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Adorare Ibra
05 giu 2023
Le giocate di Zlatan Ibrahimovic, l'influenza dei suoi ultimi anni.
(articolo)
10 min
(copertina)
Foto di Nicolò Campo / Imago
(copertina) Foto di Nicolò Campo / Imago
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L’ultimo pallone in assoluto toccato da Zlatan Ibrahimovic, che poi forse non lo ha neanche toccato davvero, ci è solo andato vicino, è un colpo di testa su lancio lungo del portiere svedese Olsen, in cui viene sovrastato dal difensore belga Arthur Theate. L’aggettivo sovrastato vicino Zlatan non ci sta bene, ma così è. La palla rimbalza su di lui o forse su Theate che gli sta sopra, in ogni caso Zlatan non ha la forza nelle gambe per contendere il rimbalzo caduto nel vuoto. Era il novantesimo minuto di gioco della partita valida per qualificazioni al prossimo Europeo tra Svezia e Belgio, giocata a Solna lo scorso 24 marzo 2023 e persa dalla squadra di casa 0-3. Tripletta di Lukaku, uno dei suoi tanti nemici di una sera, due anni prima.

Theate, che lo sovrasta, è nato il 25 maggio del 2000. In quel periodo Zlatan Ibrahimovic iniziava a farsi strada nella seconda serie svedese guidando il Malmo verso la promozione e proprio quattro giorni dopo la nascita di Theate, quindi il 29 maggio del 2000, ha segnato il gol della vittoria contro l’Umea, un gol che a posteriori possiamo definire pienamente suo, zlatanesco. Dopo aver sbagliato una prima conclusione, parata dal portiere in uscita bassa, Zlatan si avventa sul pallone vagante come un grande felino che scaccia dei piccoli predatori dalla sua preda. Tiene lontani i difensori con una zampata minacciosa, violenta. Poi si gira e mette dentro a porta vuota. Fino a qualche mese prima faticava ad avere minuti in campo, sembrava inefficace, fragile, un trickster fumoso. Invece di cambiare stile, di essere più altruista, meno ambizioso, meno arrogante, in una parola: meno se stesso, Zlatan diventerà via via sempre più consapevole del suo straordinario potere.

Ma le ruote del tempo non si fermano mai e quando la sua storia stava appena cominciando era già nato il giocatore con cui si sarebbe conteso l’ultima palla. Fosse stato un calciatore più “recente”, Zlatan, già ricchissimo e cresciuto in una bolla da quando era adolescente, uno di quelli a cui viene detto di metter su famiglia come investimento sulla propria tranquillità emotiva, magari adesso avrebbe un figlio della stessa età di Theate e il contrasto potrebbe essere ancora più forte con i suoi 41 anni.

Questo gol qui.

L’ultima palla toccata con la maglia del Milan, invece, è un passaggio all’indietro dal dischetto del centrocampo, dopo che l’Udinese aveva segnato il gol del 3-1. In quella partita del 18 marzo Zlatan ha anche segnato il suo ultimo gol, diventando così il marcatore più anziano - parola buffa per una persona di 41 anni - della storia della Serie A. Lo ha dovuto battere due volte quel rigore: la prima Silvestri aveva intuito l’angolo e ci era volato in anticipo ma l’arbitro Doveri ha punito l’ingresso in area di Beto prima della battuta, onorando involontariamente la memoria di Zlatan che tutto avrebbe meritato tranne di sbagliare il suo ultimo rigore. Eppure qualcosa aveva significato quel primo errore. Che persino le cose più facili, quelle che in un altro momento della tua vita avresti fatto ad occhi chiusi, senza pensarci, improvvisamente ti sembrano difficili. Ibrahimovic aveva tenuto la delusione di quel rigore stringendo i pugni, congelato a metà di un’esultanza che, forse, non avrebbe mai più potuto fare. Era rimasto un attimo così, con lo sguardo che bucava il manto erboso della Dacia Arena di Udine, immobile mentre intorno a lui la partita continuava. Poi ha battuto le mani e ha rialzato la testa, alla ricerca della prossima occasione (arrivato subito dopo, quasi per grazia divina).

Volendo però essere un po’ più poetici, cercando di tenere conto anche di quello che Zlatan è stato come carattere, carisma, personaggio, la sua ultimissima giocata può essere un altra. Quando ha iniziato il suo discorso di addio - quando cioè ancora non sapevamo che sarebbe stato il suo discorso di addio al calcio, ma solo al Milan - con ancora le lacrime agli occhi ha provato a cominciare, a parlare sopra le proprie emozioni, come negli ultimi anni ha giocato sopra i propri dolori. “Non respiro, ma va bene” ha detto, e poi ha cominciato il discorso vero e proprio: “La prima volta che sono arrivato al Milan…”. A quel punto però si sono sentiti i fischi dei tifosi del Verona. Di cattivo gusto, per carità, ma a Zlatan hanno sembrato far piacere e nel suo italiano un po’ macchinoso ma comprensibile ha detto una cosa tipo: “Fischiate fischiate, questo è il vostro momento più bello dell’anno, che vedete me”. Perché ci sono anche cose che restano immutabili nel tempo, nel suo caso è l’orgoglio che gli impedisce di abbozzare e quell’ironia megalomane con cui si racconta, che ormai non sembra neanche più ironia. Per questo al momento dei saluti con i suoi tifosi il messaggio, anche se stavolta pronunciato con tono affettuoso, non è molto diverso: “Ci vediamo in giro, se sarete fortunati”.

È stato fantastico, finché è durato. Anche quest’ultima parentesi, questi tre anni e mezzo, sono stati a loro modo incredibili. Forse ce lo siamo dimenticato quanto fossero diverse le cose quando è tornato e, quindi, quanto quelle cose ha contribuito a cambiarle anche lui. Quando è arrivato, a gennaio 2020, Ibra sembrava già prossimo alla fine, se non già finito.Un infortunio al ginocchio lo aveva spedito negli Stati Uniti dove sì, aveva fatto bene, ma con sempre maggiore immobilisimo, come se si stesse trasformando nella statua di se stesso (la statua vera e propria che gli era stata dedicata a Malmo, intanto, era stata mutilata dopo che aveva investito in una squadra rivale). Sembrava una pura questione emotiva, il ricordo di un grande giocatore che torna in una squadra che poteva solo ricordare di essere stata grande. E invece abbiamo scoperto che a quasi quarant’anni Zlatan era ancora dominante, fisicamente e tecnicamente.

Una settimana prima del suo arrivo avevano perso 5-0 contro l’Atalanta. Quattro partite dopo il suo arrivo vanno in vantaggio 2-0 nel derby, Zlatan segna e fa l’assist per Rebic. Poi perdono 4-2 e Zlatan esce dal campo con l’aria di chi avrebbe bisogno di una rage room. Sembrava non aver capito bene in che squadra era arrivato, sembrava frustrato da una decadenza che la sua stessa presenza, a 39 anni, certificava come tale. Di conseguenza la sua frustrazione sembrava fuori luogo, esagerata. Pochi giorni dopo segna un gol con la Fiorentina - che poi gli verrà annullato per un tocco con il braccio involontario e ininfluente sull’assurdità dell’azione - che pare un gol di quando aveva quindici anni di meno, allungandosi la palla con un tocco di punta al limite dell’area dopo averla strappata con un’altra zampata a un avversario.

Difficile misurare la sua influenza, la si nota nelle lacrime di Tonali, nelle dichiarazioni di Leao o in quello dello stesso Zlatan che ha parlato spesso di sé stesso come “padre” dei suoi compagni di squadra. Consapevole che quello che ho definito potere, qualche riga sopra, si estende ormai anche fuori dal campo. Zlatan ha cambiato il Milan, da solo gli ha ridato quell’orgoglio che le vicende societarie degli ultimi anni gli avevano tolto. Theo Hernandez ha detto che Zlatan ha portato “coraggio”.

Un anno dopo il suo ritorno, a gennaio 2021, il Milan era primo in classifica, imbattuto nelle quattordici partite di campionato giocate. Nelle prime sei giornate del campionato 2020-21 lui aveva segnato 10 gol, con 4 doppiette. Quella stagione il Milan arriva secondo e Ibrahimovic salta la parte finale di stagione e anche l’Europeo per l’infortunio al ginocchio sinistro che si è procurato nella partita con la Juventus.

In quella precedente con il Benevento ha fatto questa cosa che solo Zlatan può/poteva fare, una cosa che non vedremo mai più in un campo da calcio:

La stagione successiva, quella 2021/22, gioca persino di più. Segna 8 gol, una doppietta con la Fiorentina in 5 minuti, con il Milan sotto 0-3, che per un attimo aveva fatto sembrare di nuovo possibile l’impossibile. Ma Zlatan, più che altro, serve ormai a rendere possibile il potenziale, a non far spezzare una squadra giovane e fragile. Segna il gol del pareggio con l’Udinese a tempo scaduto, con una specie di rovesciata pachidermica nell’area piccola, che permette al Milan di non perdere la sua terza partita delle ultime cinque. Contro la Roma, a Roma, segna un gol su rigore e viene sommerso dai fischi: sommerso, non sovrastato, anzi gli insulti razzisti sembrano caricarlo e lui allarga le braccia come evocare il demone del razzismo e battercisi una volta per tutte. Ma l'arbitro interrompe tutto ammonendolo. Contro la Lazio, sempre all’Olimpico, a cinque giornate dalla fine, su un cross alzato a campanile da Acerbi, Zlatan svetta e la tocca giusto verso Tonali, che segna il 2-1 al 92esimo.

Alla fine di quell’anno hanno vinto il campionato, scucendo lo scudetto dalla maglia dell’Inter. Semplicemente incredibile. Zlatan avrebbe giocato appena altre sette partite in tutto, prima di annunciare il ritiro la scorsa domenica sera, ma se ci avessero detto quel giorno che sarebbe tornato in splendida forma, o che sarebbe ringiovanito come Benjamin Button a cui si paragonava da qualche anno già, e avesse segnato quindici, venti gol l'anno successivo, in quel momento ci avremmo creduto. Ancora adesso se Zlatan dicesse che è tutto uno scherzo e che vuole tornare per giocare l'Europeo del 2024, beh, non dico che ci crederei ma di sicuro non precluderei la possibilità che ce la faccia sul serio.

Geoff Dyer, nel suo Gli Ultimi Giorni di Roger Federer, una lunga riflessione sulla fine, sul declino della creatività e più in generale sullo smettere di fare quel che si sa fare meglio, ricorda di aver chiesto a un altro scrittore inglese, John Berger, quale fosse il segreto della sua longevità: Berger aveva sempre scritto pensando che quel libro che stava scrivendo sarebbe stato l’ultimo. Dyer lo paragona a quando andava i palestra controvoglia, odiandolo, perché “lo scopo dell’andare in palestra era quello di rimandare il giorno in cui avrei smesso di andarci”.

Per un po’ Zlatan ci ha illuso che potesse davvero andare avanti così all’infinito. Quando è tornato in Italia ha confessato di aver già pensato di smettere ma che era stato Mino Raiola a convincerlo. E ancora un anno e mezzo dopo il suo ritorno, nell’aprile 2021, dopo il secondo rinnovo con il Milan, ormai vicino ai 40 anni, Raiola disse di un suo possibile ritiro: “Non glielo permetto. Sarebbe un peccato far smettere un giocatore così. Sarebbe un peccato per il calcio e lui sa che deve lavorare ancora almeno un paio di anni per me”.

Come sappiamo, nel frattempo Mino Raiola è morto e probabilmente anche questo ha influito sulla scelta di Zlatan. Diciamo, se non altro, che aveva una persona in meno da convincere dopo se stesso. Qualcuno dirà che è il suo corpo ad aver scelto per lui (è quello che, con parole leggermente diverse, gli aveva detto Francesco Totti, e lo aveva fatto prima che Ibrahimovic postasse il video in cui si “svuotava” il ginocchio) ma non è importante. Lo è di più, a mio avviso, la malia di cui siamo stati vittima noi, io, fino a ieri sera. Di cui siamo ancora vittime. Quella formula magica che ci aveva fatto credere che un giocatore di quarantadue anni che viene da un’operazione al ginocchio, che solo negli ultimi due mesi ha avuto problemi alla coscia e al polpaccio, potesse tornare ad essere competitivo in Serie A o in Champions League.

È stato bellissimo credergli. Perdere ogni riferimento con la realtà, abbandonarsi alla pura e semplice idolatria. È stato bello credere che la sua forza di volontà potesse davvero andare oltre l’usura delle sue articolazioni, l’invecchiamento di quella splendida macchina biologica che ha spremuto fino all’ultima goccia ogni giorno, ogni settimana, per così tanti anni.

Ma è stato ancora più bello vedere come questi ultimi anni abbiano cambiato lui. Come il Milan, inteso come insieme di squadra, dirigenza e pubblico, abbia influenzato Zlatan Ibrahimovic trasformando un giocatore ritenuto egoista, simbolo dei mali del calcio moderno per alcuni, che addirittura aveva vestito la maglia dell’Inter, in una leggenda rossonera. È stato bello persino vederlo triste, pieno di emozioni, lui che è sempre stato così freddo e duro. In bocca al lupo, Zlatan. Sappiamo già che sarà il lupo ad avere la peggio.

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