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21 apr 2017
Come Dirk Nowitzki è diventato un simbolo della pallacanestro nel mondo.
(articolo)
33 min
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Romantische Straße

Per chi si avventura lungo la strada romantica partendo da sud, la maestosa facciata della Würzburger Residenz rappresenta il punto d’arrivo. Per Dirk Nowitzki, invece, quello è il punto di partenza, dove tutto è cominciato.

Würzburg, profonda Baviera, una città che all’alba del 17 marzo 1945 di fatto non esiste più. Il giorno precedente, in un bombardamento ancor più devastante rispetto al più celebre di Dresda avvenuto un mese prima, l’aviazione britannica aveva distrutto il 90% del paesaggio urbano. Le vittime del raid sono più di 5.000 e quando, tre settimane dopo, gli alleati prendono possesso della città ci sono solo macerie, pile di cadaveri e la popolazione locale sopravvissuta è allo stremo. Il processo di ricostruzione sarà lungo, i detriti lasciati da quei terribili 20 minuti di morte e devastazione saranno smaltiti del tutto soltanto a metà degli anni Sessanta. Il risveglio civico ed economico andrà di pari passo, tra le intuibili difficoltà e la ferrea volontà di lasciarsi alle spalle l’incubo del nazismo.

Questa è la Würzburg dove nasce e cresce Jörg Nowitzki. Dotato di fisico e altezza non comuni, il ragazzo matura un’attrazione fatale per la pallamano, sport in cui viene considerato un talento di livello mondiale. Purtroppo per lui, la pallamano gode di una popolarità relativa, e di percepire un vero stipendio da professionista non se ne parla nemmeno: per mettere insieme pranzo e cena occorre fare altro. Nowitzki si adegua e se con la pallamano non trova modo di mantenersi, nel circuito sportivo cittadino incontra l’amore. Helga Bredenbröcker è alta quanto Jörg, ma lo sport a cui ha dedicato la sua vita è un altro: la pallacanestro. Non che qui i marchi piovano dal cielo, ma le possibilità di ritagliarsi una carriera dignitosa sono decisamente più favorevoli. La futura signora Nowitzki arriverà anche a vestire la maglia della nazionale, disputando il torneo femminile di Eurobasket 1966 in Romania. Dall’unione nascono due eredi: Silke e, quattro anni più tardi, Dirk.

Il corredo genetico viene trasmesso in perfetta continuità, ma se per Silke è subito chiaro quale sia il percorso da intraprendere, per il giovane Dirk i primi passi sono decisamente più tortuosi. La sorella maggiore diventa in fretta una gloria locale e, seguendo le orme di mamma Helga, arriverà a vestire la maglia della nazionale a metà anni Novanta per poi proseguire come volto televisivo e infine manager del fratello. Dirk, spinto dal padre che cerca in ogni modo di convincerlo del fatto che la pallacanestro sia roba da femmine, prova ripetutamente a lanciarsi nella pallamano. L’impetuosa crescita in altezza, però, non lo aiuta. Anzi, Dirk è sempre più a disagio trovandosi a competere con pari età decisamente più minuti e per questo dotati di maggiore mobilità. Affascinato dall’idolo nazionale Boris Becker, prova allora a passare al tennis, ma anche sotto rete l’altezza è più un problema che una risorsa. A tredici anni, infine, convinto dai consigli degli insegnanti, decide di provare con la pallacanestro. Comincia a giocare nella squadra del liceo locale, intitolato al fisico Wilhelm Röntgen, l’inventore dei raggi X. L’altezza da imbarazzo si trasforma velocemente in dono e Dirk si innamora del gioco.

Un amore che non lo abbandonerà mai, nemmeno per un secondo, nei successivi venticinque anni.

Dalla squadra del liceo a quella cittadina, il passo è breve. A 15 anni Nowitzki è già in grado di battagliare nel pitturato contro avversari parecchio più vecchi di lui e appare ben avviato verso un’onesta carriera di centro nella non irresistibile seconda serie tedesca, magari con l’ambizione di poter diventare un giocatore professionista una volta terminato il liceo. Fin qui è la tipica storia di provincia, del talento locale che attira un po’ di attenzioni e promette di portare Würzburg sulla piantina della Germania da poco riunificata.

Nell’estate del 1994, però, poco prima di compiere 16 anni, Dirk fa il primo di una serie d’incontri destinati a cambiargli la vita, senza dubbio il più decisivo. Holger Geschwindner, ex-nazionale tedesco, ama il sibilo delle scarpe che inchiodano sul parquet e, a cinquant’anni suonati, ogni sabato carica nove coetanei sul suo vecchio Westfalia e guida lungo le strade della Bassa Franconia per sfidare le altre squadre iscritte al campionato senior regionale. Il livello della competizione è rivedibile, l’impianto di gioco spesso e volentieri è in condivisione con altri tornei, tra cui quello giovanile. Il DJK Würzburg, quel pomeriggio, gioca in trasferta e la sfida con la squadra locale va ai supplementari. Geschwindner, nell’attesa che il campo venga liberato, decide di dare un’occhiata a quel ragazzo di cui si sente tanto parlare tra appassionati e addetti ai lavori. Se l’innamoramento di Dirk per la pallacanestro è stato un percorso lungo e accidentato, quello di Geschwindner per il giovanissimo Nowitzki è un vero e proprio colpo di fulmine che lo colpisce sulle tribune del palazzetto di Schweinfurt.

Dai la cera, togli la cera

Cresciuto anche lui a Würzburg, Geschwindner ha ereditato il trasporto per la pallacanestro dalla frequentazione coi soldati americani rimasti a presidiare la città nel lungo dopo-guerra, costruendosi poi una lunga carriera in Bundesliga arricchita da oltre 150 presenze con la Nationalmannschaft. Appese le scarpe al chiodo, si dedica all’altra sua grande passione: la fisica. Non solo, ma esplora e trova un modo tutto suo per fondere scienza e sport, che sfocerà nella creazione dell’Istituto per il Nonsenso Applicato, anche se gli esordi non sono brillantissimi.

In un mondo caratterizzato dalla ritrosia verso le contaminazioni con altri ambiti, Geschwindner viene catalogato come ex-giocatore dalle teorie strampalate. La verità è che i suoi studi — che comprendono sofisticati sistemi per elaborare le parabole di tiro nell’atmosfera di Marte o sulla Luna — sono teoricamente ineccepibili, solo che all’epoca non aveva ancora trovato il soggetto da laboratorio in grado di provarne l’efficacia. Quel ragazzino biondo, che tra le pieghe della più classica delle goffaggini adolescenziali dimostra una familiarità con la palla a spicchi non comune, sembra proprio fare al caso suo.

Tuttavia, dal loro primo incontro ai margini del campo di Schweinfurt, non scaturiscono premesse incoraggianti. La domanda diretta spiazza Dirk: «Vuoi diventare una stella in Germania o uno dei migliori giocatori di sempre?» Per un ragazzo che fino a due anni prima preferiva pallamano e tennis, forse era un po’ troppo. Geschwindner, agli occhi del giovanissimo Nowitzki, risulta poco più di un vecchio eccentrico. Nelle settimane successive al primo incontro, però, il vecchio eccentrico insiste e finisce per chiedere ufficialmente ai coniugi Nowitzki di poter allenare il figlio. Il parere positivo di mamma Helga, che ben conosce l’ex-capitano della nazionale, ha un peso specifico importante nell’orientare la scelta. I metodi d’allenamento ideati da Geschwindner sono tutto fuorché tradizionali e partono dal presupposto che lo sviluppo di un atleta debba comprendere l’accrescimento della persona.

Fuori dal campo, insegna a Dirk a suonare strumenti musicali, nozioni i cui risultati si riveleranno col tempo modesti, consiglia la lettura di libri sugli argomenti più disparati, dalla poesia alle scienze e lo convince a non lasciare la scuola prima di aver ottenuto il diploma. Nelle parole del suo mentore, l’intenzione è di evitare che Dirk si trasformi in uno di quelli che Geschwindner definisce fachidioten, ovvero idioti professionisti, gente ultra-preparata nel proprio campo ma che ignora tutto ciò che ne esula. Il concetto trasmesso, che risulterà essenziale per l’equilibrio psicologico di Dirk negli anni a venire, è che lo sport non è tutto.

Le esercitazioni sul campo, a maggior ragione, non seguono i dettami classici. Per Geschwindner il basket è quanto di più vicino al jazz e transitare sul parquet altro non è che un esercizio complesso di danza. Così, assistito dall’ex-compagno Ernie Butler al sax, fa allenare Dirk a ritmo di musica, studiando per lui esercizi che hanno poco a che spartire con l’ortodossia cestistica, dallo yoga all’uso corretto della respirazione. Il tutto avviene tra le mura dell’angusta palestra del liceo Röntgen, dove quando fuori fa caldo l’atmosfera si fa irrespirabile e in inverno occorre indossare capi pesanti per non congelare. Ma Geschwindner, da buon tedesco, non disdegna nemmeno l’attività all’aria aperta. Invece di rinchiudere il suo pupillo in sala pesi, lo fa uscire per remare nel vicino lago o gli fa spalare palle di fieno nella fattoria di proprietà.

Se non è una trasposizione nella realtà degli allenamenti immaginati nel cult Karate Kid, poco ci manca.

A dispetto dell’iniziale diffidenza del giocatore, il rapporto con il nuovo mentore cresce in parallelo ai miglioramenti del ragazzo sul campo. Adolescente timido e impacciato, Dirk trova nello strambo mondo di Geschwindner l’ambiente perfetto in cui coltivare la sua personalità ancor prima che le sue abilità con la palla. I risultati sono evidenti e il nome comincia a girare con insistenza tra gli addetti ai lavori. Il Barcellona gli offre il suo primo contratto da professionista, Dirk ringrazia ma dice no: deve finire la scuola e poi partire per il servizio militare. Ovviamente, per un prospetto di quel livello, le scorciatoie per evitare entrambe le incombenze ci sarebbero, ma siamo nell’universo di Dirk Nowitzki e nell’universo di Dirk Nowitzki non si fa ciò che tutti si aspetterebbero, si fa sempre quello che è giusto fare. Il resto del mondo, col tempo, se ne renderà conto.

Nel 1996 Geschwindner diventa capo allenatore del DJK e il suo pupillo, fin lì ai margini delle rotazioni, diventa da subito il perno della squadra: 19.4 punti di media e promozione sfiorata. L’anno successivo, dopo aver portato la squadra della sua città in Bundesliga segnando 28 punti di media, Dirk sente che il momento per il grande salto è arrivato. Quella che inizia a primavera del 1998 è un’avventura lunga quasi vent’anni, difficile da rappresentare nella sua interezza. Come per una delle opere più celebri di un altro illustre tedesco, il Parsifal di Richard Wagner — guarda caso andato in scena per la prima volta nel 1882 a Bayreuth, poco più di un’ora d’auto da Würzburg — il percorso in NBA di Nowitzki può essere suddiviso in tre atti preceduti da un antefatto.

Antefatto: Il capolavoro della famiglia Nelson

Nella primavera del 1998, quando decide di dichiararsi per l’imminente Draft, Nowitzki è impegnato nell’espletamento del servizio militare. Al Nike Hoop Summit di fine marzo impressiona tutti vincendo il titolo di MVP della manifestazione, ma di tempo per partecipare ai camp di preparazione non ce n’è. Dirk riesce a fare giusto due provini con le squadre che hanno manifestato maggior interesse nei suoi confronti. Rick Pitino, che siede sulla panchina di Boston, ne rimane stregato e chiede al front office dei Boston Celtics che venga fatto il possibile per vestirlo di bianco-verde. La fascinazione scaturisce dalle caratteristiche uniche di Nowitzki: fin lì, un lungo della sua statura che tirasse con quella pulizia nell’esecuzione non solo non si era mai visto, era difficile anche da immaginare.

L’altra squadra che ha un interesse per il biondino da Würzburg è Dallas. Donnie Nelson, incaricato dal padre, incontra Dirk, ovviamente accompagnato dal suo mentore. La leggenda vuole che Nowitzki esegua alla perfezione tutte le richieste dello staff tecnico, Donnie in testa, esibendosi in tiri con entrambe le mani. Quando Nelson Jr. esce dal provino, chiama subito il padre. Il messaggio è chiaro: dobbiamo mettere le mani sul tedesco. I Mavericks hanno la sesta scelta, quattro posizioni più indietro ci sono i Celtics. La questione però è più complicata di quanto sembri perché i due Nelson, oltre a portarsi a casa il rookie, vogliono puntare su Steve Nash, che al momento vestiva la maglia dei Phoenix Suns. Viene architettato un complesso giro che coinvolge Milwaukee come terza sponda e il risultato finale è che Dallas sceglie Robert Traylor con la sesta, i Bucks Nowitzki alla nove e Pat Garrity alla diciannove — e magicamente ognuno ottiene ciò che vuole. I Bucks hanno Traylor, i Suns Garrity e in Texas sbarcano Nash e Nowitzki. Se non si tratta di un capolavoro di mercato questo, allora i capolavori non esistono.

Nonostante i Mavs abbiano messo in piedi una tale macchinazione pur di averlo tra le loro fila, Dirk è tutto fuorché convinto di approdare subito in NBA. È solo dopo diversi consulti, durante i quali Geschwindner recita il ruolo dello scettico e i due Nelson si prodigano per fargli capire quanto puntino su di lui, che il ragazzo si convince.

Atto I: I tormenti del giovane Dirk / Biologicamente evoluto

Il primo autunno americano di Nowitzki è però caratterizzato dal lockout e dalla conseguente impossibilità di allenarsi con la sua nuova squadra. Il Barcellona, che l’aveva già cercato quando era ancora 16enne, si ripropone, così come diversi altri top team d’Europa. Ma, come detto, questo è l’universo di Dirk e quindi si torna a Würzburg. Tempo di disputare tredici partite con i vecchi compagni e arriva la chiamata da oltreoceano: si gioca.

L’anno da rookie di Nowitzki è un calvario: il salto dalla seconda serie tedesca all’NBA è di quelli da far perdere l’equilibrio, e Dirk pensa ripetutamente di rinunciare a tutto e tornarsene a casa. Forse, s’interroga, l’idea di fare ancora un paio d’anni in Europa non era così peregrina. La fisicità del gioco lo mette in seria difficoltà, in difesa subisce l’avversario di turno, immancabilmente più grosso e atletico, e in attacco fatica a dispiegare l’innegabile talento a disposizione. A trattenerlo sono la fermezza con cui il suo mentore detta la linea di condotta — una volta presa una decisione la si porta avanti comunque — e l’amicizia con un compagno di squadra. Quello con Steve Nash è infatti il secondo incontro decisivo nella vita di Nowitzki. Un canadese mezzo inglese e mezzo gallese, nato in Sudafrica e snobbato dai grandi college americani e un tedesco spaesato che fatica ad adattarsi alle abitudini locali, due nerd nel cuore del Texas: il rapporto non può che decollare.

In campo ci vuole un po’ di più, ma l’anno successivo i due sono già una coppia tra le più prolifiche della lega. Nowitzki raddoppia le proprie medie e trascina i Mavs a un soffio dai playoff. Arriva anche secondo dietro a Hornacek nella gara del tiro da tre punti all’All-Star Game, dimostrando una meccanica di tiro strabiliante per un atleta di 2 metri e 13. Il suo ruolo in campo rimane però sfumato: Nelson lo fa giocare spesso da ala piccola per sopperire le carenze fisiche, ma la difesa rimane un problema e la fragilità nella propria metà campo — che rimarrà un difetto anche una volta raggiunto lo status di superstar — gli vale il soprannome di “Irk", ovvero il nome di battesimo senza la “D” di difesa. Nel gennaio del 2000, però, Dirk fa il terzo e penultimo incontro decisivo della sua carriera.

Mark Cuban, magnate e tifosissimo dei Mavs, compra la franchigia da Ross Perot Jr. Insieme all’assegno da 285 milioni di dollari, Cuban porta in dote un entusiasmo sconfinato e la ferrea volontà di trascinare Dallas ai vertici della NBA. Per farlo, si punta forte su Nash e Nowitzki, sodalizio sempre più vincente dentro e fuori dal campo. Nelle quattro stagioni successive i Mavs, grazie al talento del loro duo e della prolificità di Michael Finley, sono il laboratorio in cui germoglia il seme dello small ball. Sotto la guida del sempre più eccentrico Don Nelson diventano una squadra d’élite nella Western Conference, arrivando a giocarsi la finale con i San Antonio Spurs nel 2003. In quel contesto, Nowitzki, che nel frattempo ha lavorato sulla sua massa muscolare mettendo su quasi dieci chili, si evolve in una macchina da doppie doppie e si guadagna la prima di una lunga serie di convocazioni all’All-Star Game. Tuttavia, l’eliminazione al primo turno dei playoff l’anno successivo, avvenuta per mano dei Sacramento Kings, convince Cuban a cambiare pagina. Per arrivare dove vuole lui, ad alzare il tanto agognato Larry O’Brien Trophy, serve altro. La pallacanestro anarcoide di Nelson mostra limiti che il proprietario della franchigia vorrebbe superare senza esitazione. Per motivi economici riguardanti il rinnovo contrattuale, durante l’estate 2004, Nash viene lasciato partire verso Phoenix. Di fatto è la fine di un ciclo, per Dirk e per i Mavs — quello della scalata verso i vertici dell’NBA vissuta con spensieratezza.

Nonostante l’assenza del loro carismatico playmaker e pur con tutte le problematiche relative alla guida tecnica, a metà marzo i Mavs hanno un record di 42 vinte e 22 perse. Don Nelson, però, con un colpo di teatro che non sorprende più di tanto considerato il personaggio, rassegna le proprie dimissioni da capo-allenatore, mantenendo comunque il ruolo di general manager. Come prima mossa nella veste di responsabile del front office promuove il suo assistente Avery Johnson. Ritiratosi dall’attività agonistica giusto dodici mesi prima, all’ex playmaker degli Spurs non difettano personalità e convinzione nei propri mezzi: Dallas chiude la stagione con un eccellente filotto che dice 16 vinte e 2 perse e un 58-24 che vale il quarto posto nella Western. Il perché di tanta eccellenza è presto spiegato: Dirk gioca la sua miglior stagione — 26.1 punti, 8.7 rimbalzi, 2.7 assist, 1.2 rubate e 1.4 stoppate a sera. Pur nel contesto di una squadra che sta cambiando pelle, Nowitzki plasma uno stile di gioco sempre più unico, che influenzerà il resto della lega negli anni a venire.

I costanti miglioramenti registrati sono sbalorditivi e gli addetti ai lavori rimangono sempre più affascinati dal misterioso rapporto, quasi simbiotico, con Geschwindner. Per il compagno di squadra Finley i due sono tali e quali a Frankenstein e allo scienziato pazzo che l’ha creato. Quando al mentore viene chiesto un parere sul percorso del proprio pupillo, l’ex-capitano della nazionale si trincera dietro un ermetico «l’essere umano è un organismo biologicamente evolutivo».

Gli uffici di pubbliche relazioni della lega e la possibilità di pubblicizzare il proprio camp estivo, col tempo, lo renderanno più loquace.

Dirk finisce terzo, dietro all’amico Nash e a all’ultimo Shaquille O’Neal davvero dominante, nella corsa all’MVP. Il tedesco è ormai un modello da imitare e la smania di scovare un altro Nowitzki si diffonde tra general manager e scout di tutta la lega, inducendo un sonno della ragione che genererà mostri, di cui i Draft degli anni 2000 risulteranno stracolmi anche ai piani più alti. I playoff si chiudono al secondo turno, proprio contro l’ex Steve Nash. Nonostante la delusione per l’ennesima uscita prematura, a Dallas hanno la sensazione di aver intrapreso la strada giusta.

Intervallo: The Dark Side of Dirk

Se i trionfi e le delusioni sportive fanno parte dell’esperienza di ogni atleta, è quanto accade fuori dal campo di gioco a definirne il profilo per il mondo esterno. Nel caso di Nowitzki è possibile rintracciare una linea di continuità tra il comportamento tenuto sul parquet e la condotta dimostrata di fronte alle vicende extra-cestistiche. Il primo momento critico per Dirk arriva proprio nell’estate 2005, quando è ormai un All-Star conclamato e in patria la sua notorietà ha raggiunto livelli in precedenza consentiti solo agli idoli calcistici o a un mito come Michael Schumacher. Il fisco tedesco, a conclusione di un’indagine sulle entrate di Holger Geschwindner, decide di sottoporre il mentore di Nowitzki al regime di custodia cautelare. I contorni della vicenda sono poco chiari perché le parti in causa, dopo aver raggiunto l’accordo relativo al patteggiamento, si impegnano a non rivelare i dettagli dell’accusa. Quanto noto, in realtà, basta e avanza per definire i due personaggi coinvolti e il loro rapporto.

Quando Geschwindner viene incarcerato, Nowitzki è in vacanza a godersi l’unico mese di pausa dalla pallacanestro. Avvertito dai famigliari, Dirk sale sul primo aereo e torna in Baviera. Appena atterrato, rende subito chiaro di non ritenere necessaria la mediazione di alcun legale che lo aiuti a capire, vuole solo parlare a quattr’occhi con Holger. Dal colloquio Nowitzki esce con la certezza che le accuse formulate al suo mentore siano prive di fondamento e, senza indugiare, si dichiara disposto al pagamento della cauzione che permetterebbe di rimettere in libertà Geschwindner. L’importo stabilito dal tribunale tedesco è di quelli da mettere i brividi anche a un multimilionario quale Nowitzki è nel frattempo diventato. Tuttavia, Dirk stacca l’assegno da 15 milioni di dollari e l’amico Holger è di nuovo un uomo libero. I Mavericks e l’agenzia delle entrate americana confermeranno in seguito quanto emerso durante il processo: Holger Geschwindner, negli ultimi dieci anni, non ha mai ricevuto alcun pagamento in denaro da parte della franchigia e tantomeno dal giocatore. In un ambiente dominato da cifre a sei zeri e contratti con centinaia di pagine che definiscono nelle minuzie i rapporti professionali, quello tra Nowitzki e il suo mentore è un legame che sfugge alla comprensione di molti. In seguito, Geschwindner verrà assunto a tutti gli effetti nello staff tecnico della squadra, ponendo fine alla promiscuità di una figura tanto rispettata quanto guardata da molti, fuori dal cerchio ristretto dei Mavs, con diffidenza.

Se la disputa tra il fisco e il suo mentore di fatto sfiora solo la figura di Nowitzki, quanto accade quattro anni più tardi ne mina la reputazione e ferisce Dirk nell’intimità dei suoi sentimenti. Cristal Taylor, la ragazza con cui ha una relazione da quasi un anno, viene arrestata proprio a casa di Nowitzki il 6 maggio del 2009. A carico della donna ci sono vari reati, tra cui spicca la violazione dei termini di libertà vigilata concessagli dallo stato del Missouri in seguito a un processo per truffa e contraffazione. Dirk, ignaro dell’oscuro passato della donna che aveva intenzione di sposare da lì a qualche mese, piomba in un limbo che durerà tutta l’estate. Se il danno d’immagine per il personaggio pubblico è intuibile, il contraccolpo per l’uomo è di quelli che mettono alle corde. Come nelle migliori storie d’amicizia, stavolta tocca a Geschwindner correre in soccorso del suo pupillo. I due partono per un viaggio tra gli spazi remoti della Nuova Zelanda, lontano dai riflettori e dalla curiosità dei media. Tra le passioni di Dirk ci sono le opere di Tolkien, in particolare Lo Hobbit, e il suo mentore gli gli organizza un tour tra il luoghi in cui Peter Jackson, di lì a non molto, inizierà le riprese della versione cinematografica della trilogia. Non è proprio la vacanza tipo per una celebrità dello sport mondiale, eppure, per quanto bizzarra, la fuga di Dirk dal mondo sembra funzionare.

Atto II: A un passo dal cielo / in un angolo buio

La nuova versione dei Mavericks targati Avery Johnson ha una connotazione decisamente più difensiva rispetto al corri-e-tira cavalcato da Don Nelson e, salutato Finley senza troppe esitazioni, le redini dell’attacco vengono affidate a Nowitzki. È lui il totem attorno al quale il nuovo e ambizioso coach modella l’identità di una squadra che fa della solidità nella propria metà campo il marchio di fabbrica. Con Jason Terry come secondo violino, Dirk alza ancora una volta l’asticella delle sue prestazioni personali: a stabilire uno standard che verrà inseguito da generazioni di giocatori non sono tanto i 26 punti e 9 rimbalzi a partita, quanto il 48% dal campo (con 40% da tre) e il 90% ai liberi. Qualora ci fossero ancora dubbi, l’ennesima stagione eccellente di Nowitzki li spazza via: un giocatore così non ha precedenti nelle epoche passate.

Dallas chiude la regular season con un record di 60-22 che vale il quarto posto nella Western. Se il primo turno contro Memphis è poco più che una formalità, i due round successivi si rivelano vere e proprie battaglie all’ultimo sangue. I rivali di sempre, i San Antonio Spurs, cadono al supplementare di gara 7 dove, in trasferta, Dirk segna 37 punti (tra cui il canestro-e-fallo con cui forza il supplementare) e strappa 15 rimbalzi vincendo il duello con Tim Duncan. Per Nowitzki e i Mavs è un rito d’iniziazione e la carica di fiducia che ne deriva li accompagna durante la successiva serie con i Suns del vecchio beniamino Steve Nash. Nella decisiva gara-5, i 50 punti di Dirk indirizzano la contesa in favore dei texani e segnano una delle più grandi performance individuali nella storia dei playoff. Sulle ali di quell’entusiasmo, i Mavs approdano alla prima finale nella storia della franchigia. Gli avversari, i Miami Heat, sono anche loro all’esordio sul grande palcoscenico. Dallas gode del fattore campo, per contro Miami può contare sulla guida esperta di Pat Riley e sulla presenza di Shaq, sceso in campo in quattro delle ultime sei Finals.

Le prime due partite giocate in Texas sono due solide vittorie per Nowitzki e compagni e, quando il quarto quarto di gara-3 è ben avviato, i Mavs sembrano in controllo della partita e pronti a mettere un’ipoteca decisiva sul Larry O’Brien Trophy. Poi, in uno di quei repentini capovolgimenti emotivi impossibili da spiegare con la razionalità, Dwyane Wade rivela al mondo la sua identità segreta di supereroe e Dallas non riesce più a vincere nemmeno una partita. Nowitzki cade insieme ai suoi, annichilito dal flusso degli eventi che spinge il titolo verso South Beach. Gli Heat si laureano campioni e per Dirk è la delusione più grande della carriera: il senso di colpa per aver mancato al proprio dovere di leader e trascinatore nel momento più importante pesa come un macigno

La sua ricetta per uscire dall’angolo buio è semplice: un’estate di palestra e lavoro. Cuban — assodata la rottura con Don Nelson, che in estate lascia il posto di general manager al figlio per tornare sulla panchina di Golden State dopo dodici anni — decide di puntare sullo stesso gruppo e sulla voglia di rivincita. Il propellente sembra funzionare alla grande durante l’intera regular season. Per Dirk è l’apice della carriera in termini di produzione ed efficenza: il capitano dei Mavs gioca come se non ci fosse un domani e dimostra di aver ampliato ulteriormente il suo arsenale offensivo. I 24,6 punti e 8,9 rimbalzi di media con cui trascina i suoi al miglior record nella storia della franchigia (67-15), gli valgono il premio di MVP, primo e finora unico europeo a vincerlo, arrivato dopo due terzi posti consecutivi. È anche la stagione in cui Nowitzki entra nell’esclusivo club del “50-40-90”, grazie al 50.2% dal campo, al 41.6% da tre e al 90.4% ai liberi. Fin lì, nessun giocatore di quella stazza era mai riuscito nemmeno ad avvicinarsi a quel traguardo.

A Dirk però manca una cosa, l’unica che gli interessa davvero: vincere il titolo. Al primo turno dei playoff Dallas ritrova, per un beffardo scherzo del destino, proprio Don Nelson. La serie tra Mavs e Golden State Warriors è una delle imprese più clamorose nella storia recente del gioco. Golden State, trascinata da autentici pirati come Baron Davis e Stephen Jackson, porta con successo il più classico degli arrembaggi alla nave ammiraglia guidata da Avery Johnson.

Se la sconfitta con Miami di dieci mesi prima ha lasciato cicatrici difficile da guarire, lo shock per la sconfitta con gli Warriors getta l’ambiente di Dallas nella più cupa depressione. Cuban, una volta fallito il tentativo di portare in Texas Kevin Garnett, decide tuttavia di dare ancora una volta fiducia al gruppo, mentre per Dirk quella che segue è un’estate di grandi dubbi e riflessioni. Come sempre, in suo soccorso, arriva Geschwindner. I due affittano un piccolo van e insieme decidono di viaggiare lungo le strade dell’Australia. Voci accreditate vorrebbero Dirk addirittura tentato dal ritiro; altre, più realisticamente, suggeriscono di un rapporto ormai logoro con Avery Johnson. Di certo è il momento più difficile nella carriera di Dirk, un buco nero da cui solo la sua immensa forza di volontà lo spingerà fuori.

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Atto III: Fallimento e redenzione / Ingresso nell’Olimpo

Nell’autunno del 2007, lo slancio che solo un anno prima aveva permesso ai Mavericks di inanellare una regular season praticamente perfetta sembra essersi parecchio affievolito. I mormorii circa l’inflessibilità di coach Avery Johnson cominciano a circolare anche fuori dallo spogliatoio e l’impressione generale è che qualcosa si sia incrinato. Nel tentativo di sparigliare un po’ le carte di una stagione che langue, durante la pausa per l’All-Star Game Devin Harris viene scambiato con i New Jersey Nets insieme a una serie di contratti in scadenza e scelte ai Draft successivi, in Texas sbarca Jason Kidd.

L’arrivo dell’ex-Golden Bear è salutato con scetticismo, perché a molti sembra un’ammissione di colpa per l’addio a Nash di quattro anni prima. Ad ogni modo la stagione si chiude con il settimo posto a Ovest e l’eliminazione netta al primo turno per mano dei New Orleans Hornets. Per Nowitzki è comunque un’altra stagione eccellente: se i risultati di squadra latitano, con i 34 punti rifilati proprio ai Nets l’8 marzo diventa il miglior marcatore nella storia della franchigia superando Rolando Blackman. Per quanto onorato del prestigioso traguardo, il tedesco cova dentro di sé un desiderio di rivincita il cui unico sbocco è l’anello di campione. Mark Cuban è sulla stessa linea d’onda e, alla vigilia della undicesima stagione in NBA del suo uomo franchigia, decide che è arrivata nuovamente ora di cambiare passo. Viene dato il benservito ad Avery Johnson, al suo posto arriva Rick Carlisle.

Quello con l’ex-Detroit e Indiana è l’ultimo incontro decisivo nella carriera di Nowitzki, ma per capire la portata del sodalizio occorrerà tempo. Le due annate che seguono sono discrete, ma i playoff riportano eliminazioni al secondo e primo turno. Il roster viene rimodellato senza grandi scossoni, aggiungendo uomini d’esperienza come Shawn Marion e Caron Butler. L’impressione generale, però, è che il momento buono per i Mavericks e per Nowitzki sia sfuggito. Dirk varca la soglia dei 20.000 punti nel gennaio 2010, ma si tratta dell’unico sussulto in un periodo nel quale la squadra naviga nei mari calmi della Western senza obiettivi ambiziosi.

L’estate 2010 è caratterizzata della tornata di free agent più clamorosa nella storia recente. Tra questi c’è anche Dirk, ma la sua teorica reperibilità sul mercato dura poco perché il 5 luglio firma un rinnovo da 80 milioni di dollari: per i successivi quattro anni sarà ancora capitano, leader e volto dei Mavericks. Dallas, respinta nell’assalto agli altri free agent di peso, si consola parzialmente ingaggiando Tyson Chandler, coriacea presenza difensiva nel pitturato. La stagione comincia quindi senza particolari aspettative, in una NBA che sogna lo scontro finale tra i Lakers campioni in carica e i tres amigos riunitisi a South Beach. I Mavericks arrivano terzi nella Western dietro agli eterni Spurs e ai due volte campioni guidati da Kobe e Gasol.

Il primo turno contro Portland si rivela più complicato del previsto, complice una prestazione commovente in gara-4 di Brandon Roy che aveva fatto gridare all’upset, ma i Mavs riescono a chiudere la serie in sei partite. Ad aspettarli ci sono proprio i favoritissimi Lakers, che di fronte hanno l’obiettivo di un secondo three-peat a distanza di quasi dieci anni. La serie, che si preannuncia alquanto equilibrata, si trasforma in una cavalcata per i ragazzi di Carlisle. Terry e Barea diventano enigmi irrisolvibili per la difesa gialloviola, anche per gli spazi aperti dal tedesco contro gli statici lunghi dei Lakers: clamoroso 4-0 e Mavericks che tornano in finale di conference dopo cinque anni. Dall’altra parte ci sono i giovanissimi Thunder del trio Westbrook, Harden e Durant. Dirk si premura di dare ai tre il benvenuto nella stratosfera NBA con una gara-1 da 48 punti, ma i giovani di OKC si riprendono subito la successiva gara-2 in trasferta. Nelle restanti tre, pur combattute, Dallas fa valere la maggior esperienza e stacca il biglietto per la seconda finale della sua storia.

La sorte concede la possibilità di prendersi una rivincita attesa un lustro: anche se gli Heat sono profondamente diversi rispetto alla squadra laureatasi campione nel 2006, Dwyane Wade e Udonis Haslem sono il sale nella ferita di Dirk e compagni. A differenza del primo capitolo della sfida, Dallas arriva alle Finals nel ruolo di sfavorita, perché dall’altra parte ci sono i Big Three e il fattore campo. Le prime due gare della serie sono tirate, le difese hanno la meglio e si va in Texas sul punteggio di parità. Nonostante i 34 punti di Nowitzki, il canestro di Chri Bosh che decide gara-3 sembra indirizzare la serie ancora una volta verso la Florida. La successiva gara-4, tuttavia, si rivela come la decisiva per gli esiti finali.

I ragazzi di Carlisle difendono forte su James, ma Wade prende ancora una volta il controllo della situazione in quella che per Dallas sembra la replica dell’incubo di cinque anni prima. Questa volta, però, sono i Mavs a rimontare lo svantaggio di 9 lunghezze e Dirk, debilitato dalla febbre ma supportato da un Jason Terry in stato di grazia, pareggia la serie. Lo stesso spartito caratterizza le due successive, in cui i Mavs riescono a riportare il tono della serie dalla loro parte per poi trionfare sul campo avversario.

È una delle vittorie più romantiche che si potessero immaginare, riscatto di chi era sempre arrivato a un centimetro dal traguardo per poi veder festeggiare gli altri. Dirk è MVP delle Finals, coronamento di due mesi di playoff in cui ha tenuto 27.7 punti e 8.1 rimbalzi di media ma in cui ha soprattutto scacciato i vecchi fantasmi, segnando da solo negli ultimi quarti delle singole gare di finale più di James e Wade messi insieme.

Come prevedibile, vista l’età media della squadra e la rinuncia a un membro cardine come Tyson Chandler lasciato partire verso New York, gli anni che seguono sono caratterizzati da una lenta ricostruzione, operazione effettuata mantenendo sempre un livello competitivo più che dignitoso. Se i Mavs non riescono più a costruire una squadra da titolo intorno alla loro stella, Dirk, in pieno stile Nowitzki, non mugugna e tanto meno chiede di poter tentare l’ultimo assalto alla gloria altrove, al pari di altri campioni sul finire della carriera. Anzi, forte del rapporto speciale creatosi con Cuban e con tutta la città di Dallas, nell’estate del 2016 firma un nuovo contratto biennale che lo renderà un Maverick a vita.

In questa stagione Nowitzki trova poi il tempo di apporre due sigilli alla sua già inimitabile parabola. Il primo, quello che gli spalanca i cancelli del valhalla cestistico, è il raggiungimento di quota 30.000 punti. Con i 25 punti segnati ai Lakers il 7 marzo Dirk entra in quella ristretta lista che annovera solo autentici dèi del gioco. Come ovvio, il canestro dei 30.000 non può che essere il suo fadeaway su una gamba. Il boato della folla e le lacrime di Cuban e Geschwindner testimoniano la grandezza del risultato raggiunto. Molto meno evidente, e comprensibilmente meno celebrato, è un’altro particolare della stagione di Nowitzki che ne tratteggia la grandezza oltre i numeri. A quasi 39 anni e alla sua diciannovesima stagione NBA, il campione tedesco ha accettato ancora una volta di rimettersi in gioco, lasciando a disposizione della squadra quanto resta del suo sterminato talento. Stimolato da coach Carlisle, prima dell’acquisizione di Nerlens Noel, Nowitzki ha provato a reinventarsi nel ruolo di centro per questi Mavs in piena ricostruzione, anche per far fronte a una mobilità laterale sempre più inesistente. La singolarità del personaggio, insomma, trascende traguardi straordinari come l’anello di campione, il titolo di MVP e l’ingresso nell’esclusivo club dei 30.000: l’anima da campione di Dirk sta nella disponibilità di sacrificarsi e fare ciò che gli viene chiesto per questa edizione, peraltro non certo indimenticabile, dei Dallas Mavericks. E, ancor di più, nella manifesta volontà di farlo per almeno per un altro anno.

Icona

Ci sono pochi dubbi sul fatto che, qualora e semmai l’NBA un giorno lontano decidesse davvero di aprire una chimerica sezione oltre oceano, il fadeway di Dirk potrebbe prendere il posto di Jerry West nel logo della Division europea. Quel tiro in sospensione su una gamba sola ha negli anni assunto il valore iconico della finisher move con cui un wrestler mette al tappeto gli avversari, un marchio di fabbrica riconoscibile e oggetto di infiniti tentativi d’imitazione. Eppure, ridurre Nowitzki a quel particolare o all’efficacia al tiro equivale a mistificarne l’eredità tecnica offerta all’evoluzione del gioco.

Le lunghe, irrinunciabili sessioni estive con Geschwindner grazie a cui il giocatore ha affinato anno dopo anno il proprio repertorio gli hanno permesso di far sembrare tutto semplice, prerogativa dei grandissimi in ogni disciplina; di diventare letale nell’uno contro uno nonostante l’altezza; di costruirsi una fama di rimbalzista solido (8 di media in carriera, 10 nei playoff) a dispetto di un atletismo limitato e di attenuare l’impatto delle sue lacune difensive sulla squadra. Se, per qualsiasi lungo con ambizioni d’eccellere nell’NBA odierna, risulta inammissibile non essere in grado di mettere palla per terra o segnare con continuità da fuori, è perché Dirk ha stabilito standard che prima del suo avvento erano inconcepibili.

Con l’eccezione delle nemesi Duncan e Garnett, nessuno dei contemporanei nel ruolo è stato in grado di avvicinarsi a quei livelli. Quanto alle future generazioni, per cui Nowitzki costituirà termine di paragone ineludibile, sarebbe utile porre attenzione sull’atteggiamento fuori dal campo, chiave per comprenderne l’incredibile scalata verso le vette dell’Olimpo del gioco. L’attitudine a coinvolgere i compagni, la genuina disponibilità nei confronti di tutto l’ambiente — dal proprietario della franchigia all’ultimo degli uscieri dell’American Airlines Center —, l’impegno sociale mai sbandierato ma coltivato con passione, la capacità di declinare con rigore la propria professionalità senza mai prendersi troppo sul serio, tutte peculiarità che hanno avuto la stessa importanza del talento e dell’etica lavorativa. Al punto che per cogliere davvero l’unicità di Nowitzki occorre infine misurare la distanza tra la leggenda e l’uomo.

Per farlo, più che riavvolgere il nastro e ripercorrere le tante conquiste, appare più utile soffermarsi su una sconfitta e un addio. È la sera del 10 settembre, la nazionale tedesca ha appena perso una partita giocata sul filo del rasoio con la Spagna che di lì a dieci giorni vincerà il torneo. Disputare il girone di qualificazione davanti al pubblico amico non è bastato e l’Eurobasket 2015 della Germania finisce in quel momento. Per Nowitzki, tornato sulla decisione di ritirarsi dalle competizioni con la maglia dell’amatissima Nationalmannschaft proprio per tentare l’ultima avventura partendo da Berlino, è anche la fine della carriera in nazionale culminata con il ruolo di portabandiera a Pechino 2008.

L’ovazione del pubblico e l’inchino di Dirk suggellano un’epopea straordinaria, durante la quale Nowitzki ha letteralmente portato la palla a spicchi nelle case dei tedeschi. Mentre sul parquet va in scena la sfida conclusiva del girone tra Turchia e Islanda, fuori dagli spogliatoi della Mercedes Benz Arena è raccolta una discreta folla. Da più di un’ora Nowitzki sta firmando autografi e sorride mentre tifosi e appassionati scattano selfie. Ci sono ancora una cinquantina di persone ammassate dietro alla transenna che separa la zona riservata a giocatori e addetti ai lavori dal corridoio che porta verso l’uscita laterale, la canotta numero 41 dei Mavs, alternata alla 14 bianconera, è la divisa d’ordinanza. Alle spalle di Nowitzki, l’addetto stampa in giacca e cravatta preme perché la sessione d’autografi — già protrattasi ben oltre il tempo normalmente concesso — termini all’istante. La presenza del campione nella capitale è troppo preziosa e ad attenderlo ci sono eventi organizzati da sponsor ed enti di beneficenza. Dirk, con calma pari alla risolutezza, risponde senza smettere di autografare un poster in cui alza il Larry O’Brien Trophy.

«Ci sono ancora un po’ di amici qui, quando avrò finito con loro potremo andare».

Una coppia, due file indietro, si tiene per mano, alla reazione del loro idolo incrociano gli sguardi. Entrambi mostrano un sorriso trasognato.

«Das ist Dirk».

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