
Immaginate di trovarvi in panchina in uno degli stadi più iconici dell’America Latina. La tua squadra sta affrontando uno dei club più vittoriosi di tutti i tempi e i vostri uomini proprio non riescono a liberarsi dalla pressione. Dopo soli duecentosettanta secondi dal calcio d’inizio il portiere del Barcelona de Guayaquil, che si chiama José David Contreras ed è il vostro portiere, ha travolto Sebastián Driussi, centravanti del River Plate: calcio di rigore. Contreras lo ha parato, e di lì in avanti ha cominciato a inanellare un miracolo dopo l’altro: diciassette volte quelli del River Plate gli tirano contro, diciassette volte lui respinge, blocca, scongiura. I sentimenti, c’è da comprenderlo, sono contrastanti: più che esaltato sembra frustrato quando calcia questo rinvio stanco. È il momento, ti dici, di dargli un’iniezione di fiducia.
Vedi il pallone arrivare verso di te.
Ti chiami Segundo Alejandro Castillo, hai un passato da calciatore, non sei per nulla imbolsito e ti esibisci in uno stop delizioso.
Per fortuna hai scelto di indossare uno smoking rosa confetto.
Quanto ci vuole a diventare un meme?
È sufficiente uno stop del genere, con un outfit del genere?
A quanto pare: sì.
A Segundo Castillo cominciano a piovere addosso adulazioni che si spingono ai confini della presa per il culo, fino a fare il giro completo e tornare ad essere, di nuovo, adulazioni.
Lo paragonano a Ryan Gosling al lancio di Barbie, il film o a Marge Simpson in quella celebre puntata alle prese con un completo di Chanel.
L’eleganza tutt’altro che compunta, anzi vistosamente cursi, gli vale un soprannome da baronetto: Sir Second Alexander Castle. Secondo, perché prima le signore. Castello perché è là che vivono le principesse.
Il nome dello stadio che fa da palcoscenico (vuoto, per l’occasione, e i tifosi millonarios non sanno cosa si son persi) alla sua prodezza finisce per diventare una perfetta didascalia alla sua figura: MONUMENTAL.
Conduci un’esistenza normale, e a un certo punto, d’amblè: diventi un meme. C’est la vie.
Eppure, a pensarci bene, ognuna di queste scene fa qualcosa di più di strapparci un sorriso: ci racconta, tassello dopo tassello, il profilo di un uomo che – sulla panchina del club più titolato d’Ecuador – si sta giocando la propria credibilità nella competizione per club più importante del continente americano.
Ogni storia di questo tipo ha un momento zero. Il punto di svolta del cammino del Barcelona in Copa Libertadores, ironia – è proprio il caso di dire – della sorte, è coinciso esattamente con l’esplosione virulenta della figura di Segundo Alejandro Castillo: la sfida all’ultimo turno dei preliminari contro il ben più titolato Corinthians.
Cosa sarebbe successo se in quella gara di metà marzo, finita 3-0 per il Barcelona (il 2-0 del ritorno per i brasiliani non sarebbe bastato a sovvertire gli esiti della qualificazione) Segundo Castillo avesse sfoggiato per la prima volta uno smoking e il Barça avesse preso un’imbarcata epocale?
Il fatto è che Segundo ha un’idea piuttosto precisa del suo ruolo: anzi, del ruolo del suo outfit. È così dentro il personaggio, così consapevole che non si fa nessun problema a cavalcare l’onda.
Qualche settimana fa, in occasione delle elezioni presidenziali ecuadoregne, si è presentato al seggio vestito da sceicco. Nell’ultima partita di Libertadores, una sconfitta contro l’Universitario de Lima, la squadra per la quale faceva il tifo Mario Vargas Llosa, ha indossato una giacca con trame floreali, con tanto di papillon, garofano all’occhiello e pochette rosse rubino.
È il primo a mostrarsi pienamente a suo agio quando gli chiedono di fare un power ranking dei suoi outfit. Al termine di un’intervista concessa al sito della Libertadores dice «visto, mi avete chiesto solo dei vestiti e niente sulla squadra». Non si prende tutti i meriti, oh no, non si fa problemi a confessare che spesso a scegliere cosa indosserà in panchina pensa sua moglie, Luisa Katherine Vidal, titolare di un salone di bellezza a Guayaquil.
Ha detto: «Non faccio che distogliere gli sguardi, e la partita passa in secondo piano». Quella che va in scena ogni volta, dunque, è una vera e propria operazione di depistaggio, alla fine neppure così inedita: l’allenatore concentra su di sé tutte le attenzioni e di conseguenza tutta la pressione, liberando in qualche modo i suoi uomini, dandogli un motivo in più per non fallire. Anche perché come ci si può coprire di ridicolo in campo più di quanto lui, in piena coscienza, fa in panchina ogni volta che indossa una cravatta animalier in pendant con un paio di scarpe argentee glitterate (se interessa le ha acquistate in Egitto), un panciotto accostato a un baschetto in pieno stile Peaky Blinders, smoking bicolori, abbinamenti che dire azzardato è dire poco?
Quando spiega che sente l’esigenza di «essere all’altezza della squadra che alleno, e del torneo che stiamo giocando», nondimeno, Segundo è serissimo: la Libertadores è in effetti la Champions League del Sudamerica, alla fase a gruppi si incontrano le migliori realtà del continente e Segundo sente l’esigenza di fare del suo meglio. Anche con questo stratagemma. «Gli strappo sempre un sorriso. Quando i miei uomini mi vedono conciato così, viviamo un momento di leggerezza, e la leggerezza è fondamentale per chi dovrà prendere decisioni importantissime, in campo, in una sola giocata».
A vederlo dirigere i suoi sembra perfettamente padrone dei propri mezzi, eppure Castillo non siede sulla panchina del Barcelona – a dirla tutta, su una panchina tutta sua – da chissà quanto: è subentrato all’argentino Ariel Holan come allenatore ad interim lo scorso ottobre, per le ultime cinque partite del campionato. Due pareggi e tre vittorie che gli sono valse poi la riconferma quest’anno. È alla prima esperienza in assoluto in panchina, abbiamo detto, nonostante sia parte dello staff tecnico del Barcelona Sporting Club de Guayaquil già da qualche stagione, cioè sostanzialmente da quando, appesi gli scarpini al chiodo, è passato da partecipare agli allenamenti a dirigerli in qualità di preparatore atletico e assistente dell’allenatore. Ha visto alternarsi un sacco di direttori tecnici, ha sviluppato un rapporto profondo soprattutto con la squadra: solo fino a poco tempo prima, alla fine, era uno di loro, e tale ha continuato a sentirsi.
«Sapevo che prima o poi Dio mi avrebbe dato la possibilità di prendere il timone della squadra», ha detto. Il giorno in cui ha diretto il primo allenamento ha fatto arrivare un pastore evangelico. Ai suoi uomini ha fatto spiegare che «quando ti alzi dal letto la prima cosa che devi fare è rendere grazie a Dio, e chiedergli coraggio, fede ed entusiasmo per quello che dovrai fare».
Lo state immaginando anche voi gridare esagitato «Amen fratello!»?
Ora: il Barcelona Sporting Club non è una squadra qualsiasi. È la squadra più gloriosa, titolata, storica dell’Ecuador (per saperne di più sulla sua fondazione e la sua mistica leggete questo reportage da lì di Roberto Scarcella): per facilità diciamo che è un Barcellona di Spagna, ma senza l’esistenza di un Real Madrid. E tradizionalmente, negli ultimi tre lustri, non ha mai avuto un direttore tecnico ecuadoregno dall’inizio della stagione, e se ce l’ha avuto è stato per interregni infinitesimali: l’ultimo è stato Alex Aguinaga, 14 anni fa, durato un semestre. Gli altri ecuadoregni? Sevilla, nel 2005: ventisei giorni. Washington Muñoz, 2006: tre mesi. Poi si sono succeduti 7 argentini, 3 uruguayani, qualche cileno, e in mezzo c’era sempre Segundo Castillo, Mr La Costante, ora per tre giorni, ora per un mese e mezzo, traghettatore perfetto, benvoluto dai giocatori (ma non dagli allenatori esonerati), dai tifosi, eppure nei confronti del quale la dirigenza beh, non è mai stata troppo convinta. Fino a quest’anno. E quest’anno non è un anno qualsiasi, perché il Barcelona Sporting Club festeggia il centenario della sua fondazione.
Lo scorso gennaio, durante l’abituale Noche Amarilla che si tiene per presentare la squadra e festeggiare l’anniversario della fondazione, l’ospite d’onore è stato Carles Puyol, maglia numero 100, in campo per una mezz’ora peraltro a buon livello. Negli anni precedenti, in occasioni del genere, avevano vestito la maglia canarino Ronaldinho, Forlán, Kakà, Mascherano, Tévez, Agüero, e poi i nostri Pirlo e Del Piero.
Castillo si è conquistato la fiducia ribaltando le relazioni tecnico-giocatori in auge sotto Holan, adottando un approccio più friendly, ma anche mettendo sul piatto una proposta di gioco proattiva, improntata su un 4-4-2 a propulsione offensiva (ha spesso detto di essere un grande fan di Carlos Bianchi), e cementando i legami all’interno della rosa (anche, sì, passando attraverso un outfit sopra le righe, o la convocazione di un pastore evangelico). Ha avuto anche fortuna? Magari sì, i risultati sono arrivati da subito e una serie di infortuni che sembravano capitati ad hoc gli ha permesso di far giocare un po’ tutti, di applicare un turnover che gli ha restituito uomini sempre freschi. Di suo, ovviamente, ha messo un carisma innegabile che gli ha consentito di mettere in panchina anche mostri sacri come Felipe Caicedo senza per questo scatenare sommosse popolari.
«Per il tipo di giocatori che abbiamo, la nostra caratteristica principale dovrebbe essere il possesso», ha detto a inizio stagione. Nonostante gli fosse chiaro che questo tipo di dominio il Barcelona avrebbe potuto esercitarlo più che altro in patria, non in Libertadores. Dove ci sarebbe stato da soffrire, da difendersi, il che non significa che non si potesse farlo attaccando. Il 3-0 sul Corinthians che, al momento, è il risultato più brillante è nato proprio da questi presupposti.
Il più abile sortilegio di cui è stato in grado, comunque, continua a restare quello di aver infuso ai suoi una specie di consapevolezza in se stessi fatta di realismo, onestà e consapevolezza dei propri limiti: «Sbaglierò una scelta o un cambio, certo, sono un essere umano, è normale, ma cercheremo sempre di farlo con la massima sincerità e accertandoci che tutti, in squadra, stiano bene».
Questa vicinanza ai giocatori si traduce spesso con allenamenti in cui el Mortero (uno dei suoi soprannomi, l’altro è Chocolate ma senza connotazioni razziali, il soprannome deriva dal fatto che quando era in attività metteva certi passaggi che erano veri cioccolatini) scende in campo, si mescola ai suoi giocatori, sembra uno dei suoi giocatori: sembra, anzi, il migliore dei suoi giocatori. Quello più in forma. Quello che ci crede di più. Quello che si diverte di più.
Imponente, tonico, grosso: Castillo sembra ancora il calciatore esploso ai Mondiali di Germania di quasi vent’anni fa. A La Tri era arrivato di gran carriera, dopo essere sbocciato giovanissimo (a 14 anni se ne era andato da casa, lasciando i genitori e sei fratelli – lui, il secondogenito, deve a questo il suo nome, Segundo) all’Espoli. Al primo anno di giovanili, il padre era morto: «una motivazione in più per diventare professionista», dice.
Nell’arco della carriera da giocatore ha vestito la maglia della Nazionale 89 volte: ha giocato un Mondiale, quello del 2006, e un altro è andato vicinissimo a giocarlo, quello del 2014, se non si fosse infortunato a poche gare di distanza dalle convocazioni. In mezzo un passaggio alla Stella Rossa di Belgrado, dove è una specie di mito per aver segnato una doppietta (una girata in area e un bolide da vicinissimo) nel Derby Eterno contro il Partizan.
Qua un altro gol sempre contro il Partizan (in un derby però perso). In totale con la Stella Rossa ha segnato 9 gol in campionato: un terzo contro i rivali cittadini.
Giocare al Maràkana non è propriamente come giocare in qualsiasi stadio ecuadoregno: è stata questa l’educazione sentimentale di Castillo, che non a caso, prima della sfida al Corinthians nei preliminari di Libertadores, ha detto «ho giocato con centomila persone contro, abbiamo tutte le caratteristiche e la personalità per affrontare la partita come si deve».
Boban Stojanovic, un tifoso che mi ha parlato di lui su Messanger, mi ha detto: «non abbiamo mai avuto gran fortuna con i giocatori stranieri, perciò eravamo piuttosto cauti quando è arrivato: è diventato subito il miglior straniero che la Stella Rossa avesse in quel momento, amavamo tutti quel ragazzo». La definitiva consacrazione sembrava a un passo: si è trasferito all’Everton, ma dell’esperienza con i Toffees rimane questo gol in Europa League e il rimpianto per un prestito non rinnovato. Un passaggio senza gloria ai Wolverhampton Wolves, poi qualche peregrinazione in Messico (Pachuca e Dorados de Sinaloa, dove ha lasciato traccia segnando due gol, di cui l’ultimo decisivo al 95’, contro i Chivas Guadalajara allenati da Almeyda), un passaggio all’Al-Hilal saudita prima di fare ritorno in Ecuador.
Tutte queste peregrinazioni per il mondo sono servite non solo per costruire il suo bagaglio esperienziale, ma anche per arricchire il guardaroba: «tutte le giacche, gli smoking, gli abiti li ho comprati quando ero in Europa, sono durati perché li ho conservati con cura. Quando giocavo in Inghilterra», ha detto, «venivamo coinvolti in un sacco di attività dalla proprietà, e dovevamo andare vestiti bene, oppure usare gli abiti che la società ci faceva confezionare per eventi speciali». State immaginando anche voi Segundo Castillo che entra in una sartoria di Liverpool e chiede uno smoking rosa per un cocktail formale? Lo vedete anche voi in uno dei souk di Ryadh mentre negozia per l’acquisto di un dishdasha, un guthra e rispettivo agal per un tè nel deserto con i compagni e la proprietà (peraltro la stessa mise con cui, qualche decennio dopo, andrà a scegliere il proprio presidente)?
A Segundo Castillo la situazione non è ancora sfuggita totalmente di mano. Magari è sfuggita a noi.
Ovviamente quest’aria rarefatta della viralità, questo sapere di proffondere un’aura imponente lo porta, qualche volta, a sognare a occhi troppo aperti (e voce, forse, troppo alta): non nasconde il pensiero di puntare alla panchina della nazionale dell’Ecuador, sempre con umiltà e semplicità, ci mancherebbe, ma sa anche che la strada è lunga.
Eppure sembra una candidatura, in qualche maniera, credibile, perché se c’è qualcosa che proprio non si può recriminare a Castillo sono il senso del dovere e la responsabilità: al di là dell’appariscenza, al di là del folklore, Segundo Castillo è ben consapevole di essere l’allenatore di una squadra che quest’anno compie cento anni e che sogna di mettere in bacheca la Libertadores per la prima volta nella sua storia, e a differenza di tutti noialtri che facciamo gli spiritosi quando lo vediamo vestito in rosa, pensate un po’: ci crede davvero.
C’è da giurare che abbia addirittura già un vestito pronto, da sfoggiare per l’occasione.