Tra le ultime due settimane di ottobre e l’inizio di novembre, Alexander Zverev ha vinto due titoli ATP a Colonia, ha raggiunto la finale del Master 1000 di Bercy e ha partecipato alle ATP Finals di Londra. Negli stessi giorni una sua ex fidanzata, Olga Sharypova, ha raccontato di aver subito da parte sua violenze domestiche, parliamo di testa sbattuta contro il muro e un tentativo di soffocamento. Pochi giorni prima un’altra ex fidanzata, Brenda Patea, aveva annunciato di essere incinta e di voler crescere suo figlio da sola.
Zverev ha riconosciuto la paternità, ma in un post su Instagram ha negato le accuse come semplicemente non vere. «Abbiamo avuto una relazione, ma è finita molto tempo fa. Non so davvero perché Olga faccia ora simili accuse». Il post ha 102mila like, più di quello precedente in cui tiene in mano il secondo trofeo di fila vinto a Colonia. Nelle conferenze stampa dei tornei ha concesso pochissime risposte riguardo alle proprie vicende private, tra cui alcune molto discutibili: «In tanti cercheranno di togliermi il sorriso, ma sotto questa mascherina è smagliante».
Tramite il suo agente, e con la consulenza di un crisis management PR specialist, ha negato ulteriori commenti. Un commento più ampio è arrivato poi da Londra, dove durante un'intervista lo vediamo rispondere leggendo dal cellulare: «Abbiamo avuto i nostri alti e bassi, ma il modo in cui la nostra relazione è stata descritta in pubblico non è come era. Non è quello che sono, non è così che sono stato cresciuto dai miei genitori. Mi rattrista l'impatto che tali false accuse possono avere sullo sport e su me stesso. Mi spiace davvero che l'attenzione si sia spostata dal tennis, che è quello che tutti noi amiamo».
Le testate sportive hanno fatto circolare rapidamente le notizie. Ben Rothenberg, giornalista collaboratore del New York Times e della rivista Racquet, pochi giorni dopo le prime dichiarazioni ha raggiunto Olga in New Jersey, l’ha intervistata e ha pubblicato un reportage dettagliato uscito il 5 novembre su Racquet. Il suo è stato l’unico approfondimento.
Daria Gavrilova è stata l’unica tennista a esporsi pubblicamente sulla storia di Olga, pubblicando un tweet con l’hashtag #IBelieveOlya. «Avevo paura per lei che venisse attaccata per aver parlato pubblicamente. [...] Penso che devi credere a una donna, mentre per molte persone è più facile colpevolizzare le vittime e dire che lo fanno per soldi. […] Io adoro Sasha, e quando ho letto le sue affermazioni ho pensato, dai, sei meglio di così».
Le istituzioni si sono espresse due settimane dopo in forma di una dichiarazione ufficiale: «L'ATP condanna completamente ogni forma di violenza o abuso. Ci aspettiamo che tutti i membri del Tour facciano lo stesso e si astengano da qualsiasi comportamento violento, abusivo o che metta a rischio gli altri. In circostanze in cui vengono avanzate accuse di violenza o abuso contro qualsiasi membro del Tour, le autorità legali indagano e viene applicato il giusto processo, quindi esaminiamo l'esito e decidiamo la linea di condotta appropriata. In caso contrario, non possiamo commentare ulteriormente accuse specifiche».
Il tennis è lo sport in cui si raccomanda al pubblico di non disturbare il gioco, in cui esiste un regolamento che sanziona i giocatori per oscenità udibili e in cui esultanze scorrette e un grunting di volume troppo alto sono visti di cattivo occhio. È un codice di condotta che ha a che fare con l’immagine del gioco: definisce un terreno di valori che si sovrappone al campo e alle sue regole. Ma ci sono casi in cui il silenzio, tutt’altro che elegante, non è neanche neutrale. Di fronte al racconto di Olga l’ossessione del tennis per il silenzio emerge come patologica. Il modo in cui è stata accolta la sua voce mette in luce un rimosso schiacciante.
Il centro dello statement non è la condanna della violenza (si poteva dire il contrario?), ma il rifiuto di commentarla. Nominare ad alta voce qualcosa che ci mette a disagio, di nascosto in noi e sepolto nell’inconscio, per specificare che ci è estraneo: è un meccanismo molto simile a quello che accade con le forme di rimozione di cui parla Freud («Chi è questa persona nel sogno? Di certo non è mia madre!»). L’ATP formalizza una dichiarazione per respingere qualsiasi coinvolgimento e delegare i provvedimenti a un giusto processo. È un meccanismo di difesa: in questo caso il rimosso è il silenzio stesso.
Nel saggio sulla negazione del 1925 Freud scrive: «Negare alcunché nel giudizio è come dire in sostanza: questa è una cosa che preferirei rimuovere». Il riferimento, nella formulazione della frase, è al dovere di “commentare accuse”: inoltre non si tratta di una semplice frase, ma di una dichiarazione dotata di valore ufficiale, pubblico. Non a caso non viene menzionato il nome di Zverev: il fatto così non esiste neppure nell’enunciato, è un’esplicita abrogazione a tutela del n. 7 del ranking. Il problema è che questo tipo di negazione, questo rifiuto reso possibile da meccanismi linguistici che altera la vita psichica di un individuo, quando agisce nello spazio pubblico arriva a produrre conseguenze politiche.
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Olga non ha denunciato Zverev, e ha dichiarato di non aver intenzione di farlo, e di non volere nulla da lui. Eppure ha parlato pubblicamente di violenze subite da parte sua. Questa scelta non appare così contradditoria se si considerano i pattern più comuni dei casi di violenza domestica, e se si tiene conto delle statistiche. Non esistono dei dati mondiali, ma secondo quelli italiani (raccolti dall’Istat) solo il 12% delle donne che subisce violenza da parte di un partner arriva a sporgere denuncia. Nei casi che finiscono il tribunale, il partner è condannato soltanto il 2% delle volte, mentre nel 34% dei casi vengono emesse misure cautelari.
Fare questo discorso non vuol dire considerare Alexander Zverev colpevole di un reato, o invocare una condanna o dei provvedimenti a suo danno. Ma, due anni dopo l’ondata del #metoo, da cui lo sport è uscito indenne più per caso che per innocenza, non si può pensare che il silenzio sia una risposta adeguata. Il discorso è complesso e delicato: si rischia da una parte di fare un processo pubblico a una persona, e dall’altra di silenziare un’esperienza di sofferenza di un’altra. Ma la posta in gioco non è tanto la credibilità di uno dei due, quanto quella del tennis.
Zverev è il primo enfant prodige della nuova generazione di campioni, in top-10 da almeno quattro anni. Anche Sharypova era una tennista: Marina Marenko, madre di Rublev e allenatrice di tennis, era amica della madre. Da adulta poi ha scelto di non seguire la carriera da professionista, ma ha frequentato gli eventi del tour, ed è tuttora amica della moglie di Medvedev. Molto della loro storia, e di quello che viene riportato sotto la definizione di "violenza domestica", si svolge nelle camere d’albergo delle città dove si giocano i tornei. Il tennis non è semplicemente uno sfondo, ma è il contesto all’interno del quale la presa di distanza è materialmente agita: è il confine della stanza in cui tutti hanno sentito ma stanno facendo finta di nulla. Diventa l’ambiente di cui, a fronte di una crisi, emergono le contraddizioni.
Il 2020 sarà ricordato come l’anno in cui lo sport si è fermato, non soltanto per la pandemia di coronavirus, ma anche per le proteste di Black Lives Matter, che hanno coinvolto tanti giocatori e costretto le diverse Leghe a fare i conti con questioni politiche. A fine agosto, quando a Kenosha la polizia ferisce Jakob Blake e due persone muoiono nelle proteste seguenti, tutte le principali competizioni vengono sospese: NBA, WNBA, le Major League di baseball e di soccer, la NHL. Naomi Osaka annuncia che si unirà alle proteste, rinunciando a scendere in campo per la semifinale del torneo di Cincinnati; successivamente il torneo decide di rimandare le partite. È un anno in cui il tennis deve confrontarsi con le trasformazioni della sfera politica, intesa come spazio di relazioni e conflitti, e anche delle sensibilità individuali. Osaka poi vince gli US Open scendendo in campo ogni giorno con mascherine che riportano i nomi di Breonna Taylor, George Floyd e Tamir Rice; poco dopo Iga Swiatek vince il suo primo slam arrivando a Parigi con una psicologa come membro del team, e parlando dell’importanza della salute mentale.
"Silence is betrayal", si leggeva sui cartelloni delle manifestazioni di BLM. La chiusura dell’ATP sul caso di Alexander Zverev secondo alcuni è perfettamente coerente, ma ci sono almeno tre ragioni per cui invece è estremamente contraddittoria. La prima è che questo non è il primo caso di violenze domestiche che coinvolge un tennista. A maggio 2020, Basilashvili, tennista georgiano n. 33 del mondo, è stato arrestato con l’accusa di abusi nei confronti della ex moglie; rilasciato su cauzione, rischia 3 anni di carcere. Il processo è iniziato a ottobre, e sono state emesse misure cautelari, ma l’ATP non ha preso alcun provvedimento nei suoi confronti – al contrario, a settembre ha pubblicato sul proprio sito ufficiale una sua intervista promozionale. La seconda è che ci sono innumerevoli casi simili accaduti in altri sport che dimostrano che esistono diverse strade percorribili: la NBA ad esempio ha attivato dei canali di ascolto anonimi, e assistenza medica e psicologica dedicate ai giocatori e alle famiglie; tutto questo per quei casi che non arrivano a essere discussi in tribunale, quando invece sono previste sospensioni e altre misure. La terza è l’esistenza del tribunale indipendente dell’ITF e di una regolamentazione strettissima dell’integrità dei tennisti (condotta sportiva, anti-corruzione, anti-doping), e la sistematicità con cui negli anni sono stati ignorati i casi di molestie sessuali e abusi da parte di coach, arbitri, dirigenti, anche ai danni di minori.
Queste le sanzioni emesse nel 2020: agli Australian Open, Roger Federer è stato multato di 3000 dollari per turpiloquio durante il match di quarti di finale contro Tennys Sandgren; mentre Novak Djokovic è rimasto imbattuto nel 2020 fino a quando è stato squalificato dagli US Open per aver colpito un giudice di linea con una pallina – e la sua figura pubblica sembrava dover uscire da quest’anno irrimediabilmente compromessa.
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Allo stesso tempo ci sono stati altri due momenti quest’anno in cui comportamenti di Zverev sono usciti dai confini del campo di gioco, emergendo in modo conflittuale nello spazio pubblico. A fine giugno l’Adria Tour viene cancellato per alcuni casi di coronavirus; Sasha, che aveva partecipato al torneo e avuto contatti con persone poi risultate positive, aveva annunciato che avrebbe osservato un isolamento cautelare di 14 giorni, ma quattro giorni dopo viene ripreso a un party. Dopo due mesi ammette di aver fatto un errore. Due mesi dopo, al Roland Garros, malgrado le stringenti misure di sicurezza, si supera. Dopo la partita persa con Jannik Sinner, annuncia in conferenza stampa di aver giocato con la febbre e difficoltà respiratorie. Dice di aver avuto la febbre già da dopo la partita del turno precedente con Cecchinato, di non averlo detto a nessuno, e che pensava comunque di poter vincere. Agli US Open aveva nominato tra le lacrime, nel discorso di premiazione, i genitori, che non avevano potuto essere presenti perché positivi al coronavirus. Qualche giorno dopo il RG, pubblica su Instagram la foto del test negativo. Anche in questo caso non ci sono interventi istituzionali, anche se la stampa è stata più attenta nel notare la mancanza di senso civico del tennista.
Quando dico che la storia di Olga ha fatto emergere delle criticità nel silenzio del tennis non vuol dire che la notizia sia stata attivamente nascosta. Ci sono centinaia di news brevi sportive che si riferiscono alle sue parole, e hanno un peso in questa vicenda. L’informazione ha le proprie responsabilità, come anche la giustizia, nel non saper dar conto dei casi di violenza di genere; e questo discorso si estende ai social media, all’economia, e a diversi altri ambiti della società. Il racconto di Olga non è diverso da altri racconti di violenza, e non è stato trattato diversamente: questo non giustifica affatto la gravità del riportare questa notizia in modo tendenzioso e delegittimante. Ci sono canali sportivi che hanno pubblicato contenuti utilizzando un linguaggio non semplicemente inadeguato e non professionale, ma apertamente criminale, riportando le violenze utilizzando espressioni come “Zverev nei guai”, “bad boy Zverev”. Se il silenzio del tennis è messo in questione dalla storia di Olga, chi scrive rendendosi complice di una cultura della violenza semplicemente non merita perdono.
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Dopo aver letto la storia di Olga su Racquet, sono passati alcuni giorni prima che il silenzio diventasse così percepibile e disturbante. Mi sono resa conto che continuavo a ripensare alle sue parole e aspettavo delle risposte, delle spiegazioni, o che la storia continuasse, che succedesse qualcosa; avevo bisogno di capire cosa dovevo pensare. Non volevo leggere i commenti sui social, ma veder sprofondare la storia nel silenzio, un giorno dopo l’altro, era anche peggio. Sono andata a cercare il suo profilo Instagram, per trovare il post originale da cui è partito tutto quanto; ero convinta che fosse stato cancellato, il profilo chiuso sotto gli assalti degli hater, e invece era tutto lì. @olyasharypova, crazy Olya, profilo pubblico, 9863 follower, tra cui Medvedev e Veronika Kudermentova.
Il post in cui racconta delle violenze è stato pubblicato il 28 ottobre – al momento il quarto nel grid. L’immagine è una foto di lei di fronte al Colosseo, a Roma, mentre indossa un top bordeaux e dei pantaloni neri. Dietro è pieno di turisti, le persone sono ammassate e senza mascherine, quindi probabilmente la foto non è stata scattata quel giorno, né a ottobre, né nel 2020. Poi ho trovato, su un altro account, una foto di Olga e Sasha del febbraio 2019 in Florida in cui lei indossa lo stesso top. Questa foto potrebbe essere stata scattata a maggio 2019, quando Zverev era a Roma per gli Internazionali BNL d’Italia.
Quell’anno lui è la testa di serie numero 4 del torneo, ha un bye al primo turno, e perde la sua prima partita al secondo turno con Berrettini, wild card. La stagione su terra fino a quel momento è stata disastrosa, ma magari in quella vacanza a Roma stanno bene. La settimana successiva Zverev vince il primo titolo dell’anno a Ginevra, l’undicesimo in carriera, ma il resto della stagione rimane difficile per lui. A luglio interrompe la collaborazione con il supercoach Ivan Lendl dopo appena un anno – non è chiaro per scelta di chi. A Cincinnati viene eliminato all’esordio e agli US Open si ferma ai quarti di finale. Questo dovrebbe corrispondere al momento del tentativo di soffocamento, e di Olga che scappa a piedi nudi dalla stanza di albergo a New York temendo per la propria vita.
Ho sfogliato tutto il suo profilo Instagram, tradotto e letto tutto quello che ho trovato. Non volevo parlare con Olga, ma dopo aver passato troppi giorni in un silenzio che sentivo sbagliato avevo bisogno che Olga parlasse e di starla a sentire.
Questo era il suo post: Nella descrizione del post dice di voler raccontare una storia molto personale e molto difficile che ha vissuto e che appartiene al suo passato. Non fa mai il nome di Zverev.
Scrivo questo in modo che le ragazze che si trovano o si trovavano nella stessa situazione non si sentano sole e trovino la forza di vivere. Sono stata vittima di violenza domestica! La prima volta che è successo, all'inizio della relazione, c'è stato un litigio e mi è stata sbattuta la testa contro il muro, con una tale forza che sono caduta sul pavimento. […] Com'è possibile? Perché non me ne sono andata subito? Perché ho perdonato? A queste domande non ho una risposta. Mi piaceva, amavo sinceramente e volevo stare con questa persona, mi sembrava che questo fosse solo un errore che avremmo risolto insieme e lasciato nel passato. Ma l'unica cosa che valeva la pena lasciare in passato era questa relazione. Nell'agosto dell'anno scorso sono corsa fuori dall'hotel a piedi nudi. Mi trovavo in una strada di New York e non sapevo dove andare e cosa fare. Aveva cercato di strangolarmi con un cuscino, mi aveva sbattuto la testa contro il muro, storto le braccia, e in quel momento avevo davvero paura per la mia vita. Questa non è stata la prima né l'ultima situazione in cui una mano è si alzata contro di me. […] Onestamente, ricordo a malapena quel tempo, perché allora non c'erano i colori della vita, solo nebbia e confusione. Ero una persona diversa, credevo nell'amore e cercavo di mantenerlo. Ma le persone non cambiano, come mostra il tempo. Il rapporto con l'aggressore non è attuale. Ma quando ci sei dentro è molto difficile uscirne. Come ne sono uscita? Questa è una storia a parte, che racconterò in seguito. Perché non starò più in silenzio. Perché questo è un argomento che deve essere discusso. E non ho più paura.
Il post di Olga è in russo. È più uno sfogo che un’accusa, e ha poco più di 2000 like. Lei scrive in russo in tutti i suoi post, e i suoi follower sono russofoni. Non ero una sua follower e, per quanto vorrei, non parlo russo. L’ho tradotto con un traduttore automatico, insieme a qualche decina di commenti in russo. La prima storia in evidenza si chiama “All the truth” e ci sono alcune schermate di storie con wall of text di caratteri cirillici.
Nella descrizione del profilo si definisce fotografa. C’è anche il link al suo canale Telegram, dove scrive (sempre e soltanto in russo), tipo diario, e posta foto. Il canale si chiama @Arbuzzzik, e a oggi ci sono 48 iscritti. A settembre 2019 ha pubblicato un rullino di foto in bianco e nero, tra cui questa:
Sotto scrive “Vedi solo quello che vuoi vedere, senza guardare nei palazzi della mia mente”. Devono essere i giorni della fine della loro relazione. Poco dopo, a ottobre:
La gioia non splende per noi insieme,
solo il dolore.
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Uno degli episodi più drammatici del racconto di Olga è un tentativo di suicidio, avvenuto in albergo a Ginevra durante la Laver Cup. In una lite particolarmente violenta Zverev le avrebbe dato un pugno in faccia, e poi avrebbe lasciato la stanza. A questo punto dell’intervista Olga ha un crollo emotivo: è qualcosa che vuole dimenticare, dire e poi dimenticare. «Stavo morendo emotivamente. Non capivo più nulla. Non riuscivo a capire perché dovevo vivere questo, perché non mi lascia, perché continua a succedere. Capisco che non posso più vivere così. Capisco che non posso più stare con questa persona e che non mi avrebbe lasciata».
Olga trova dell’insulina nella stanza e, sapendo che su un corpo sano può provocare la morte, se la inietta. È chiusa in bagno, Zverev torna, capisce e inizia a pregarla di aprire la porta. Lei piange e non apre, lui fa intervenire un funzionario del torneo, che le parla attraverso la porta dicendole che vogliono solo aiutarla, finché lei non apre.
Il funzionario del torneo nominato da Olga ha rifiutato di commentare facendo appello a una deontologia professionale che gli impone riservatezza sul privato dei giocatori. Nel suo racconto ci sono anche altre prove, altri testimoni, messaggi. Questo però è il momento in cui il tennis ha avuto un coinvolgimento diretto nella loro storia. Sul momento il funzionario, come essere umano, ha sentito che c’era un altro essere umano che stava piangendo, ha capito istintivamente che questa persona stava male e aveva bisogno di essere aiutata. La rimozione arriva dopo, quando non si tratta di riconoscimento immediato e naturale ma si passa al piano del discorso, al riconoscimento nello spazio pubblico, alla dimensione politica. Ha a che fare con la possibilità di dire “la violenza domestica non ha nulla a che fare con me, con il tennis, con il discorso pubblico”.
Il 20 novembre, durante una conferenza stampa delle ATP Finals, è Novak Djokovic a dire qualcosa di interessante. Gli viene rivolta una domanda che fa riferimento al suo ruolo politico nel circuito e a come altri sport hanno risposto a casi di violenza predisponendo delle procedure interne. Djokovic risponde, non solo esprimendosi a favore della possibilità da parte dell’ATP di dotarsi di una policy per i casi di violenza domestica. Ma le sue prime parole sono: «Sì, so a chi alludi. Voglio dire, ho sentito cos’è successo. Non sappiamo cos’è successo davvero. Conosco Sasha da anni, da quando era molto giovane».