La crescita di un giocatore NBA non è mai un processo lineare. Si entra nella lega in una certa maniera, ma poi il posto in cui si finisce, i compagni che si hanno accanto e le opportunità che vengono date possono cambiare drasticamente le fortune di un prospetto. E spesso può capitare che per ogni passo avanti fatto ce ne possano essere un paio indietro, o che si migliori tutto d’un colpo sbloccando anche un solo aspetto del proprio gioco, oppure che non si migliori mai rispetto a come si è arrivati. Non è mai semplice proiettare la crescita di un giovane, neanche quelli con un chiaro potenziale da superstar.
Zion Williamson, poi, fin dal primo momento in cui è apparso nelle nostre vite è sembrato subito “one of one”, un giocatore assolutamente unico. La sua combinazione di stazza fisica e velocità di piedi a quell’altezza lo rendono un giocatore con pochissimi eguali nella storia della lega, e il suo percorso così particolare — atteso per mesi mentre recuperava da un infortunio al ginocchio, folgorante nel suo debutto in NBA, poi comunque positivo con minutaggio contingentato e poi fermato nel momento in cui stava cominciando a decollare — non ha fatto altro che rendere accidentata la sua crescita e la sua evoluzione nel primo anno di NBA. In cui comunque, è bene ricordarlo, è sceso in campo solamente 24 volte.
Nella bolla di Disney World si è visto un Williamson ben diverso rispetto a quello pre-pandemia, sicuramente peggiore e molto probabilmente fuori forma — oltre che calato in un contesto di squadra che sembrava aver preso il viaggio a Orlando come una gita piuttosto che come un’occasione per migliorare, con un allenatore già destinato all’addio come Alvin Gentry. Forse è in quel momento che qualcosa si è inceppato: ci aspettavamo di vederlo già pronto a fare un passo avanti, magari prendendosi di forza un primo turno di playoff contro i Los Angeles Lakers di LeBron James (speranza neanche troppo nascosta della NBA), e invece è sembrato regredire in una squadra con un atteggiamento a tratti - specie nella metà campo difensiva - imbarazzante.
Poi in estate è cambiato tutto di nuovo, con l’addio di Jrue Holiday e l’arrivo di Stan Van Gundy sulla panchina con il dichiarato obiettivo di insegnare la difesa ai giovani Pelicans. Un po’ per caso Williamson è diventato il giocatore da maggior tempo a New Orleans in un roster del tutto nuovo e per certi versi disfunzionale, in cui l’accumulo di asset per il futuro è venuto prima dell’interesse per le vittorie. E i risultati di questo inizio di regular season, quantomeno nella metà campo difensiva, non sono neanche lontanamente arrivati: i Pelicans hanno la penultima difesa su base stagionale (solo i derelitti Sacramento Kings fanno peggio) e Williamson è certamente uno dei motivi per cui non riescono a contenere nessun avversario dal palleggio, concedendo un’emorragia di punti dalla linea del tiro da tre punti (nessuno ne fa tirare di più e solo Cleveland a percentuali più alte: una combinazione letale).
Ma questo secondo anno di NBA di Zion Williamson ci ha anche mostrato un giocatore nuovo nella metà campo offensiva. Laddove si stava cominciando a sedimentare l’idea che Zion fosse “uno che schiaccia e basta”, da un mese a questa parte Van Gundy ha sbloccato una parte del suo gioco che era rimasta un po’ nascosta — quello che lo vede prendere decisioni con la palla in mano fin da inizio azione, praticamente come un esterno. «La gente pensa che Zion sia un giocatore interno; io lo vedo come un giocatore perimetrale che può giocare in post» ha detto l’allenatore dei Pelicans spiegando il cambiamento. «È passato dall’essere un giocatore che viveva nei pressi del canestro a un giocatore perimetrale, e ora è quello che inizia l’azione con la palla in mano». E i risultati per i Pelicans sono cambiati esponenzialmente, per quanto solo nella metà campo offensiva.
La scoperta di Point Zion
A dispetto da quanto detto da Van Gundy, nelle prime 15 partite della sua stagione da sophomore Zion Williamson veniva ancora per lo più utilizzato come un lungo “standard”: portava blocchi, rollava a canestro, andava a rimbalzo offensivo e sfruttava le iniziative dei compagni per portare a casa il suo bottino. Un ruolo che riusciva a svolgere in maniera egregia (oltre 22 punti e 7.4 rimbalzi di media con il 57% dal campo), mettendo comunque pressione alle difese avversarie come testimoniano gli oltre 7 liberi tentati a partita, ma che lo vedevano distribuire meno di 2 assist a gara.
Dalla partita contro Milwaukee dello scorso 29 gennaio in poi Van Gundy ha messo la palla nelle mani di Zion e i suoi numeri sono decollati: gli assist sono più che raddoppiati (da 1.9 a 4.4 senza mai scendere sotto i 2 in ogni partita), la sua media punti è salita a 26.3, ha preso meno rimbalzi ma ha aumentato la sua efficienza passando da 1.23 a 1.39 punti per tiro tentato con il 64.5% dal campo. Al netto di un aumento di possessi utilizzati (da 25 a 27% di Usage), la sua percentuale di palle perse è diminuita e quella di assist è più che raddoppiata, con un miglioramento significativo sia ai liberi (da 66 a 75% su un volume maggiore) che uno piccolissimo da tre punti (5/11 dall’arco contro l’1/5 con cui aveva cominciato la stagione).
Soprattutto il rating offensivo di 122.7 punti su 100 possessi dei Pelicans da quella partita in poi è secondo solamente agli intoccabili Brooklyn Nets di Harden, Irving e Durant, e meglio anche dei caldissimi Utah Jazz di questa regular season. Certo, la difesa così tremenda spiega quasi interamente il record solo mediocre di 8 vittorie e 7 sconfitte in questo lasso di tempo, ma abbiamo indiscutibilmente visto un Williamson diverso, capace di fare cose più variegate rispetto a quelle che avevamo già imparato a vedere nel suo anno di debutto.
Quando penetra per servire il tiratore appostato sul perimetro Williamson produce 1.23 punti per possesso, nel 73° percentile della NBA. E questo in una squadra senza tiratori eccezionali al suo fianco e spesso con un lungo come Steven Adams o Willy Hernangomez a occupare spazi in area e compromettere le spaziature.
Anche i Pelicans hanno dovuto adattarsi alle peculiarità di un talento unico come quello di Zion, che è ancora molto grezzo e spesso sembra giocare ancora molto seguendo i suoi istinti senza comprendere bene quello che sta accadendo, ma riesce comunque a essere fenomenale quando è messo nelle condizioni giuste. Van Gundy piano piano ha capito che per massimizzare il suo talento deve prendere decisioni non convenzionali e pensare fuori dalla proverbiale scatola. Certo, Williamson può fare “cose da lungo classico” come giocare da bloccante in un pick and roll (1.25 punti per possesso, 76° percentile NBA) o mettersi a giocare in post-up (3.3 possessi a partita in cui produce 1.01 punti di media, 70° percentile). Ma è al suo meglio quando ha il pallone tra le mani e può prendere decisioni per sé e per i compagni, da prima opzione offensiva vera, diventando effettivamente il fulcro dell’attacco di New Orleans.
In questo possesso tutta la sua unicità, cominciando l’azione in punta per poi passare a un passaggio consegnato e a un taglio a canestro con grande naturalezza e fluidità. In questo modo può portare a spasso per il campo i lunghi avversari come Domantas Sabonis, arrivando a chiudere al ferro senza che un protettore del calibro di Myles Turner abbia il tempo di andare a contestarlo. Poi si nota anche la morbidezza nel tocco quando alza la parabola per mandarla sulla parte alta del tabellone, infine la brutta fine che fanno gli esterni in post contro di lui.
Nei 56 possessi in cui è stato utilizzato da portatore di palla nei pick and roll ha prodotto finora 1.14 punti, un dato che lo posiziona nel 94° percentile della NBA. E anche quando gioca in isolamento partendo da lontano con la possibilità di aumentare i giri del motore e puntare gli avversari con il campo spaziato produce 1.16 punti per possesso, subendo fallo nel 25% delle occasioni. Una forza della natura pressoché inarrestabile, compensando con la velocità e la stazza quello che gli manca in termini di centimetri, limite che si nota nelle situazioni statiche (subisce quasi 2 stoppate a partita, solo Andre Drummond fa peggio di lui).
Nella partita contro Memphis in diretta nazionale ha giocato quasi esclusivamente possessi sul lato destro con un quarto di campo a disposizione, intervallando qua e là qualche blocco di un piccolo per forzare i cambi difensivi che ovviamente la difesa non vuole concedere. Pur essendo mancino, curiosamente Williamson va molto meglio quando attacca andando verso destra, potendo tornare solo in un secondo momento sulla mano preferita con l’inerzia del movimento a favore.
Il numero di penetrazioni a partita è passato da 8.7 a 12.7 nell’ultimo mese, viaggiando a percentuali di efficienza simili a Giannis Antetokounmpo su un volume comparabile, trovando il canestro (segnando o tramite i tiri in lunetta) nel 78% dei casi in cui è riuscito a giocare in avvicinamento. Ma non solo: Williamson ha anche mostrato una visione di gioco sopra la media, riuscendo ad anticipare le intenzioni degli avversari che mandavano raddoppi su di lui per regalare tiri gratis ai compagni.
Nei momenti decisivi della rimonta da -24 contro Boston, Williamson ha prima spazzato via Tristan Thompson per il gioco da tre punti del sorpasso e nell’overtime ha letto il tentativo di raddoppio di Jaylen Brown per regalare a Brandon Ingram la tripla della vittoria.
Verrebbe da dire che stiamo vedendo un “nuovo” Williamson, ma sarebbe più corretto dire che è uno Williamson che non avevamo ancora visto in NBA. Lui stesso ha sottolineato come in passato abbia sempre giocato così sin dai tempi del liceo e della AAU: «Se conoscete il mio passato, questo in realtà è lo stile di gioco che ho utilizzato per tutta la mia vita» ha detto recentemente. «Sono molto più a mio agio fronteggiando il canestro, perché riesco a vedere meglio il campo». Solo che un conto è farlo contro avversari liceali o collegiali che non avevano alcuna chance di contenerlo, e un conto è farlo spazzando via i lunghi della NBA — che devono difendere sempre con tempismo e concentrazione al limite della perfezione per evitare di vedersi travolti dalle sue spallate, e spesso nemmeno basta perché è talmente veloce da poter correggere a rimbalzo d’attacco i suoi stessi errori.
I Celtics hanno fatto un ottimo lavoro nel negargli l’area schierando contemporaneamente Daniel Theis e Tristan Thompson. Zion è comunque riuscito a segnare 28 punti andando come un pazzo a rimbalzo d’attacco, catturandone 5 — seconda miglior prestazione in un anno in cui viaggia a 2.4 di media, pur giocando spesso al fianco di un rimbalzista d’attacco di élite come Adams. Non a caso i Pelicans sono i migliori a rimbalzo d’attacco di tutta la NBA.
Ci sono ancora tantissimi aspetti del gioco in cui Williamson può migliorare, a partire da una percentuale al ferro sotto media (“solo” il 65%, nel 42° percentile per un lungo) complice anche la totale mancanza di finte per far saltare gli avversari, andando sempre a cercare il contatto dritto per dritto — un limite che i Celtics hanno esposto nella partita dello scorso weekend. E nonostante sia sulle bocche di tutti ormai da anni, stiamo parlando di un giocatore che è sceso in campo a malapena 53 volte da professionista per un totale di 1.619 minuti, avendo ancora tantissime cose da imparare su se stesso, sui suoi compagni e su come funziona la NBA.
Ciò nonostante, già adesso le difese avversarie si ritrovano davanti a scelte difficili per cercare di arginarlo: servono due lunghi veri in campo (uno in marcatura individuale e uno in aiuto a centro area) per rendergli complicata la strada verso il ferro, perché chi non ha il tonnellaggio necessario per stare fisicamente con lui è destinato a essere travolto dalla sua fisicità. E in una lega che gioca sempre più spesso con un solo lungo (e sempre più spesso con soli esterni), avere un “Matchup Nightmare” come Williamson che ti costringe a modificare la tua rotazione è un lusso che poche squadre possono permettersi.
Soprattutto, c’è un limite a quello che anche le migliori difese possono fare quando Williamson è in giornata, un po’ alla stregua del Giannis Antetokounmpo che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni. Sempre più spesso gli avversari cominceranno ad “alzare i muri” per negargli le penetrazioni a canestro, sfidandolo al tiro perimetrale (che a questo punto della sua carriera è semplicemente inesistente, per quanto il tocco mostrato ai liberi faccia ben sperare) e facendogli trovare corpi su corpi sulla via verso il canestro. Ma rispetto ad Antetokounmpo Zion è un atleta diverso, con un centro di gravità molto più basso che gli permette di attaccare in palleggio e incunearsi anche negli spazi più stretti nonostante le dimensioni spropositate del suo corpo.
I Bulls ci provano anche a riempire l’area, ma Zion stacca da tre metri di distanza dal ferro e arriva comunque a concludere in lay-up passando in mezzo a due avversari.
Forse la mancanza di schiacciate “da highlights” come quelle che ci faceva pregustare al suo arrivo in NBA ha tolto un po’ di hype sulla sua stagione, ed è possibile che Williamson abbia scelto coscientemente di schiacciare di meno — solamente adesso ha raggiunto le 58 schiacciate del suo primo anno in NBA, pur avendo giocato quasi 300 minuti in più — specialmente nel traffico per risparmiare un po’ di logorio a un fisico che deve sopportare sforzi e piegamenti impensabili per altri giocatori, e che ha già sopportato diversi infortuni in passato.
Ma l’assenza di giocate spettacolari non deve far passare sotto silenzio lo sviluppo tecnico e tattico di un giocatore che unisce aspetti di altri giocatori del presente e del passato e li mixa assieme in un cocktail davvero fenomenale, e che è ancora lontano dallo sviluppo completo. Sarebbe ingiusto anche pensare di vederlo già nella sua forma finale, e forse è meglio così: se non migliorasse mai da quello che è, quel 10% di cose che non sa fare (tirare da fuori e avere impatto difensivo su tutte) finirebbe per far passare in secondo piano quel 90% di cose che fa in maniera fenomenale.
Magari un giorno riuscirà a sfruttare la sua fisicità anche nella metà campo difensiva, dove per adesso siamo solamente all’ABC (e spesso nemmeno quella). Ma c’è anche un certo gusto nella scoperta di un giocatore che, pur essendo appena stato nominato All-Star per la prima volta in carriera, chiaramente non è ancora al massimo del suo sviluppo. Ma promette di arrivarci. E alla fine del viaggio è il percorso che ci si ricorda, non solo la destinazione.