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Pelé diventa Re
30 dic 2022
Nella nuova puntata di Classici abbiamo riguardato Svezia-Brasile, finale del Mondiale del 1958.
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20 min
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Classici è la rubrica nella quale analizziamo grandi partite del passato.

Dopo il terrificante trauma del Maracanazo la nazionale brasiliana non giocò più a calcio per quasi due anni, tornando in campo solo nell’aprile del 1952. «Perdemmo nel modo più umiliante per una semplice ragione: Obdulio [Varela, capitano dell’Uruguay che li sconfisse nel 1950] ci prese a calci come se fossimo dei cani bastardi», scrisse Nelson Rodrigues, giornalista e principale drammaturgo della storia brasiliana, che per diagnosticare la preoccupante condizione postraumatica del calcio brasiliano inventò l’espressione complexo de vira-lata, traducibile come "complesso del bastardo" o "del meticcio", «la posizione di inferiorità nella quale il popolo brasiliano si pone volontariamente nei confronti del resto del mondo. I brasiliani sono come un narciso rovesciato, che sputa sulla propria immagine. Questa è la verità: non troviamo ragioni, né personali né storiche, per avere autostima».

Nel 1953 il Brasile partecipò alla Copa América in Perù, assegnata al primo classificato in un girone all’italiana di sette squadre, e perse al novantesimo l’ultima e decisiva partita contro il Paraguay, venendo così agganciato al primo posto dal Paraguay stesso. Quattro giorni dopo perse anche il conseguente spareggio, dopo essere passato in vantaggio. Nel Mondiale svizzero del 1954 fu sconfitto 4-2 ai quarti di finale dall’Ungheria di Puskás.

Ma il Brasile che arriva in Svezia per il mondiale del 1958 è ancora più denso di talento di quello del decennio precedente. Nel girone travolge l’Austria, si ferma sullo 0-0 con l’Inghilterra e poi batte nettamente l’Unione Sovietica di Yashin. Ai quarti supera il Galles e concede i primi due gol del torneo solo in semifinale contro la Francia, alla quale ne segna però cinque. In finale ha davanti due avversari: il primo è la Svezia padrone di casa, il secondo è “il Brasile stesso, i suoi demoni, i fantasmi del Maracanà”.

Questa è la partita in cui il Brasile imbocca la strada per diventare quello che conosciamo, il Pentacampeon, l’icona del gioco, probabilmente il paese più legato al calcio e al quale il calcio è più legato. La imbocca e non si volta più. Oggi sembra quasi naturale che sia andata in questo modo, ma forse non c’è mai stato così tanto talento sull’orlo di un baratro così profondo.

Panico?

Dopo quattro minuti di partita la Svezia è già in vantaggio, ed è un gol sontuoso. Gren recupera una palla vagante sul limite della sua area, consegna al portiere e poi si allarga sulla destra, in posizione di terzino, per ricevere e avviare l’azione. Scambia due volte con Parling che trova poi Börjesson libero in mezzo al campo, il quale si gira e premia il bel taglio in profondità di Simonsson, seguito dai due centrali difensivi brasiliani nello spazio lasciato libero da Nílton Santos. Il centravanti svedese vede Nils Liedholm che avanza da solo ai 20 metri e lo serve con un lancetto preciso. Il Barone la mette giù di sinistro e con pochi tocchi rilassati beffa il rientro scomposto dei due centrali, mandandoli entrambi a vuoto: prima Orlando, caduto su una finta di tiro, poi capitan Bellini, che quantomeno costringe Liedholm a tornare leggermente indietro. Ma non basta, Liedholm se la ritocca appena avanti e, quando sembra che non ce ne sia più il tempo, infila nell’angolino lontano un destro radente e minimalista.

Segue l’urlo caldissimo del Råsunda Stadium di Stoccolma. La Svezia è in casa, in vantaggio, in controllo, e non è certo lì per fare da sparring partner. Gioca con un 4-3-3 molto ampio fatto per esaltare ali e mezzali. Larghissimo a destra c’è Kurt Hamrin, rapido, ambidestro, che quell’estate passerà alla Fiorentina per farci 9 stagioni e 150 gol. Poi vincerà una Coppa Campioni con il Milan di Rocco. Oggi vive a Coverciano.

A sinistra il dribbling e l’intelligenza di Lennart Skoglund detto “Nacka”, ala mancina della prima Inter a vincere due scudetti consecutivi, quella degli anni ‘50. Una volta tornato in Svezia dall’Italia, nella sua prima partita segnò direttamente da calcio d’angolo e oggi, nel quartiere di Stoccolma dove è cresciuto, c’è una statua in suo onore che si chiama Nackas Hörna, l’Angolo di Nacka, visitata da gente del posto e tifosi dell’Hammarby ogni 24 dicembre, il giorno in cui Skoglund nacque.

Tra Hamrin e Skoglund si muove moltissimo Agne Simonsson, giovane bomber dell’Örgryte che ha appena dato a Liedholm il pallone per il gol e che un anno e mezzo dopo andrà a giocare in Spagna, prima nel Real Madrid e poi nella Real Sociedad.

Dietro di lui le due fantastiche mezzali, il vero motore di quella Svezia, Nils Liedholm e Gunnar Gren, ovvero due terzi del leggendario trio milanista Gre-No-Li (il grande assente è Nordhal, ritiratosi pochi mesi prima). Liedholm e Gren giocano a tutto campo con eleganza, tecnica e visione di gioco eccezionali, e prendono spesso il sopravvento sul centrocampo brasiliano. Questo anche perché sono sostenuti e coperti da Reino Börjesson, l’onestissimo mediano metodista del Norrby, messo lì con il solo scopo di garantire alla Svezia la superiorità numerica in mezzo al campo e permettere a quei due, non più giovanissimi, di mantenere la lucidità e concentrarsi sulla fase di impostazione e rifinitura.

Nella difesa a quattro, i due centrali sono Bengt “Julle” Gustavsson, in forza all’Atalanta, e Sigge Parling, passato alla storia come il primo degli Järnkamin (letteralmente: Stufa di ferro), una specifica tipologia di calciatore del Djurgårdens rinomata per preparazione fisica, forza e stile di gioco particolarmente ruvido. Il terzino sinistro è Sven Axbom del Norrköping, mentre a destra c’è Orvar Bergmark, che quell’anno sarà premiato con il Guldballen, il pallone d’oro svedese. Tra i pali, Karl “Rio-Kalle” Svensson, veterano portiere dell’Helsingborgs che quando non giocava a calcio faceva il pompiere, e che si era guadagnato il soprannome di Rio durante il mondiale brasiliano del 1950, a seguito di due eroiche partite contro Spagna e Italia (svoltesi peraltro a São Paulo).

In panchina siede George Raynor, inglese poco stimato in patria, ma di eccellente reputazione internazionale (una sua biografia uscita nel 2014 si intitola “George Raynor: The Greatest Coach England Never Had”), capace di portare la Svezia all’oro olimpico del 1948 e al terzo posto mondiale nel 1950. Prima della finale aveva dichiarato che se i suoi avessero segnato per primi, il Brasile sarebbe “andato nel panico completamente”: e quella Svezia, con un’età media di 30 anni esatti, ha tutta l’esperienza per conservare la calma e il vantaggio, giocando con la psiche di un Brasile che è per la prima volta sotto di un gol dall’inizio del torneo, non è ancora entrato in partita e potrebbe anche non entrarci mai.

Estremi rimedi

Quello successivo al gol di Liedholm è un momento in cui la storia calcistica brasiliana può prendere qualunque piega, la squadra può reagire ma anche perdersi definitivamente. Didi cammina verso il centro del campo col pallone sotto il braccio. Zagallo corre da lui, gli urge qualcosa, Didi lo tranquillizza, lo congeda, Zagallo se ne va, Didi prosegue lentamente, irradiando sicurezza. Entra nel cerchio di centrocampo e getta la palla verso Vavá. Batti tu, toccamela. Poi si volta verso destra e innesca Garrincha con lo sguardo. Quello che succede dopo è l’equivalente del lancio della bomba atomica, il Brasile che rincorre e si aggrappa alla sua arma più incontrollabile e tremenda, il generale che apre la gabbia della creatura da guerra. Il pallone di Didi attacca dolce per vie aeree, via terra Garrincha, mostro scemo dalle gambe storte e imprendibili, si mangia il prato fino alle spalle scoperte di Axbom, terzino sinistro che fin lì lo ha fermato e adesso quasi non lo vede arrivare. Il pallone spettina Axbom, atterra sul piede destro di Garrincha che lo stoppa a seguire in corsa tagliando fuori ogni cosa, incluso Axbom stesso, il quale prova a cercare un contatto fisico: Garrincha se lo scrolla di dosso abbassando la spalla con fastidio e maleducazione. Entra in area con furore e un’enorme brama di libertà e di spazio. Poi, siccome è un essere irragionevole, spara una bomba sull’esterno della rete. La Svezia è salva, ma è spaventata da quello che ha visto e da ciò che ha intuito vedrà di lì in poi: l’immenso e incosciente talento del Brasile dispiegarsi alla massima intensità.

Quella del ‘58 è una Seleção preparata come mai prima, decisa ad allontanare i fantasmi ricorrendo anche alla scienza e all’organizzazione. Venticinque differenti location erano state vagliate prima di scegliere quale sarebbe stato il quartier generale della squadra durante il torneo, tutto il personale femminile dell’hotel prescelto era stato rimosso dagli emissari della federazione brasiliana, che avevano addirittura insistito, senza successo, per far chiudere una spiaggia nudista situata nei paraggi. Lo staff della nazionale era stato allargato fino a includere anche un medico, un dentista, un personal trainer, un tesoriere, uno psicologo e una spia, quest’ultima utilizzata per raccogliere informazioni dai campi di allenamento avversari.

Lo psicologo, il dottor João Carvalhães, aveva effettuato dei test attitudinali su tutta la squadra dai quali era emerso che schierare Pelé e Garrincha sarebbe stato sconsigliabile. Il diciassettenne Pelé risultava “palesemente infantile” e “troppo irresponsabile per giocare di squadra”, mentre Garrincha, che nel test aveva ottenuto il punteggio più basso – 38 su 123, meno di quanto richiesto per poter guidare un autobus a São Paulo – era stato valutato inadatto a sostenere la pressione di quel Mondiale. La risposta del commissario tecnico Vicente Feola al dottor Carvalhães, così come raccontata da Pelé, fu: “Dottore, magari lei ha ragione, ma non sa niente di calcio”. Tra il ’58 e il ’66, Pelé e Garrincha saranno titolari insieme nel Brasile per 40 volte: 36 vittorie, 4 pareggi, nessuna sconfitta.

Per la finale, Feola ha scelto un 4-2-4 asimmetrico, dove Garrincha ha assoluta libertà d’azione nel ruolo di ala destra e viene compensato sull’altro lato dal lavoro di Mario Zagallo, detto a Formiguinha, capace di giocare entrambi le fasi di possesso e non possesso dando equilibrio a tutta la squadra. Pelé si muove da seconda punta dietro a Vavà, predatore d’area tecnico e intelligente. I due centrocampisti sono Didi e Zito, col secondo al servizio del primo che, in quel Mondiale, sta giocando un calcio stellare. Per quel Brasile, Didi è l’unico che sia contemporaneamente un fenomeno e una certezza. Opera da magnetico regista offensivo, gioca sul lungo e sul corto, di destro e di sinistro; sa verticalizzare, dribblare, aspettare, e sa battere le punizioni come forse nessuno prima di lui. Due anni addietro, dopo una dolorosa contusione al piede destro, si era inventato un nuovo modo di calciare, battezzato folha seca: colpiva il pallone da sotto con le tre dita esterne, la palla si alzava e poi scendeva d’improvviso, spesso scartando da un lato come una foglia morta cade dal ramo.

Al centro della difesa giocano Orlando, che aveva esordito con la maglia verdeoro solo un mese prima, e il più esperto Hilderaldo Bellini, capitano di origine italiana; in porta c’è Gilmar, il miglior portiere brasiliano del XX secolo. Ma l’arma segreta della formazione di Feola sono i due esterni difensivi, a destra Djalma Santos e a sinistra Nílton Santos, entrambi autorizzati a salire ben oltre la metà campo per partecipare alla manovra, trasformando un’attitudine in un’innovazione tattica di grande efficacia.

Il bug

All’8', Pelé guadagna un angolo battuto in fretta da Garrincha. Il pallone viene messo fuori e c’è Didi, professorale, che, con un tunnel a Börjesson, trova Vavá in mezzo all’area, fermato in angolo. Batte Zagallo, con la fretta di chi non sa quanto ancora possa sopportare il pensiero di essere sotto nel punteggio. La palla è di nuovo calamitata fuori area dai piedi di Didi, che di nuovo riesce a pescare Vavá tra i difensori avversari. Tentativo di duetto di prima con Pelé respinto fuori e allora accorre Zito, leggermente fuori equilibrio, che potrebbe stoppare ma preferisce passarla anche male ma subito in direzione di Garrincha, orribilmente solo sul lato sinistro dell’area svedese. Axbom lo avvicina piegato sulle ginocchia e a braccia semi aperte, quasi dovesse affrontare una palla demolitrice. Garrincha lo incenerisce e mette in mezzo dal fondo, Pelé non ci arriva, Vavá sì: gol.

Il vantaggio svedese è durato quattro minuti di vessazioni calcistiche. E se il vantaggio se n’è andato, la vessazione continua, anche se cambia il persecutore: adesso tocca all’aspirante al trono, al quasi Re. E di lui non terrorizza la furia selvaggia, bensì la grazia. Djalma Santos imposta da destra, scavalca il centrocampo e trova Vavá al limite, sponda di prima che balzella verso Pelé. Invece di metterla giù, Pelé la tiene in aria con un tocco in avanti di sinistro che lo porta in una dimensione inviolabile, che toglie a Liedholm lì accanto e all’intera Svezia ogni opzione difensiva; poi ancora un colpetto di destro e infine, quando concede alla palla di battere a terra, lo fa per attingere all’energia del controbalzo. Il sinistro in corsa di Pelé parte con la linearità ascendente di una riga in un progetto d’architettura. Sale per venti metri, si abbassa leggermente per altri cinque e si schianta sul palo, appena sotto l’incrocio, per poi schizzare via uscendo dall’area dal lato opposto, così come c’era entrato.

Altri due minuti scarsi e Pelé dimostra impressionanti capacità da equilibrista. Va a sfidare di testa Bengt Gustavsson su un lungo rinvio di Gilmar. Salta molto in alto e leggermente fuori tempo. La palla viene colpita dallo svedese, rimbalza sul brasiliano e resta lì, mentre entrambi sono gravemente sbilanciati: ma se lo svedese cade, Pelé no. Atterra sulla gamba sinistra e le due mani, l’attimo dopo ha già eretto e orientato il corpo per giocare il pallone, trovandosi addosso il suo marcatore diretto Sigge Parling, seguito da Bergmark. Dietro di loro è acquattato Vavá. Pelé tenta di eludere Parling dribblandolo verso il centro con l’esterno destro, ma lo svedese è troppo vicino e trova il modo di andare a contrasto. Nonostante Parling, la “Stufa di Ferro”, arrivi in corsa e con l’interno del piede, non riesce a sradicare via la palla. Scuote Pelè, lo piega, e poi si impunta e prosegue oltre ruotando di 180°, mentre Pelé si inclina come un albero al quale stanno segando il tronco, ma né cade, né perde la capacità di giocare il pallone, col quale ha anzi mantenuto contatto. Ancora con l’esterno destro anticipa l’intervento di Bergmark e il ritorno di Gustavsson – che, sorpreso, cade di nuovo – e manda al tiro Vavá da dentro l’area, il quale colpisce bene ma la mette dritta in bocca a Svensson. Come Pelé non sia caduto, in quest’azione arruffata e a tratti goffa, è difficile da spiegarsi. Come abbia addirittura continuato a giocare fino a mandare in porta un compagno deve essere un qualche tipo di miracolo, uno di quelli brutti che possono anche accadere e passare comunque inosservati. Ma da questa azione si può intuire una delle qualità più decisive del calciatore che è e diventerà Pelé: è sempre più in equilibrio degli altri, più centrato, e quindi più pronto ad andare in qualunque direzione, in qualunque momento.

La partita rallenta, il Brasile sollevato dall’ansia dello svantaggio, la Svezia tutto sommato soddisfatta di essere sopravvissuta alla furia che l’aveva investita. Emerge la grande qualità tecnica in campo, quella nobile e giocosa di Didi, che sulla trequarti fa un tunnel a Gren.

Quella pratica e verticale di Liedholm, che mette splendidamente giù un campanile e poi trova un corridoio pazzesco ingombrato solo in extremis dalla diagonale di Nílton Santos.

Al 32’ la difesa brasiliana respinge un cross, Pelè recupera il pallone al limite della sua area, conduce il contropiede centralmente e scarica sulla destra per Zito, poco prima della linea di centrocampo. Zito trova Garrincha larghissimo a destra, all’altezza della trequarti. Due svedesi si frappongono tra lui e la porta. Garrincha li punta entrambi, li spinge fin dentro l’area di rigore e lì li carbonizza con uno scatto folgorante verso il fondo. Cross basso in area piccola che sfugge alle mani di Svensson e sbatte sul piattone sinistro di Vavà, lanciatosi in spaccata a segnare il secondo gol del Brasile, quasi identico al primo. L’asse Garrincha-Vavà è talmente inarginabile che, più che un punto di forza, sembra un bug del gioco.

La luce

Nel secondo tempo gli spazi in campo sono più ampi e la partita si fa più fisica. La Svezia sfiora il pareggio con un’incursione di Skoglund dalla sinistra che Liedholm, contrastato, non riesce a finalizzare. Il Brasile tiene bene dietro ma sembra aver perso brillantezza davanti. Invece, dalla penombra, una improvvisa luce accecante. Al 55’ Vavà esce dall’area per duettare a sinistra con Zagallo, il quale punta e tenta di saltare in tunnel Bergmark, ma lo svedese riesce a recuperare e allontanare faticosamente il pallone. Nílton Santos è però molto alto a sostegno dell’azione e intercetta già sulla trequarti, sempre sul lato sinistro del campo. Il terzino del Botafogo ha un soprannome, a Enciclopédia , assegnatogli in riconoscimento della sua eccezionale conoscenza del gioco. Qualche anno fa aveva affermato: «Non invidio i soldi ai calciatori di oggi, ma la libertà che hanno di spingersi in avanti». Lui quella libertà, benché più limitata, se l’era costruita da precursore con la forza, la tecnica, la personalità. Nella prima partita del girone, contro l’Austria, aveva intercettato un pallone sulla trequarti sinistra, chiesto il triangolo e chiuso l’azione con un tocco sotto a scavalcare il portiere: un gol contemporaneo, che sembra fatto, per dirne uno, da Marcelo. L’Enciclopedia ha il tempo di alzare la testa, poi crossa in area col mancino. Il passaggio è per Pelé, inseguito da Parling. Lo svedese non ambisce alla palla, ma a trovare un contatto fisico con il ragazzino brasiliano. Ma Pelé è diventato, di nuovo, un’illusione indifendibile. È lì in carne ed ossa, eppure è insensibile agli altrui sforzi di ostacolarlo. Parling non lo trova, fallisce nell’operazione di localizzarlo geograficamente. Pelé è saltato in avanti, incontro al cross e lontano da Parling. La mette giù di petto e subito ha davanti Gustavsson, l’altro centrale. Si corrono incontro, il pallone è nel mezzo, Pelé in vantaggio, Gustavsson vicino, pronto. Non c’è spazio per tirare, può spostarla a destra o a sinistra, e in entrambi i casi si può prendere. Invece Pelé volatilizza il pallone, l’ultimo corpo fisicamente intercettabile rimasto alla difesa svedese. La sfera si alza di due metri sopra la testa dell’accorrente Gustavsson che, di pura frustrazione, decide di abbattere in corsa Pelé conficcandogli i tacchetti nella parte superiore della coscia destra. Più che un fallo è un esperimento mirato a stabilire se sia effettivamente possibile interferire con l’esistenza e l’azione di Pelé. L’esperimento ha esito negativo: Pelé semplicemente si ritrae, sfila la coscia da sotto il piede a martello di Gustavsson e riequilibra il corpo di conseguenza, senza smettere di fissare il pallone in aria. Il brutale intervento di Gustavsson è avvenuto, ma non ha avuto alcun esito, quindi non è mai esistito. Anzi, il tentativo di opposizione è andato così male che Pelé è addirittura leggermente avanti rispetto al pallone. Non che sia un problema: richiama all’ordine la gamba destra e si coordina per il tiro al volo scomponendosi in due pezzi. Il busto supera il pallone, finendo per sovrastarlo nel momento dell’impatto. Dai fianchi in giù Pelé resta invece dietro al punto di caduta della palla. Quando colpisce ha le gambe perpendicolari e il busto parallelo al terreno. Lo stile è goffo ma il tiro è pulitissimo e buca Svensson. Il Brasile va sul 3-1 a 35’ dalla fine e vede la coppa del Mondo.

Il Vecchio Lupo

La Svezia sente la fine vicina e tenta di scuotersi aumentando ostinatamente il ritmo. Liedholm e Gren chiedono qualcosa in più agli esterni Hamrin e Skoglund, ma i due Santos brasiliani, benché in grado di spingere, sanno prima di tutto difendere e la reazione della Svezia non va oltre qualche bel pallone messo in mezzo. In cambio, il Brasile ha lo spazio e la spensieratezza per ripartire e rilassarsi. Così succede che Garrincha salti Axbom tre volte di fila nella stessa azione, sempre dalla stessa parte, eppure sempre imprendibile.

Al 68’ Didi ruba palla a Gren e lancia in area Pelé. Parling è ancora in ritardo, ma riesce a recuperare in tackle e a chiudere in angolo. Dalla bandierina va Zagallo, la palla messa fuori e il tiro al volo di Didi viene deviato di nuovo dalle parti di Zagallo. Mário Jorge Lobo Zagallo, la Formiguinha, sarà l’allenatore del terzo Mondiale del Brasile, quello del 1970, ma per quel giorno il suo soprannome sarà già diventato quello con cui è conosciuto ancora oggi, Velho Lobo, Vecchio Lupo. La formichina era una copertura, Zagallo non è un gregario. Nato interno di centrocampo, si era lasciato spostare sulla fascia sinistra pur di trovare posto nell’undici titolare. Da lì, contrappeso intelligente dell’anarchia di Garrincha, era rapidamente diventato lo stabilizzatore tattico di tutta la squadra, pronto a rientrare al posto di Nílton Santos, a coprire al centro le sortite di Didi, a far spazio a Pelé o Vavà quando si allargavano da quella parte. Zagallo arriva per primo in area sul tiro deviato di Didi, vince facilmente il contrasto, avanza e segna in scivolata di sinistro anticipando l’uscita di Svensson. Si è infilato in un corpo molle, che non ha più l’attenzione e la determinazione necessarie a contenere le incursioni brasiliane.

La scontro si attenua. La Svezia incapace di andare al tiro e consapevole di aver perso; il Brasile intento a dissimulare il complexo de vira-lata ostentando sicurezza e colpi di tacco.

A dieci minuti dalla fine Gustavsson anticipa bene Didi al limite della sua area, dopo che Pelé era stato fermato da Parling. Pallone consegnato a Liedholm che avanza centralmente, scambia con Gren e una volta giunto sulla trequarti serve il movimento in profondità di Simonsson con un filtrante che passa tra i due centrali di centrocampo, Didi e Zito, e i due centrali difensivi, Bellini e Orlando. Simonsson fredda Gilmar in uscita prendendolo in controtempo con un tiro di prima.

O Rei

Sotto di due gol a dieci minuti dalla fine, la Svezia non sa se sia il caso di crederci. Ma il Brasile alza nuovamente l’intensità fisica e rallenta il gioco, e da lì alla fine non rischierà più nulla, se non per un’incursione di Hamrin ben chiuso dai due centrali. L’ultimo pallone della partita lo intercetta Orlando poco prima della linea di centrocampo, e sarà quello dell’incoronazione. Lancio mancino trenta metri in avanti per il petto di Pelé che la stoppa girandosi verso la porta, scarica di tacco sulla sinistra per Zagallo e si dirige in area dettando l’assist al compagno. Il cross di Zagallo arriva preciso e Pelé sale a prendersi il trono sul quale siede tuttora. Colpisce di testa praticamente nello stesso punto dal quale, dodici anni dopo, segnerà anche il suo terzo e ultimo gol in una finale di Coppa del Mondo, quello che apre le marcature contro l’Italia all’Atzeca di Città del Messico. Prende il pallone da sotto, non con la fronte, ma con la parte laterale del cranio, mandandolo ancora una volta per aria, imprevedibilmente, fuori portata per tutti. Il tiro compie un arco che termina rimbalzando sulla riga di porta, a qualche centimetro dal palo lontano, e finisce in rete. Sigge Parling disse: “Dopo il quinto gol, avevo voglia di applaudirlo anche io”.

Subito dopo il colpo di testa, Pelé cade abbattuto da un duro intervento di Axbom e resta a terra imbevuto di dolore fisico, gioia e stanchezza. A 17 anni ha raggiunto il traguardo più importante della sua carriera e della storia calcistica del Brasile. Ha segnato 6 gol in 4 partite, 3 in semifinale e 2 in finale. Non c’è niente di più grande che possa ancora arrivare: davvero ha senso rialzarsi? L’arbitro fischia la fine, il Brasile è ufficialmente campione del Mondo e a quel punto Garrincha e Djalma Santos tirano su Pelé, che scoppia a piangere tra le braccia dell’ala destra. Piangerà fino alla premiazione. Non sarà l’unico, ma il pianto di Pelé è libero e ininterrotto come quello di un bambino, e proprio come un bambino viene consolato da chi di volta in volta gli si trova accanto, da Gilmar a Didi al membro dello staff tecnico che vuole portare il neoeletto O Rei in trionfo. Sopraffatto, non riesce ad alzare la testa, come se sentisse già il peso della corona che il Brasile sta per infilargli. La sua giovinezza è finita lì, a Stoccolma, con quel colpo di testa che segna l’inizio del suo incredibile regno. Vincerà tutto, segnerà più di chiunque altro. Non sarà mai più così emotivo.

Quando consegnano la coppa al capitano Bellini, alcuni fotografi brasiliani non riescono a inquadrarla, ostruiti dall’altezza dei colleghi svedesi. Allora gridano a Bellini di portarla più in alto, così che la possano fotografare anche loro, e lui li sente e obbedisce. È quella l’occasione in cui alzare un trofeo si cristallizza come il modo – l’unico, nel calcio e in tutto lo sport – per riceverlo. All’ingresso del Maracanà è stata posta in seguito una statua di Bellini che porta la coppa verso il cielo. Per definire come si celebra una vittoria sportiva, probabilmente non c’era uomo più adatto del capitano del Brasile.

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