine del vostro amore, e il fatto che oggi abbiate trovato la felicità.
In questo pezzo proverò a elencare alcune delle esultanze più iconiche – o meglio: più teatrali, artistiche, e perciò capaci di rimanere impresse – di calciatori contro le proprie ex squadre.
Gonzalo Higuaín, «es tu culpa»
Qual è il vero motivo per cui guardiamo il calcio con occhi così puritani? In Italia si sprecano i trasferimenti di giocatori tra squadre di vertice a cui è stata accostata la parola "tradimento". Forse è la conseguenza di una ferita. Ciascun tifoso si ritrova, prima o poi, a maledire un calciatore per invidia: perché non sopporta che nella sua vita da privilegiato il denaro o l’ambizione contino più del benessere ambientale. Del calore umano con cui si interfaccia ogni giorno fuori al centro di allenamento, o quando esce di sera in città.
Gonzalo Higuaín ha vissuto Napoli fin dai primi giorni della sua firma. Ricorderete quando si è ferito il mento sugli scogli, invitato in barca dall’allora capitano del Napoli, Paolo Cannavaro. Napoli gli ha perdonato molte cose: il rigore sbagliato all’ultima giornata contro la Lazio, che è costato alla squadra una qualificazione in Champions League, l’espulsione contro l’Udinese l’anno dopo, nel pieno della lotta Scudetto contro la Juventus. Il suo trasferimento a Torino, però, è conservato nel libro nero dei tifosi del Napoli. Nessuno verrà più odiato come Higuaín. La cornice è la semifinale di ritorno di Coppa Italia, Napoli-Juventus.
Sono passati poco meno di otto mesi dalla sua cessione. Da allora Aurelio De Laurentiis gli ha scritto una lettera di addio per rendere chiaro a tutti che il desiderio di andare via e la mancanza di rispetto nei confronti della città fosse solo opera dell’argentino. Un tifoso ha bruciato la sua maglietta in strada. «Ho subito insulti e odio» ha detto Higuaín nel 2022. «Il male si ritorce contro: in 8 partite contro il Napoli ho fatto 6 gol». Intorno alla mezz’ora del primo tempo la Juve mette il naso fuori dalla trequarti e apre il campo in verticale come solo la prima Juve di Allegri sapeva fare. La palla arriva a Higuaín ai venti metri. La difesa del Napoli gioca di reparto in modo estremo e invece di uscire Chiriches scappa all’indietro finché non è troppo tardi. Il tiro secco di Higuain gli passa sotto le gambe, fulminando Reina sul primo palo.
L’esultanza di Higuaín è brutale: ha le rughe del viso rese più profonde dalla rabbia. Subisce ininterrottamente fischi e minacce da giorni. Poi, però, c’è come una pausa: il capannello di giocatori della Juve si dirada, Higuain si gira verso le tribune e indica il presidente del Napoli: «Es tu culpa! Es tu culpa!» ripete con gli occhi sbarrati, indicando dritto davanti a sé. In quel momento accusa De Laurentiis e il Napoli di scarsa ambizione. Di non essere al suo livello. Non molti altri giocatori avranno goduto di più per un gol di relativa importanza, visto che i bianconeri partivano col vantaggio per il 3-1 dell'andata. Higuaín forse non si era mai sentito così leggero.
Un’esultanza velenosa, che ferisce al costato i tifosi del Napoli ogni volta che sono costretti a riguardarla. Nel novero delle esultanze più mortifere ci entra senza dubbio. Anche se è difficile da replicare: quante volte i litigi tra un presidente, una tifoseria e un calciatore arrivano a questa profondità? Un anno dopo, in un altro Napoli-Juventus, a ogni suo inciampo sulla palla o caduta rovinosa, i tifosi esultano. Anche in quel caso Higuaín segna il gol decisivo.
Ronaldo, cinque anni dopo
Quante cose possono cambiare in cinque anni. Quante persone a cui pensavamo di volere bene perdiamo di vista, quanti bar del sabato sera passano mentre ce ne dimentichiamo anche solo l’esistenza? Cinque anni non sono tanti, ma neanche pochi. Un lustro non è bastato, ovviamente, ai tifosi dell’Inter per dimenticarsi della venuta di Ronaldo, del suo impatto con la navicella spaziale nel campionato italiano.
È l’11 marzo 2007 e Ronaldo torna a San Siro: rispetto alla sua partenza, nel 2002, tutto appare immutato. Eppure qualcosa che è cambiato c’è: i colori sulla sua maglietta. Ronaldo è al primo derby da attaccante del Milan: lo ha acquistato Berlusconi nel mercato di gennaio quasi per un capriccio. A causa della scarsa forma fisica persino Capello, all’epoca allenatore del Real Madrid, lo aveva sconsigliato al Cavaliere.
Ronaldo ha 30 anni ma è già all’apice della sua decadenza: non può più contare sugli strappi in velocità, ha l’andatura sfatta, il suo corpo si è allargato fino al limite.
Dal riscaldamento le attenzioni dei tifosi dell’Inter, che gioca “in casa”, sono dedicate a lui, a questo essere umano logorato che preoccupa ancora le difese. Ronaldo prende palla al 40’ sotto una nube di fischi semplicemente assurda.L’Inter si era dimostrata superiore per tutto il campionato, era involata verso lo Scudetto: che ragione avevano gli interisti per essere così tesi?
Lo stadio sembra leggere un copione. Ronaldo punta la difesa nerazzurra con un doppio passo ridicolo, vecchio, effettuato più con la mente che con il fisico. Poi fulmina Julio Cesar con il mancino ed è come se avesse accoltellato il Meazza. Ironicamente l’azione del gol avviene sotto la Curva dell’Inter. Ronaldo sente i fischi, assorbe l’energia oscura dello stadio e rilancia le fiches: chiede ai tifosi, quelli che una volta erano i suoi, di alzare il volume. Si porta le mani alle orecchie, mentre sorride come un bambino al parco giochi.
È un’esultanza così provocatoria, così evocativa e grottesca insieme, da essere ricordata più della partita stessa. Quel gol valeva l’1-0 del Milan, l’Inter nel secondo tempo rimontò e vinse 2-1. Dopo svariati anni Ronaldo è tornato sull’argomento: «Ho sbagliato, ma quando sei in campo e ti insultano…ho fatto una provocazione». E non è questo il bello?
Mauro Icardi re del caos
Mentre i calciatori di solito provano a isolarsi dal piano emotivo, per rendere più efficienti le prestazioni, Icardi rende meglio nel conflitto. È una scena che abbiamo visto spesso. Icardi non solo provoca gli avversari, ma i suoi stessi tifosi: intossica l’ambiente più vicino a lui. Il veleno sembra metterlo a suo agio.
Così, quando torna per la prima volta a Genova nell’aprile 2014, il dado è già tratto. Icardi aspettava solo un cenno dei tifosi della Sampdoria e quelli lo fischiano per tutta la partita.
Come ha scritto nella sua autobiografia lo stesso Icardi: «“Tra-di-to-re” era il coro che andava per la maggiore. Dalla panchina un mio ex compagno ha lanciato un’offesa ai danni di mia madre, ma non gli ho dato soddisfazione. I tifosi sembravano essersi dimenticati che era stata la società a vendermi, per incassare i 13 milioni del mio cartellino».
Dopo aver calciato un bel destro al volo, uno dei gol à la Icardi, da centravanti che si nutre dei palloni vaganti nell’area di rigore, Icardi si ferma e dice ai tifosi della Sampdoria che non li sente. A Genova il campo è vicinissimo agli spalti. Per esultare così ci vuole un po' di coraggio in più, ed essere litigioso per natura. Icardi sembra provare un particolare godimento a richiamare i fischi, la baraonda, il caos.
Pablo Daniel Osvaldo, allo scadere
Pablo Daniel Osvaldo è il sovrano indiscusso delle esultanze che hanno come unico fine quello di mandare in bestia gli avversari. Famigerata è la sua maglietta con su scritto “Vi ho purgato anche io” dopo un gol segnato alla Lazio nel derby.
Alla Roma l’attaccante è stato sempre legato da un rapporto di odio e amore. Dopo aver tolto a Totti la battuta di un calcio di rigore, contro la Sampdoria, la sua macchina è stata presa a sassate. Naturalmente il rigore fu sbagliato. E poi il litigio in ritiro: «Ho fatto 200 gol ma che c**** volete?!». Questi episodi si sono accumulati, uno sopra l'altro, ingrossando il risentimento e caricando un'esultanza da ex mostruosa.
L’11 maggio 2014, dopo essere stato fischiato, segna con la maglia della Juventus al 94’. Con lo stesso tiro sotto la traversa gela l’Olimpico e porta la Juve di Conte verso l’obiettivo del record di punti. Già all’epoca aveva messo in dubbio la pubblica morale semplicemente esultando con i compagni in panchina, rifiutando il dispiacere.
Qualcuno è finito a interpretare il suo labiale nell’esultanza, in cui pare che Osvaldo dica a Conte una cosa tipo: «Lo vedi? Non fischiano (o insultano, non è chiaro) più».
L’anno dopo Osvaldo ci riprova. Stavolta indossa la maglia dell’Inter e dopo aver segnato si porta il dito sulla bocca per zittire l’Olimpico. Ammutolire i tifosi, dirgli che devono stare zitti, è forse la sfida più violenta da parte di un calciatore. Quella che istiga migliaia di persone non solo, ovviamente, a non fare silenzio ma anzi: a protestare con veemenza. Cerca di costringerli a qualcosa che forse nemmeno possono fare.
Nei giorni dopo la partita l’odio tra Osvaldo e i romanisti prosegue su Twitter ed è una pagina di storia comunicativa del nostro calcio. Osvaldo che è un calciatore professionista e rosica contro degli sconosciuti come uno di noi alla partita del giovedì: «Dov’erano l’11 maggio?» si chiede in uno dei suoi post, rispolverando la vecchia ferita.
Osvaldo ha reso artistiche le esultanze fatte per inquinare l’aria degli avversari. Ha aggiunto al festeggiamento per un gol della sua squadra la sfumatura del vedere gli altri dannarsi. Schadenfreude allo stato puro.
Adebayor, storia di una vendetta
Esistono vari modi per celebrare il gol contro un’ex squadra: esultare con violenza, provocando un’ulteriore reazione ai tifosi e caricarsi di quella macabra energia, o mostrare “rispetto”, evitando di mostrarsi felici. In entrambi i casi il calcio diventa una farsa.
Poi, però, c’è l’esultanza di Emmanuel Adebayor contro l’Arsenal. La lucida follia con cui Adebayor attraversa tutto il campo nel pomeriggio del 12 settembre 2009 merita una categoria a sé. È la corsa della piena realizzazione di un uomo o un tentativo di esorcizzare l’odio? Adebayor corre, corre, corre: sembra non potersi fermare mai.
Arriva sotto il settore degli ospiti, dove un migliaio di tifosi dell’Arsenal lo aspetta. Adebayor scivola con le ginocchia sull’erba e, letteralmente, esulta in faccia ai Gunners. Quelli cominciano a lanciare degli oggetti, uno dei quali colpisce uno steward.
C’è un limite oltre il quale l’odio travalica il campo e forse quel limite Adebayor l’ha superato quel pomeriggio.
Prima della partita Adebayor aveva caricato l’ambiente: «La cosa che mi piace di più del Manchester City sono i tifosi. Ti amano. L’Arsenal ha molti tifosi che non lo sono affatto» aveva detto. Già dall’anno prima, quando ancora giocava per l’Arsenal, Adebayor veniva accusato di scarso impegno. Di non tenerci alla maglia.
Lui se l’è legata al dito e ha ribaltato la prospettiva: i tifosi lo accusano di essere un mercenario e lui accusa loro di non essere neanche tifosi veri. Di cambiare squadra: «Oggi tengono all’Arsenal, domani al Manchester United». Non c’è offesa peggiore. Quella di Adebayor è stata l’esultanza più vicina alla definizione di vendetta che vi possa venire in mente su un campo da calcio.
Aniello Cutolo e il dolore di un playout impossibile da rimarginare
Aniello Cutolo per anni è stato uno dei giocatori più forti della Serie B, l'Arjen Robben della cadetteria, mancino puro, calvo e imprendibile come lui quando rientrava sul sinistro. Sul nome di Cutolo, però, agli occhi dei tifosi del Verona graverà per sempre un'onta incancellabile.
A giugno 2007 l'Hellas affronta lo Spezia al Picco per la gara d'andata dei playout di Serie B. Cutolo è il numero 10 degli scaligeri allenati da Ventura, che al 23' passano in vantaggio. Qualche minuto più tardi, in contropiede, arriva anche la palla del 2-0. Cutolo riceve solo sul sinistro in area davanti al portiere, uno col suo mancino dovrebbe segnare a occhi chiusi. L'attaccante napoletano, però, sbaglia. È il turning point del playout. Lo Spezia infatti rimonta, vince 2-1 e al ritorno conserva lo 0-0 che condanna il Verona alla retrocessione. I tifosi gialloblu ricordano ancora oggi quella partita come la fatal La Spezia. L'imputato numero uno di quella retrocessione, ai loro occhi, era Aniello Cutolo.
Il Verona avrebbe trascorso diversi anni in Serie C e sarebbe tornato in B solo nel 2011/12. Alla quinta giornata l'Hellas ospita il Padova, che ha da poco acquistato proprio Aniello Cutolo, subissato di fischi a ogni tocco di palla nonostante fossero passati quattro anni. La partita per i padroni di casa inizia anche bene, visto che passano in vantaggio.
Alla mezz'ora, però, Cutolo riceve tra le linee sui venticinque metri, si sistema il pallone e quasi da fermo, con una prodezza balistica delle sue, spedisce la palla sotto la traversa. La palla colpisce il legno e rimbalza a terra. Per un istante tutti si guardano negli occhi, poi il guardalinee indica il centro del campo: il tiro è entrato. Cutolo perde ogni freno inibitore, si esibisce in una decina di esultanze diverse nel giro di pochi secondi. Prima si porta le mani alle orecchie come Ronaldo contro l'Inter, correndo sotto la curva del Verona, poi si gira verso un avversario e portandosi il dito alla bocca gli urla "stai muto!", poi si mette a ballare in maniera sgraziata insieme a un compagno, infine mulina le braccia quasi a chiedere ancora più fischi. In quel momento ha lo sguardo di un posseduto. Probabilmente una delle esultanze più goderecce della storia del calcio.
Andrea Mandorlini, tecnico del Verona, non ci sta. Cutolo, dopo essersi preso l'ammonizione, lo intima a rimanere in silenzio. Mandorlini in quei mesi non aveva fatto molto per poter stare simpatico ad un napoletano come Cutolo. Dopo aver vinto i playoff di Serie C contro la Salernitana, infatti, alla presentazione della squadra aveva impugnato il microfono per cantare il famoso coro "Ti amo terrone" che riprendeva una canzone degli Skiantos.
«Non so cosa volesse Mandorlini - il commento di Cutolo nel dopogara - Ho esultato, è vero ho esagerato, ma era un boccone troppo grande da digerire. Poi ricordiamo che lui ad inizio stagione è stato il primo a fare un coro un po' eccessivo, quindi stia tranquillo», avrebbe dichiarato l'attaccante del Padova.
Insomma, nella sua esultanza c'era tutto: il passato da ex, un errore mai perdonato, un po' di sana rivendicazione territoriale. La partita comunque sarebbe finita 2-2.